Delia (Cl). Un paesaggio della Sicilia interna |
Ma questi siciliani,
raccontano tutti la stessa storia? E la sicilitudine, questa
mitica malattia morale di cui ha parlato Sciascia (a proposito di
Brancati) colpisce proprio tutti i siciliani, anche quelli più
refrattari al virus, cioè al «mito» stesso dell'Isola? In effetti,
un tratto comune, da Verga a De Roberto a Brancati a Tornasi a
Sciascia, è un certo dispetto, se non rancore, verso l'immobilismo
irrazionalistico dei siciliani e un'opposta infatuazione per
l'attivismo razionale dei nordici. Come se «troppa» Sicilia, con le
sue canicole e i suoi assopimenti e la sua dolcissima uva insòlia,
fosse insostenibile per i siciliani stessi, che dunque spesso fuggono
via, a Parigi, a Londra, a Torino, dove i «limiti» del luogo
coincidono con l'eccellenza delle soluzioni produttive.
Una sconfinata
amarezza
In un «notturno»
magistrale e straziante del Mastro don Gesualdo, Verga ci
parla dell'«amarezza» del paesaggio siciliano: «Uno struggimento,
un'amarezza sconfinata venivano dall'ampia distesa dell'Alìa,
dirimpetto, al di là delle case dei Barresi, dalle vigne e gli
oliveti di Giolio, che si indovinavano confusamente, oltre la via del
Rosario ancora formicolante di lumi, [...]dal cielo profondo,
ricamato di stelle...». Su questa stessa nota si modulano le
successive arie siciliane di De Roberto e Tornasi e di tutti gli
altri, come se «struggimento» e «amarezza» fossero i termini
esatti con cui riferirsi non solo al cielo ma alla mentalità dei
siciliani (così astratta, peraltro, così poco psicologica).
Non uno dei grandi
personaggi siciliani, da quelli di Verga a quelli di Sciascia, è
immune dalla sconfinata amarezza che sta, prima di tutto, nelle cose
intorno, nella vastità stessa dell'arido suolo isolano, nel sole a
picco sui sassi o sulle macchie di sugheri e tamerici. Quando, nel
Gattopardo, a mezzodì, i due cacciatori don Fabrizio e don
Ciccio vi giungono, la cima del monte rivela «l'aspetto della vera
Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche e aranceti non sono
che fronzoli trascurabili: l'aspetto di un'aridità ondulante
all'infinito in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali, delle
quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in
un momento delirante della creazione». Il luogo stesso, in cui i due
amici riposano, bevendo vino dalle borracce di legno e mangiando
«soavissimi muffoletti», è dunque «sconfortato» e «irrazionale».
Un elemento di sconnessione e di demenza agita e blocca le onde di
quel mare di pietra.
Fare è un peccato
imperdonabile
La grandezza dei
siciliani è davvero in questo a tu per tu con la creazione. Anche la
storia, e lo strozzarsi della storia nell'ingiustizia, - argomento
dei Viceré di Federico De Roberto -ha a che fare, in Sicilia,
con una specie di continuata istanza metafisica e con un'arcana fede:
che la creazione non abbia senso e nessuna opera umana, nessuna
intelligenza, nessuna diligenza, nessun disegno, nessuna umana cura
possa restituire mai ciò che forse per pura distrazione,
onginarigmente non è stato previsto. L atroce cupidigia degli Uzeda,
nei Viceré, la stupefacente follia imprenditoriale di Mastro
don Gesualdo, il disincanto del principe di Salina, nel Gattopardo,
non sono, in effetti, che reazioni, più o meno paradossali, allo
stesso male. E quando illustra a Chevalley, nel celebre dialogo,
l'«irredimibile» paesaggio insulare -mai distensivo «come dovrebbe
essere un paese fatto per esseri razionali» - il principe Salina
allude precisamente a quei mali: «Il peccato che noi siciliani non
perdoniamo mai è semplicemente quello di fare». Di fronte al non
senso della creazione, e alla sua tangibile evidenza nelle linee
irrazionali del paesaggio siciliano, fare o mutare alcunché, è
stupido.
D’altra parte, è
proprio da questo cerchio vizioso - nichilismo, irrazionalismo,
immobilismo - che il siciliano, contravvenendo alla sua stessa
«intelligenza», vuole uscire: il Nord amatissimo è una specie di
retroguardia dello spirito insulare, un campanello d'allarme, una
scossa nel delirio di immobilità. Le lezioni di Letteratura
inglese, dettate al giovane Francesco Orlando, sono il vero
capolavoro di Tornasi, benché a tutt'oggi quasi ignorato: l'autore
si muove tra Elisabettiani e Puritani, tra Wordsworth e Jane Austen,
come nelle stanze di casa, tra i più cari amici, con la stessa
suprema gentilezza, con la stessa arguzia e lo stesso genio
dell'ospitalità. E ancora: nelle lettere scritte dall'Inghilterra
(raccolte ora in Viaggio in Europa, a cura di Gioacchino Lanza
Tornasi e Salvatore Silvano Nigro), «l'incredibile serenità» delle
campagne inglesi, i «prati con armenti», i fiumi pigri e «ricolmi»,
le colline «fastose» come in una pastorale di Sydney sono
precisamente all'opposto delle sconfortate e sghembe macchie di
carrubi di Donnafugata.
Sempre esitare tra
il no e il sì
Ma la mera esistenza di
un altro paesaggio, sereno e razionale, non è sufficiente, anche per
un siciliano, a postulare addirittura la possibilità d'un altro
universo, su cui il non senso del primo si spunti? La sicilitudine,
dopotutto, non è un'alta e sempiterna esitazione tra il no e il sì?
"Tuttolibri La Stampa", 24 setttembre 2007
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