Fernando Pessoa |
«Ho
creato in me varie personalità. Creo costantemente delle
personalità. Ogni mio sogno è immediatamente, appena lo comincio a
sognare, incarnato in un'altra persona, che incomincia a sognarlo, e
non io. Per creare, mi sono distrutto; dentro di me mi sono così
esteriorizzato, che dentro di me non esisto se non esteriormente.
Sono la nuda scena su cui passano attori diversi che recitano copioni
diversi». Non c'è oro nell'«alchimia fittizia della vita», l'oro,
anche se si paga con la distruzione, è nei sogni. E questo il
messaggio misterioso e conturbante che esce dal Livro
de Desasocego
di Fernando Pessoa, grandioso zibaldone fatto di fogli di diario, di
impressioni, di meditazioni, di sogni, di esaltazioni e di terrori, e
attribuito al suo «doppio», Bernardo Soares. Questo «libro»
accompagnò l'attività creatrice di Pessoa per più di vent'anni,
dal 1913 fino al 1935, l'anno della sua morte. Solo pochi testi
uscirono in riviste, il grande blocco dei frammenti, rinvenuto in un
mitico «baule», fu pubblicato parzialmente per la prima volta da
Jacinto Prado Coelho nel 1982, con un ordinamento per aree tematiche
(su questo testo, con modifiche, si è basata la traduzione italiana
di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, Feltrinelli, 1986).
La novità dell'ultima edizione, a cura di Jerónimo Pizarro, uscita
a Lisbona nel 2010, sta nell'aver pubblicato tutti i testi, e, per
quanto possibile, in ordine cronologico: questo permette di leggere
il «libro» in una dimensione diversa. Sul testo di Pizarro è
condotta la nuova traduzione del Libro
dell'inquietudine
(a cura di Paolo Collo, prefazione di Corrado Bologna, Einaudi
«Letture»).
Bernardo
Soares, l'eroe del «libro», è un triste impiegato, un po'
ipocondriaco, un po' bohémien, è un Pessoa dimezzato - Collo,
opportunamente, mette in parallelo i brani del libro, che sono le
memorie di un personaggio chiuso melanconicamente su se stesso, con
la straordinaria produzione poetica, saggistica, drammatica,
epistolare, traduttoria di Pessoa in quegli stessi anni -, ma
condivide con il suo autore l'ambizione e il periglioso trionfo di
moltiplicarsi, di esistere altrove, in altre anime: «Il più alto
livello di sogno è quando, creato un quadro con dei personaggi, li
viviamo tutti, contemporaneamente - siamo tutte quelle anime insieme
e interagenti. È incredibile il livello di spersonalizzazione e di
polverizzazione dello spirito cui si giunge, ed è difficile, lo
confesso, sfuggire a una generale stanchezza di tutto l'essere... Ma
è un tale trionfo!». E lo stesso vertiginoso programma del grande
eteronimo Alvaro de Campos: «Sentire tutto in tutte le maniere».
Trionfo, ma anche nausea, incubo, orrore. «La mia anima è un
malstrom tenebroso, un'immensa vertigine attorno a un vuoto, un
movimento di oceano infinito intorno a un buco nel nulla, e sulle
acque che sono più gorghi che acque galleggiano tutte le immagini di
ciò che ho visto e udito nel mondo - case, volti, libri, casse, echi
di musica e sillabe di voci, in un vortice sinistro e senza fine. E
io, proprio io, sono il centro che non c'è se non per una geometria
di abissi; sono il nulla attorno al quale gira questo movimento, solo
perché giri, senza che questo centro esista se non perché ogni
cerchio ne ha uno. Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti, ma
delle pareti viscide, il centro di tutto con il nulla attorno».
L'orrore, dall'Io, si allarga all'universo: «L'anima umana è un
manicomio di caricature, (...) un pozzo, ma un pozzo sinistro pieno
di vaghe eco, abitato da vite ignobili, viscosità senza vita,
lumache senza essere».
L'infinita,
lacerante meditazione di Pessoa-Soares è in sintonia con grandi
«voci» del passato, con Pascal, con Agostino: una rete
intertestuale che Corrado Bologna ricostruisce e illumina nelle sua
inquieta, suggestiva Prefazione.
Pascal. Cos'è l'uomo? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto
rispetto al nulla, sospeso com'è «entre ces deux abîmes de
l'infini et du néant». E Pessoa-Soares: «Noi non ci realizziamo
mai. Siamo due abissi: un pozzo che fissa il cielo». Agostino. Le
sue vertiginose riflessioni sul tempo - «Non misuro il tempo futuro,
perché non è ancora, non misuro il presente, perché non ha
estensione, non misuro il passato, perché non è più» - trovano
precisa eco nel «libro»: «Vivo sempre nel presente. Il futuro non
lo conosco. Il passato non lo possiedo più. L'uno mi pesa come
possibilità di tutto, l'altro come la realtà di niente». Certo, è
un Agostino senza la fede. Per Pessoa-Soares - «Appartengo a una
generazione che ha ereditato la miscredenza nei confronti del
cristianesimo e ha creato in sé una miscredenza nei confronti di
tutte le altre fedi» - si può scrivere Dio, oppure Dèi, secondo il
ritmo della frase: «Gli Dèi sono un problema di stile».
Ma
come è possibile sopravvivere, senza pensare al suicidio, dentro
tutti questi abissi e terrori, dentro la dissoluzione dell'Io?
Impensabili, quasi miracolose le vie d'uscita: Pessoa-Soares è anche
un saltimbanco, un acrobata spirituale, che riesce a riconoscere
negli incubi una sua finzione: «Il poeta è un fingitore». E poi,
se è vero che il melanconico destino del nostro eroe, chiuso nel suo
piccolo ufficio, ci ricorda il Bartleby di Melville, è anche vero
che, mentre Bartleby è immobile, inchiodato alla sua scrivania,
Soares esce fuori, passeggia nella sua città, una città che ama,
Lisbona. Scrive Bologna: «C'è però un ritmo pacato e profondo, nel
susseguirsi degli aspri spezzoni di pensiero che nulla armonizza se
non la memoria del lettore. E proprio il respiro della città, “là
fuori”, che riecheggia nel “dentro de mim” con cui il libro
coincide. Sono le albe e i tramonti, l'andare e il venire del sole,
il trascorrere delle stagioni, il levarsi del vento e il furioso
scrosciare della pioggia di Lisbona, che laggiù dicono sia
“un'arte”». Sono le pagine più belle.
Il
Libro
dell'inquietudine,
in magici momenti è improvvisamente al di là dell'angoscia, è
meravigliosamente sereno, ci regala la quiete dei giardini, i chiari
di luna, sui tetti e nelle strade, lo svegliarsi della città, nei
suoi ritmi, nei suoi colori: «Fin dal primo mattino, a differenza
dell'abituale solarità di questa città chiara, la nebbia avvolgeva,
con uno spesso manto, che il sole gradatamente indorava, il
susseguirsi delle case, l'assenza di spazi, i dislivelli del terreno
e delle costruzioni. (... ) Lo svegliarsi di una città, sia fra la
nebbia che in altro modo, per me è sempre più commovente dello
spuntare dell'alba sui campi. Rinascono molte più cose, c'è molto
più da aspettarsi, quando, invece di indorare, prima di luce oscura,
poi di luce più umida, più tardi di oro chiaro, solo i prati, le
sporgenze degli arbusti, il palmo delle mani delle foglie, il sole
moltiplica i suoi possibili effetti sulle finestre, sui muri, sui
tetti - sulle finestre così numerose, sui muri così differenti, sui
tetti così diseguali - offrendo un mattino diverso e tante realtà
diverse». Il molteplice, ora, non è piiù solo nella mente, è
«fuori». E una vera «resurrezione». Dentro la città, nelle sue
strade, nel suo cielo, nell'operoso affaccendarsi degli artigiani,
nell'allegro sferragliare dei tram: «C'erano delle nuvole immobili.
L'azzurro del cielo era sporco d'un bianco trasparente. (... )
All'improvviso, acciaio vivo ... Come era umano il metallico
scampanellio dei tram! Che paesaggio allegro la pioggia semplice
sulla strada resuscitata dall'abisso! Oh, Lisbona, mia casa!».
“alias
talpa – il manfesto”, 6 gennaio 2013
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