Arnaldo Momigliano (1908 - 1987) |
«Col passare delle
settimane il significato della caduta di Mussolini sta precisandosi.
La caduta di Mussolini non ha segnato la fine del fascismo».
Con questa osservazione
Arnaldo Momigliano apriva, da Radio Londra, la prima delle sue
Conversazioni sul nazismo (tuttora inedite). Era il 15 agosto
del 43: nel pieno dei quarantacinque giorni badogliani, quando viva
era la discussione tra le forze antifasciste sul significato degli
avvenimenti in corso. L’ammonimento a non considerare chiuso il
ciclo del fascismo veniva in quel momento dalla sinistra (azionisti,
comunisti ecc.), mentre la tendenza dei moderati era, com’è noto,
a considerare chiusa la «parentesi». Luigi Einaudi riprendeva la
collaborazione al «Corriere della Sera» il 22 agosto del 43 con le
parole Heri dicebamus, come se davvero - chiusa la parentesi
fascista - «ieri » fosse il lontano 1925, quando Albertini era
stato estromesso, e con lui i suoi col-laboratori, dal grande
quotidiano benpensante. Non era soltanto una disputa storiografica,
come divenne anni dopo, era il dissenso tra chi pensava di rimettere
in piedi l’Italia liberale prefascista e chi, puntando ad una più
avanzata democrazia, pensava che col fascismo fosse irrimediabilmente
morta anche l’Italia prefascista. Dissenso profondo e capitale, che
si ripropose all’apertura della Costituente (Croce - Parri). La
discussione è viva anche a Radio Londra, dove si alternano le
opinioni trionfalistiche di chi parla del fascismo come ormai
liquidato e le opinioni contrarie, come quella espressa da Momigliano
e dal pugnace Candidus: «Il fascismo senza Mussolini è pernicioso
quanto il fascismo con Mussolini».
Gli anni di Londra non
erano stati facili, in principio. Momigliano non ha raccontato, che
io sappia, le vicende di quegli anni (non amava l’abito
vittimistico); ha, semmai, ricordato sempre con passione e rimpianto
quelli che rimasero e finirono (i molti Finzi-Contini della borghesia
ebraica italiana, cui apparteneva la famiglia dello storico) nelle
camere a gas.
C’è però uno scritto
suo felicissimo, la prefazione (novembre 1961) alla Rivoluzione
romana di Syme, che accenna, su di un piano non immediatamente
biografico, alle difficoltà di comprensione tra gli esuli dei paesi
dominati dal fascismo e l’ambiente inglese (nel caso particolare si
tratta dell’ambiente alto-accademico). Momigliano rievoca il
proprio incontro con il libro di Syme appena pubblicato, e con
l’autore, nell’estate del ’39, «quando oramai la guerra era
stata dichiarata e le notti si facevano sempre più lunghe su Oxford
immersa nell'oscurità». Al di là del fascino trascinatore, che
qualunque lettore della Rivoluzione romana ben conosce, il
libro pose all’esule serie difficoltà: «la ragione prima di
queste difficoltà - scrive Momigliano ventidue anni dopo - è molto
semplicemente che tra il 1938, in cui il libro fu scritto, e il 1939
in cui fu pubblicato la situazione era talmente cambiata da creare
uno squilibrio tra l’animo dello scrittore e quello del lettore.
Ciò che nel ’38 era
segno di volontà implacabile di vedere chiaro nelle intenzioni dei
dittatori, contro le illusioni degli appeasers, era ormai
insufficiente come presa di posizione in una guerra da cui, per bene
o per male, doveva emergere una società nuova» (espressione
quest’ultima di per sè molto significativa e agli antipodi dello
statico heri dicebamus). Detto in modo più aperto: il libro
di Syme metteva, con qualche compiacimento, a nudo il vero volto dei
dittatori e la natura «alla duca Valentino» del loro potere, ma non
era affatto un libro antifascista. Giudizio tanto più significativo
in quanto ripensato tanti anni dopo.
Questa considerazione su
Momigliano storico in esilio e sulla sua duplice esperienza (politica
e culturale) mi porta a proporre una definizione di lui che certo non
gli sarebbe piaciuta: fu, a suo modo, in un modo che i sectatores
potevano anche non intendere, uno storico militante. È qui la
ragione per cui, nella sua indagine (non solo nelle dichiarazioni di
principio), ricerca concreta e storia degli studi sono sempre stati
aspetti indissolubili di un unico lavoro.
Di qui la sua polemica,
quando apparve (1959) la traduzione italiana della Storia greca
di Berve senza che ci si ricordasse di studiarne le matrici
culturali, contro «il vezzo di prendere la storia della storiografia
come passatempo domenicale, per quando si è stanchi del vero lavoro
storico e non si ha energia sufficiente per leggere i libri, ma solo
per sfogliarli». Di qui la sua costante attenzione alle vedute e ai
comportamenti politici dei protagonisti dell’antichistica moderna:
dalle angosce di Gibbon per la ribellione delle colonie americane, al
carattere «junker prussiano» del Pindaro di Wilamowitz, alla genesi
nel trauma della rivoluzione russa della Storia economica e
sociale dell’impero romano di Rostovcev, al «tarlo» - come
ebbe a scrivere - introdotto dalla problematica culturale del
fascismo persino nell’opera di studiosi che ne erano lontani, come
ad esempio Rostagni.
Ma militante fu anche in
un significato più profondo, più strettamente attinente, se
possibile, al mestiere di storico. Si può dire infatti che l’opera
di Momigliano sia stata costantemente pervasa da un'inquietudine per
le sorti della storiografia, l'allarme per i pericoliche insidiano la
storiografia (attività di per sè «politica» in sommo grado). Da
ultimo la formula con cui esprimeva il suo allarme era quella del
rischio rappresentato - come andava ripetendo - dai «retori». «Gli
storici hanno oggi da decidere se intendono abbandonare il territorio
della ricerca storica ai retori, tradizionali collaboratori degli
storici, ma la cui partecipazione al lavoro storico è sempre stata
fonte di contestazione»: è la conclusione della premessa (giugno
1984) alla raccolta Sui fondamenti della storia antica. Che
vuol dire qui «retorica»? Vuol dire l’ozioso riesporre ricerche
fatte da altri, per esempio ridire con terminologia aggiornata ciò
che già si sapeva (è la cifra del fenomeno Annales e della
cosidetta «nuova storia»; un mondo col quale Momigliano ha avuto
rapporti per lo più rispettosamente critici, e da ultimo di
freddezza). Ma coinvolge anche l’invadente ideologismo dogmatico,
che minaccia di sostituirsi all’indagine.
Se, in conclusione, ci si
chiedesse, di fronte all’immane lavoro di indagine e di critica
condotto per oltre mezzo secolo da Momigliano con la incessante serie
dei suoi Éssais, perchè gli studi storici sono diversi dopo
di lui, credo che a buon diritto potremmo rispondere che dopo di lui
abbiamo un’idea diversa del nostro rapporto con le fonti. Ci
poniamo molte più domande di fronte ai superstiti racconti della
storiografia, per esempio classica. Siamo più adulti di fronte alle
fonti perché abbiamo imparato a chiederci ad ogni passo: «come e da
chi lo ha saputo», «come ha colmato i vuoti dell’informazione»,
«per quale pubblico parlava o scriveva». Non a caso, perciò
l’autore su cui più a lungo è ritornato è stato Erodoto,
l'autore-archetipo, la cui opera era passibile di sviluppo in molte
direzioni (a cominciare dalla coniugazione di storia e geografia che
i “politici”, da Tucidide in poi abbandonarono). «La
problematica storica - scriveva nella voce Storiografia
dell’ultimo Supplemento dell’«Enciclopedia Italiana»
(1978) - non è mai, se non al caso limite, uno studio dei fatti in
quanto tali, ma uno studio delle fonti in quanto in un modo o
nell’altro ci diano i fatti». A chi veda in questa formulazione
tracce di filosofia idealistica (o neo-critica), si dovrebbe, credo,
far osservare che proprio a quell’orientamento di pensiero (Dilthey
rimane una vetta) si deve il massimo incremento della riflessione in
questo campo. E comunque vi è anche il riflesso delle prudenze della
nuova scienza del XX secolo.
Come Wilamowtiz e
Pasquali, Momigliano fu temperamento essenzialmente «ellenistico».
È quello il mondo che ha sentito con maggiore profondità; quello
dell’intreccio delle culture (non solo le tre culture-guida, greca,
ebraica e romana, ma anche iranica), quello della «mescolanza»,
«l’evo moderno dell’antichità», come scrise Droysen nelle
Lezioni di Istorica. E perciò forse il suo primo
appassionamento storiografico fu, dopo il cimento «tecnico» sui
libri dei Maccabei, appunto il «primo» Alessandro di
Droysen. Ma in Momigliano questo interesse prevalentemente non
nasceva soltanto dal fascino delle culture complicate e «moderne»
ma, in primo luogo, dal costante bisogno di scoprire gli intrecci tra
mondo politico e dimensione religiosa (sia delle masse che delle
èlites): le «fedi» degli uomini, non come segno della loro
inevitabile «follia» (come in fondo le considerava Gibbon) ma come
parte essenziale dell’«umano troppo umano» che è la pasta, la
creta, onde è fatta la storia. «Le malattie, la morte, l'amore, la
crudeltà e la follia – scrisse una volta in polemica con
l'accademico dell'Urss Diligenskij – sono altrettanto reali fattori
storici quanto l'ingiustizia sociale”.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma settembre 1987
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