"Il ballo al Kremlino", un
reportage con ambizioni romanzesche
Anche
nelle premesse iniziali, le ragioni del viaggio di Curzio Malaparte
nella Russia degli anni venti erano molto diverse da quelle dei molti
scrittori, da Gide a Malraux, che si affacciavano nella neonata terra
dei Soviet per rendersi conto coi propri occhi a che punto fosse la
costruzione del socialismo. Allo scrittore toscano interessava
vedere, attraverso la nuova classe al potere, verso quale futuro si
stesse incamminando la Russia. I capi di protocollo, i funzionari di
partito, le mogli di esponenti più o meno in vista sono i
protagonisti de Il
ballo al Kremlino
(a cura di Raffaella Rodondi, Adelphi), che esce ora per la prima
volta dopo la pubblicazione ('71) nel volume dedicato agli inediti
delle Opere
complete
curate per Vallecchi da Enrico Falqui.
Concepito
attorno al '45, dentro l'officina de La
Pelle,
questo romanzo doveva essere il terzo pannello di un affresco sulla
decadenza dell'Europa prima sotto il dominio dei tedeschi (Kaputt),
poi sotto quello americano (La
pelle),
infine sotto quello sovietico, ancora eventuale ma da molti
paventato. Da quel viaggio compiuto nel '29 nella Russia alle soglie
del primo piano quinquennale, segnata dalla ormai definitiva vittoria
di Stalin sulla troika Zinoviev-Kamenev-Trotzki, Malaparte aveva già
tratto materiali per Tecnica
del colpo di stato
e Intelligenza
di Lenin.
Il
ballo al Kremlino
è dunque quello che più naturalmente si presta a essere letto come
resoconto di viaggio, essendo costruito attorno a una serie di
ritratti e incontri che diventano lunghe sequenze quasi del tutto
autonome. Dalla prima al Gran teatro dell'Opera, dove Stalin si reca
ogni sera per ammirare dal buio del suo palchetto le caviglie della
Semionowa, alla casa di Majakovskij, visitata con il permesso
speciale del Commissario del popolo per l'Istruzione Anatolij
Lunacarskij appena qualche ora dopo il suo suicidio, agli sdruciti
mercatini nei quali l'antica aristocrazia zarista mette in vendita i
rimasugli dell'antica opulenza sperando di poter tirare a campare.
Ciononostante
sono passati quindici anni e più dai giorni di quel viaggio e questo
rende sostanzialmente impensabile poterlo definire un mero resoconto,
nonostante il tono impressionistico di molti squarci moscoviti. «Ciò
che fa di questo romanzo - scrive l'autore nella prefazione - non una
cronaca di corte nel gusto francese del XVIII secolo, non un libro di
Memorie alla Saint-Simon, o un libro di moralités
alla Montaigne, ma un romanzo nel senso proustiano (non in quanto
allo stile, ma in quanto a quel senso acuto del désintéressement,
che fu proprio dei romanzi e dei personaggi di Marcel Proust), è il
fatto che i fatti e le persone, gli episodi di questa “cronaca di
corte" sono legati da una fatalità che li convoglia tutti verso
un fine unico, verso uno scioglimento romanzesco».
Malaparte
ha a cuore una tesi e vuole renderla chiara sin dagli ultimi anni di
guerra, quando inizia a mettere mano alle opere maggiori:
l'incredulità, dopo il fallimento dei fascismi che volevano
conquistare l'Europa per scagliarla tutta intera contro il nemico
sovietico, tanto verso gli americani sbarcati in forze quanto infine
verso i russi. Contrasta col cammino predeterminato al quale a un
certo punto si capisce debbano essere piegate certe pagine, la
freschezza di altre: come la passeggiata nel mercato dei vecchi
zaristi, con Malaparte che si offre di portare sulle spalle la
poltrona che il vecchio Lvov, l'ultimo presidente della Duma,
vorrebbe vendere per tirare su qualche rublo. Mentre di dubbio
effetto risulta la chiacchierata con Lu-nacarskij su Majakovskij,
presto pie-gatain dissertazione su Dio e il popolo russo.
Come
aveva avvertito lo stesso autore, è piuttosto scoperto il
riferimento alla Recherche. A parte l'attenzione nel descrivere i
futili bisogni delle nuove dame, è la strutturazione circolare
dell'opera, seppur rimasta incompiuta, a segnare il rimando al
capolavoro proustiano. Nel Ballo
tuttavia è assente per stessa ammissione dell'autore il «piano
morale», e al suo posto il cinico irrazionalismo malapartiano si
agita in troppo larghe anse, portandolo a lunghi, estenuanti brani in
cui si discetta piuttosto vacuamente, alla russa, degli universali. O
si accusa Trotzki di essersi messo alla testa della parte più
corrotta della dirigenza sovietica.
“alias
talpa – il manfesto”, 6 gennaio 2013
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