Musei Capitolini - Cicerone (particolare) |
Sono secoli che si
infierisce su Marco Tullio Cicerone. Dalla querelle des anciens et
des modernes, il suo nome è sinonimo di retorica e antiquariato,
della impotenza a essere altro da una sintesi scolastica della
latinità: viene preso di regola per un avvocato senza scrupoli,
buono per tutte le cause e tutte le stagioni, per un politico
doppiogiochista (homo novus rinnegato, borghese affetto da
invidia e sudditanza nei confronti dell’aristocrazia), per un
filosofo privo di originalità e a rimorchio della tradizione greca.
Tra Otto e Novecento le quotazioni addirittura precipitano: Theodor
Mommsen nella Storia di Roma lo dipinge come una banderuola,
Jéròme Carcopino, dimentico del proprio passato di
collaborazionista, ironizza sulle sottigliezze del Grande Mediatore
regolarmente
sconfitto mentre Giorgio
Pasquali, spirito troppo sarcastico per potersi affezionare
all'emblema
del decoro quirite,
giunge a pubblicare uno fra i pochi libri che in età moderna ne
rivaluti appieno la figura, ma lo fa quasi solo per il gusto di
poterne demolire l’oggetto (si veda Cicerone e i suoi amici,
1867, di Gaston Boissier, vivido ritratto di un’epoca dai forti
chiaroscuri, poi ripreso da Rizzoli nel 1988 con una bella prefazione
di Emanuele Narducci). E nientemeno Carlo Emilio Gadda si riserva il
colpo di grazia nel racconto San Giorgio in casa Brocchi
(1931-’52), dove ormai Cicerone, o meglio la sua opera più
solennemente impostata, il senile De officiis, corrisponde al
sentire di una borghesia avara, ipocrita, e tuttavia pasciuta con gli
avanzi del «minestrone di fagioli stoici, verze accademiche e carote
peripatetiche»; qui gli epiteti ingiuriosi si sprecano, si fa
riferimento alla parlantina, a una scodinzolante vanità, e lo si
bolla come araldo dell’ideologia oligarchica e come onesta vedova
del legittimismo fondiario. Ma va da sé che costui per i moderni è
bersaglio troppo grande per non i riuscire, al tempo stesso, un
bersaglio troppo facile.
Se la tradizione
dell’ostilità ne ha reso di senso comune i difetti, colui che
invece non ci aspetteremmo nel collegio di difesa, e cioè Sebastiano
Timpanaro (editore del De divinatione, Garzanti 1988),
invitava tempo fa a distinguere, per valutarle a una a una, tra
almeno quattro facce di una medesima fisionomia che, se guardata alla
spiccia, rischia lo stereotipo o una paradossale evanescenza: vale a
dire che vi si sovrappongono ora le maschere del politico e
dell’avvocato ora quelle del filosofo e dello scrittore.
In particolare delle
prime tre si occupa la biografia di Anthony Everitt Cicerone
Vita e passioni di un intellettuale (a cura di Lorenzo
Argentieri, Carocci editore), un libro dichiaratamente scevro di
ambizioni specialistiche ma che gode di un’ottima documentazione e
attinge un buon livello divulgativo, grazie a uno stile sobrio la cui
linearità è confortata in italiano dal lavoro di Argentieri, specie
nel trattamento delle fonti classiche. Everitt si propone un puntuale
esercizio di riabilitazione, e conclude: «Ai nostri occhi Cicerone
fu uno statista e un servitore della repubblica di eccezionale
abilità: aveva doti amministrative di prim’ordine e fu il più
grande oratore dei suoi tempi. (...) Il fatto che la sua carriera sia
finita in modo rovinoso e che per molti anni sia stato solo
spettatore degli eventi non è dovuto a una mancanza di talento ma a
un eccesso di principio. (...) Cicerone ebbe fama di uomo esitante e
pronto ai compromessi. È vero che a volte ebbe difficoltà a
decidere quale linea prendere, ma le sue mosse furono sempre tattiche
e non vendette mai le sue convinzioni. Il suo scopo fondamentale,
ripristinare i valori politici tradizionali, rimase invariato per
tutta la vita. (...) Ovviamente Cicerone inseguiva una causa persa».
In altri termini, Everitt
riporta Cicerone al presente e ne fa il simbolo di ogni età di
crisi, anzi un campione di «nicodemismo», costretto a soggiacere
fra una tavola di valori scolpiti nel bronzo e una sequenza di azioni
slegate e presto risucchiate entro la dinamica dello stato di cose
presenti, le res durae. (Questo ‘suo’ Cicerone sembra
fatto apposta per legittimare la doppiezza delle attuali classi
dirigenti, dove spesso l’enfatico richiamo alla democrazia
confligge con un tacito ricorso alla Realpolitik). Da un lato c’è
dunque l’ideologo della pacificazione e dell’interclassismo (la
cosiddetta concordia ordinum), che si lascia proclamare
volentieri Padre della patria, il fautore di una unità nazionale
stretta ai costumi della antica repubblica; dall’altro, un senatore
spregiudicato, la cui parabola è così tortuosa da sembrare
imperscrutabile: è l’uomo che fa condannare Verre, corrotto
amministratore di Sicilia (75 a.C.), che muove guerra
all’avventuriero Catilina (63 a.C.), ma è pure l’uomo che nei
vent'anni successivi al proprio consolato oscilla fra i signori della
guerra, che arrogandosi l’eredità della repubblica se ne
spartiscono di fatto le spoglie.
Nel corso delle guerre
civili, Cicerone funge da casella vuota e da bersaglio mobile: è
contro Silla ma dissimulando la simpatia per Mario, contro Cesare
senza essere di Pompeo, coi cesaricidi però diffidandone e
cautamente avvicinandosi al delfino Ottavio. La sua morte a Gaeta per
mano dei sicari di Antonio (43 a.C.) somiglia infatti a un suicidio
simulato: racconta Tito Livio, un altro che per lui non stravedeva,
come si lasciasse catturare opposita cervice, porgendo la
testa. Allora è difficile seguire fino in fondo Everitt e avallare
le astuzie nicodemiche di uno statista che, senza essere un
reazionario e nonostante la tempra morale, rifiuta con ostinazione di
vedere il male che sul serio annienta la repubblica: la mancata
riforma agraria, il gretto attaccamento al diritto di proprietà da
parte degli stessi nobili di cui ama ritenersi un fiore all’occhiello
e il paterno consigliere (Lo stesso Timpanaro ricorda: «Ma la
coscienza della crisi non lo indusse mai a staccarsi dalla fedeltà a
un’oligarchia ormai incapace di governare lo stato, e la sua
condizione di homo novus, di cui fu orgoglioso, fu da lui
interpretata nel senso di portare energie fresche, e anche una
maggiore onestà amministrativa, a un regime che bisognava però, a
tutti i costi, conservare»).
Forse Cicerone è nostro contemporaneo
proprio in ciò che Everitt delibera di escludere dal suo ritratto. È
il teorico che demolisce il formalismo oratorio bypassando
«atticismo» e «asianesimo» (lo snobismo della povertà, la moda
del barocco) per formulare un’arte del discorso dove sapere
filosofico e cultura divengano necessità di lingua e stile (vedi i
dialoghi, fra il 55 e il 46, De oratore, Brutus, Orator), ed è
infine il grande autobiografo, lo scrittore delle epistole all’amico
Attico e ai familiari, che, se non raggiungono la profondità di
quelle poi spedite a Lucilio da Seneca, discoprono la vita quotidiana
a Roma nel gran secolo e, soprattutto, incarnano un modello che nel
mondo antico non conosce eguali, per plasticità e ricchezza di
registri. Forse è lì che si dovrebbe leggerlo. Ed è lì che suona
vera la battuta del nemico Tito Livio quando scrive: per tessere la
lode di Cicerone ci vorrebbe un altro Cicerone.
“alias il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 2005
Nessun commento:
Posta un commento