"Di fronte e di profilo".
Quasi
un dizionario enciclopedico
sull'autore della «Tregua»,
scritto
da Marco Belpoliti
Nel
fondamentale saggio che Alberto Asor Rosa dedicò alla letteratura
dell'Italia contemporanea nella Storia d'Italia (Einaudi, 1975),
l'autore di Cristo si è fermato a Eboli compare solo con il
cognome, Levi. A distanza di quarant'anni può accadere di sentire in
un programma televisivo che a scrivere quel romanzo fu Primo, e non
Carlo, Levi; lapsus (o colpevole ignoranza?) che testimonia come lo
scrittore di Se questo è un uomo sia ormai riconosciuto fra i
«classici», a conferma della definizione di Giuseppe Pontiggia: «i
classici sono i contemporanei del futuro». Capita alla critica,
letteraria e no, quel che Primo Levi diceva di se stesso: la risposta
giusta spesso gli veniva «quand'era sulle scale», cioè a cose
fatte e in ritardo.
Nel
1947 la Einaudi rifiutò di pubblicare Se questo è un uomo.
L'amica Natalia Ginzburg accolse il suggerimento dell'altro lettore
del testo, Cesare Pavese: «non è ancora il momento»; meglio
aspettare per non rischiare che il libro finisca disperso fra le
tante testimonianze di reduci e deportati. Lo stesso Levi avrebbe
riconosciuto che allora tutti avevano altro cui pensare: case,
lavoro; si aveva voglia di ballare e di fare festa. «Un libro come
questo mio era quasi uno sgarbo, una festa guastata». E così la
testimonianza più alta della sorte disumana patita ad Auschwitz uscì
per la piccola casa editrice De Silva; l'attenzione fu scarsa
(Calvino fu tra i pochi a recensirlo), poche furono le copie vendute
(le restanti sarebbero finite, forse, sommerse nell'alluvione di
Firenze nel '66). Venne ristampato nel '58 da Einaudi, ma solo con La
tregua - uscito nel '63 - si riconobbe a Primo Levi dignità
letteraria. E furono le traduzioni negli Stati Uniti, in particolare
di quella lettura obbligata per tutti i chimici che è la sua
autobiografia, Il sistema periodico, a sancirne il
riconoscimento internazionale.
Ma
oggi a Levi non attribuiamo soltanto la grandezza del «testimone»;
ne apprezziamo la puntuale e dolente riflessione sul «male»,
culminata nell'opera che doveva divenire testamentaria, cioè I
sommersi e i salvati; riconosciamo la ricchezza immaginifica
delle invenzioni fanta-tecnologiche dei suoi racconti, l'etica del
lavoro affidata alla Chiave a stella, la vastità delle
incursioni in quasi tutte le regioni dell'Enciclopedia (come accade
nell'Altrui mestiere), con l'obiettivo di gettare ponti fra le
due culture, perché «i ponti sono il contrario delle frontiere». E
di tutto questo si deve certo rendere merito alla «lunga fedeltà»
che Marco Belpoliti ha dimostrato verso gli scritti e il pensare di
Levi; ne ha curato i due volumi delle Opere presso Einaudi nel
1997, ha promosso nello stesso anno il numero monografico della
rivista «Riga», e ora pubblica Primo Levi. Di fronte e di
profilo (Guanda), una sorta di corposo dizionario, una summa
imprescindibile dove la storia delle vicende editoriali dei libri e
dell'accoglienza della critica si alterna a lemmi dedicati ai temi
più significativi degli scritti di Levi (cinquanta pagine ne
ripercorrono il «bestiario», le presenze di animali), una
bibliografia ragionata imponente.
Quello
che emerge dal lavoro di Belpoliti è il volto di «un autore
necessario e decisivo», unico e straordinario anche sul piano della
lingua letteraria. Una lingua che oggi ci appare la più consona a
narrare l'orrore del Lager, ma che nel dopoguerra doveva suonare
stonata a quanti sperimentavano le forme del neorealismo. È una
lingua che trae origine dalla narrazione orale, dai tanti racconti
fatti ad amici; sulle pagine del «manifesto», in occasione della
pubblicazione di Lilìt, Domenico Starnone osservò che Levi è
«uno di quelli che scrivono lasciando dentro la scrittura un po' di
voce». Ma
il tono alto, la classicità degli stilemi, una certa retorica
mutuata dai classici latini, l'icasticità della narrazione
lasciavano l'impressione - nota Belpoliti - di un impostazione
aulica, da studente di liceo classico, che non aveva preso definitiva
distanza dalla retorica fascista.
Levi
ha messo il raccontare al servizio della testimonianza; se è grande
testimone lo è perché è un grande scrittore, perché la finzione
letteraria assolve alla funzione della verità: conservare memoria
dell'esperienza del campo di annientamento. La scrittura di Levi si è
formata anche sul suo primo mestiere, il chimico: un racconto si
costruisce come un apparecchio in laboratorio, richiede simmetria e
precisione, non concede nulla al superfluo. Soprattutto la scrittura
testimoniale impone di comunicare in modo diretto, sul modello del
rapportino settimanale di fabbrica, come lui diceva.
In
fondo, la letteratura di Levi non fa che perseguire l'intento della
scienza con altri mezzi: scrivere è un modo per mettere ordine («il
migliore che io conosca», aggiungeva), mentre la poesia, a cui si
dedicò a intervalli, è un modo per scandagliare il disordine. La
lingua «marmorea» di Levi, con il gusto della brevitas,
la tendenza alla concisione e all'esattezza, affonda le sue radici
nella consuetudine ai testi scientifici e tecnici (in questo, il suo
sodale più prossimo è, paradossalmente, il «barocco» Gadda). È
l'habitus
dello scienziato a predisporre lo sguardo «naturalista» di Levi
mentre osserva l'esperimento condotto sull'animale-uomo nel crudele
laboratorio di Auschwitz. La vittima, cavia riportata alla condizione
bestiale è al tempo stesso il ricercatore che si sforza di
comprendere, nei modi dell'etologo e dell'etnologo, quanto sta
subendo. È anche lo «sguardo da lontano» (Levi tradurrà negli
anni Ottanta l'opera così titolata di Lévi-Strauss) a fare di Se
questo è un uomo
la massima testimonianza dei meccanismi dello sterminio. È
l'ibridazione, il meticciato fra il sapere del chimico e la
tradizione che diciamo umanistica, a rendere ineguagliate le sue
pagine.
Nel
«centauro» Levi, la parte chiara, il «tecnico» di formazione
positivista, assertore di un laico illuminismo al pari dell'amico
Calvino, convive con un lato oscuro, come lui stesso riconosce nella
Ricerca
delle radici,
l'antologia personale degli autori che lo hanno formato. «Si vede
che, per quanto ami negarlo, uno straccio di Es ce l'ho anch'io.
Insomma, mentre la scrittura in prima persona è per me, almeno nelle
intenzioni, un lavoro lucido, consapevole e diurno, mi sono accorto
che la scelta delle proprie radici è invece opera notturna,
viscerale e in gran parte inconscia». Restiamo animali-uomini,
ibridi impasti di argilla e di spirito: i due profili formano -
sostiene Belpoliti - due metà simmetriche, o meglio enantiomorfe,
come le nostre mani che dobbiamo far ruotare per sovrapporre. Ma per
Levi il fondo magmatico, dove si avverte la voce dell'inquilino del
piano di sotto, deve essere filtrato per poter accedere alla solarità
della superficie, al piano razionale.
Certo,
non si dà una scrittura perfettamente lucida e consapevole, ma
scrivere resta per Levi lo sforzo continuato per compiere «un
trapasso dall'oscuro al chiaro». Lo stesso sforzo che ci è imposto
per separarci dalle nostre radici animalesche, quelle in cui possiamo
ricadere quando veniamo «bestializzati», come è accaduto alla
Germania hitleriana, quando rinunciamo alla responsabilità che è
propria degli umani per divenire grigi esecutori di ordini altrui,
ordinari burocrati del male. Nell'intento pedagogico di Levi, nei
suoi toni «da buon maestro del tempo che fu», si rivela - osserva
Belpoliti □ la «genialità dell'uomo comune», l'esatto rovescio
della banalità del male. È per questo che possiamo condividere il
giudizio formulato da Sergio Luzzatto in Partigia, puntuale
ricostruzione della breve esperienza resistenziale di Levi:
«l'interprete più alto, nel paesaggio italiano del Novecento, di
una civiltà dell'intelligenza e di una dignità della memoria».
“il
manifesto”, 27 settembre 2015
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