La statua di Cleopatra all'Hermitage di San Pietroburgo |
«Cleopatra, sebbene
sconfitta e fatta prigioniera, venne comunque glorificata, dato che i
suoi ornamenti si trovano consacrati nei nostri templi e lei stessa,
effigiata in oro, può essere vista nel Tempio di Venere». Con
queste parole, scritte circa 250 anni dopo la morte della regina
egizia, lo storico Cassio Dione sembra sancire un’inattesa vittoria
della protagonista femminile degli anni forse più decisivi per la
storia romana: il periodo che ha segnato la fine dello stato
repubblicano e l’inizio del principato. Tra il 51 a.C., anno della
sua ascesa al trono accanto a suo fratello Tolemeo XIII (lei aveva
circa diciassette anni, lui solo dieci), e il 30 a.C., quando si
tolse la vita, Cleopatra e la corte di Alessandria si trovano infatti
coinvolti in modo cruciale con il destino delle due coppie allora in
lotta per il potere: Pompeo e Cesare prima, Antonio e Ottavio (non
Ottaviano, come ci si ostina a chiamarlo) poi.
Il fascino che la
regina-faraone esercitò sui contemporanei, divisi tra ammiratori e
detrattori, le è sopravvissuto assai più a lungo di quanto Cassio
Dione avrebbe potuto immaginare, attraversando l’antichità e
giungendo fino ai nostri giorni. E non è certo la forma del suo naso
l’oggetto principale di tale interesse; nei due anni che passò a
Roma nella villa di Cesare in Trastevere, ospite assieme al
fratello-sposo e al figlio nato dalla sua relazione con il dittatore,
lo sfarzo della sua corte stupì i Romani non meno della sua
intelligenza, della sua cultura e della sua ironia. La teatralità
del suo suicidio non farà che accrescere la sua fama: «I cortei
furono splendidi [...] tra essi si distinse, per spesa e
magnificenza, quello del trionfo sull’Egitto. Tra le varie figure
spiccava quella che rappresentava Cleopatra distesa sul divano in
punto di morte, così che si poteva vedere la regina insieme ad altre
prigioniere e ai figli [avuti da Antonio], Alessandro detto anche
’Sole’ e Cleopatra detta anche ’Luna’, spettacolo nello
spettacolo». E’ la descrizione, sempre di Cassio Dione, del
triplice trionfo sull'Illiria, sull’Egitto e «per la vittoria di
Azio», celebrato da Ottavio nell’agosto del 29 a.C. e con cui
viene sancita la fine della dinastia Tolemaica.
Tra i successori di
Alessandro Magno, i Tolemei saranno i primi a riconoscere la nascente
potenza di Roma e gli ultimi a piegarsi alla sua avanzata in Oriente.
Ma soprattutto, Alessandria e la sua corte rappresenteranno il centro
di maggiore influenza sulla cultura e la società romana, e più in
generale sull’intero bacino del Mediterraneo. Fondata nel 332 a.C.
alla foce più occidentale del Nilo da Alessandro Magno dopo la sua
conquista dell’Egitto, e strappato ben presto a Menfi il ruolo di
capitale, con il suo Museo, la sua enorme Biblioteca, la stessa tomba
monumentale di Alessandro (previo furto del suo cadavere da Babilonia
da parte di Tolemeo I), la grandiosità dei suoi edifici, la perfetta
articolazione urbanistica e la moltitudine dei suoi abitanti
(superata solo da Roma), Alessandria divenne ben presto il punto di
riferimento per scienziati, filosofi e letterati. In essa la
millenaria sapienza egizia seppe fondersi con la più dinamica
cultura greca, dando luogo a una commistione di elementi culturali,
politici e religiosi.
Ed è proprio per questo
che fa sorridere l’ostinazione con cui il giovane Ottavio, che
ormai si fa chiamare «Gaio Cesare figlio del divino/dio» (era stato
adottato per testamento da Giulio Cesare, che lui stesso aveva
provveduto a far proclamare divus), dopo la celebrazione del
trionfo, fa coniare una serie di denari sul cui verso figura un
coccodrillo (simbolo dell’Egitto) e la scritta AEGVPTO CAPTA («per
la conquista dell’Egitto»): potremmo tranquillamente riprendere il
noto verso di Orazio Graecia capta ferum victorem cepit («la
Grecia, conquistata, conquistò il fiero vincitore») e sostituire
l’Egitto alla Grecia. Perché Roma, per diventare grande, non solo
si grecizzò ma si «egittizzò», anche; o, forse meglio e più
sinteticamente, si «alessandrinizzò». E - solo in apparenza
paradossalmente - Ottavio-Cesare-Augusto, che aveva condotto la sua
personalissima battaglia per il potere contro Antonio accusandolo di
essere diventato un monarca orientale, giocò un ruolo decisivo in
questo processo. Innanzi tutto, perché di altri «figli di dio» (in
attesa dell’arrivo di Gesù di Nazareth) non c'è traccia
nell’antichità al di fuori delle titolature ufficiali dei faraoni,
a prescindere naturalmente dalle figure mitiche; poi perché Augusto
sceglierà già molto presto quale suo nume tutelare Apollo-Sole,
divinità non romana - anche se già da tempo accolta per il tramite
greco - e così pericolosamente vicina all’identificazione dei
faraoni con Horus-Ra (Antonio aveva invece scelto prima Ercole e poi
Dioniso-Bacco), costellando le sue numerose costruzioni di simboli e
attributi apollinei nonché, fatto inaudito a Roma ma non certo ad
Alessandria, edificando un tempio ad Apollo in stretta connessione
con la sua casa sul Palatino, che veniva così a configurarsi come
l’ala di rappresentanza della sua residenza.
A questo esplicito legame
con il Sole (senza più traccia di Apollo) riconducono ancora una
volta i due obelischi che Augusto farà trasportare da Eliopoli («la
città del Sole») nel 10 a.C., collocandone uno sulla spina del
Circo Massimo (dove erano presenti altre statue o sacelli di
divinità) e servendosi dell’altro come gnomone per il suo
gigantesco orologio solare nel Campo Marzio. Dice l’iscrizione di
dedica; «L’imperatore Cesare Augusto, figlio del divino Giulio,
pontefice massimo [... seguono altre cariche da lui rivestite, con la
tipica parvenza di legalità repubblicana che contraddistingue il suo
impero], dopo aver conquistato l’Egitto [AEGYPTO CAPTA, ancora dopo
20 anni!] al potere del popolo romano, dedicò al Sole». Altri due
obelischi senza iscrizioni né geroglifici, inoltre, li collocò ai
lati d’ingresso del suo inaudito mausoleo, sempre in Campo di
Marzio (ricco, per altro, di decorazioni egittizzanti, che dilagarono
sempre più a partire dal suo regno). Se torniamo al passo da cui
siamo partiti, Dione ci ricorda che, per celebrare il suo triplice
trionfo, «il Figlio di Dio» aveva decorato con le spoglie
dell’Egitto la statua della Vittoria da lui collocata nella nuova
sede del senato, la Curia Giulia (iniziata da Giulio Cesare e da lui
inaugurata proprio in quell’occasione), come pure il nuovo Tempio
del Divino Giulio e addirittura il Tempio della Triade capitolina,
dopo averlo spogliato di tutte le dediche precedenti (la statua d’oro
di Cleopatra era invece già stata collocata da Cesare nel Tempio di
Venere Genitrice da lui costruito al centro del suo nuovo foro, anche
questo un fatto inaudito: tutte le statue di Cleopatra vennero però
risparmiate dal vincitore, mentre quelle di Antonio furono
distrutte). E i grandiosi lavori di costruzione realizzati da Agrippa
per volontà di Augusto, soprattutto nel Campo Marzio, che cercavano
di trasformare Roma in una città dall’impianto ellenistico, non
discendevano forse dalla meraviglia provata dal giovane Ottavio-Gaio
Cesare alla vista di Alessandria, che lo spinsero a risparmiare alla
città qualsiasi distruzione e a perdonare in blocco la sua
popolazione?
«Le divinità un tempo
egizie ora sono romane» e «Tutto il mondo giura ora su Serapide»:
è questa la sconsolata constatazione di due apologeti cristiani
(Minucio Felice e Tertulliano) a cavallo tra il II e il III secolo.
Ecco un altro aspetto della contraddittoria vittoria dell’Egitto su
Roma. A partire almeno dal II secolo, infatti, alcune divinità
egizie - o, meglio, alessandrine - avevano cominciato a diffondersi
in Italia: tra di esse Anubi, Arpocrate, Serapide e, soprattutto,
Iside. Resistenze da parte della classe senatoriale conservatrice
portarono talora a interdizioni di questi culti, alla crocifissione
dei loro sacerdoti (!) e alla distruzione (non sempre attuata) dei
santuari: si ripeté insomma quello che era già avvenuto nel III
secolo a.C. nei confronti del culto di Bacco e quello che si ripeterà
più tardi con il cristianesimo. Culti considerati potenzialmente
eversivi, in quanto seguiti soprattutto dalle classi più umili e che
mettevano in discussione la struttura consolidata della società,
venivano eccezionalmente ostacolati. Ma si trattò di episodi isolati
e, come dimostra il successo di questi culti, del tutto inefficaci.
Il sistema religioso tradizionale romano subirà la stessa sorte
toccata a quello della polis greca: con il disgregarsi dei
vincoli che univano saldamente la comunità, ripartendo la gestione
della res publica tra il Senato e il Popolo (SPQR) e con la
progressiva perdita di potere reale di quest’ultimo, perdeva di
senso anche la struttura prevalentemente rituale della religione
romana, finalizzata al mantenimento della «pace con gli dèi» e
alla garanzia di liceità dell’intervento umano sul «naturale».
Non esistendo più una comunità, ne derivavano degli individui, che
invece di interessarsi alla sorte di Roma erano ormai
ineluttabilmente interessati alla propria sorte, qui ed ora e nella
vita dopo la morte.
I Romani, non certo
casualmente, sembrano ripercorrere esattamente lo stesso cammino
fatto dai Greci del periodo post-classico: si affidano alle
«filosofie della felicità» (epicureismo e stoicismo), a vari culti
misterici e a divinità «provvidenziali» (Tykhe, Fortuna,
Iside). Tutto ciò, fra l’altro, in un’ottica di progressivo
enoteismo, cioè della convinzione che il concetto di divino è
fondamentalmente «unico», anche se può assumere diverse forme (a
differenza del monoteismo, dove il vero dio è «uno solo»); si
tratta del resto della stessa temperie in cui prospererà e risulterà
poi vincitore il cristianesimo (non senza aver assimilato numerose
caratteristiche di alcuni di questi culti). Tra queste divinità,
insieme al Mitra di origine persiana. l’Iside alessandrina - nelle
cui vesti Cleopatra amava presentarsi - assume nel mondo romano in
ruolo predominante e una diffusione capillare.
È l’Iside madre del
piccolo Horus-Arpocrate, che allatta in grembo secondo l’iconografia
poi ripresa per Maria (come Cleopatra-Iside allatta Cesarione-Horus
in alcune statuette o su alcune monete cipriote); è l’Iside
sorella e sposa di Osiride-Serapide, il dio che muore e rinasce ogni
anno grazie al suo intervento; è Iside dei «patimenti», che ha
sofferto e soffre come soffre il genere umano e può essere invocata
proprio in virtù di tale compartecipazione; è l’Iside protettrice
dei naviganti e dei mercanti, principali attori del suo culto nei
vari porti del Mediterraneo; è Iside da invocare in ogni occasione
di difficoltà e i cui riti misterici garantiscono la trasformazione
della propria vita e la felicità nell’aldilà; è Iside invocata
in litanie che ricordano le litanie mariane e in generale ruolo di
intermediatrice che la Vergine assumerà ne1 cristianesimo: «Eccomi,
spinta dalle tue preghiere: io, madre dell’intera natura, signora
di tutti gli elementi, progenie primordiale delle generazioni,
divinità suprema, regina dei Mani, prima dei celesti, volto unico
degli dèi e delle dee; io, che le vette luminose del cielo, le
brezze salutari del mare, i silenzi compianti degli Inferi, dispenso
secondo i miei cenni. La mia potenza unica dal multiforme aspetto,
con rito diverso, con nome molteplice, il mondo intero venera: i
primigeni Frigi come Madre Pessinunzia degli dèi, gli autoctoni
Attici come Minerva Cecropia, i fluttuanti Cipri come Venere Pafia, i
Cretesi arcieri come Diana Dittinna, i Siculi trilingui come
Proserpina Stigia, gli arcaici Eleusini come Cerere Actea, altri come
Giunone, altri ancora come Bellona, chi come Ecate, chi come
Ramnusia, e gli Etiopi illuminati dai bassi raggi del dio Sole
nascente e gli Egizi potenti per prisca dottrina - adorandomi con
cerimonie appropriate - mi chiamano col mio vero nome Regina Iside».
“il manifesto”, 25
ottobre 2000
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