Joseph Conrad |
In una lettera del 1903,
Joseph Conrad scrive a H.G. Wells: “In fondo voi siete un realista.
C' è una tale scherzosa ferocia nel modo con cui manipolate questa
umanità in cui credete, che a volte dà i brividi. Ma siccome in
essa credete davvero, è giusto che vi divertiate a spaventarla...
Continuate così, dunque. Invece i sospiri, le svenevolezze, i
lamenti e gli starnuti o qualsiasi altra cosa io stia tentando di
fare lasciateli a me. Non ci riesco nemmeno bene; ed è questa l'unica ironia che sono riuscito a realizzare”.
Il giudizio che Conrad dà
a Wells di Wells è corretto anche oggi; meno corretto è quello che
dà di se stesso, pur tenendo conto che non aveva ancora affrontato
le sue prove maggiori, se si eccettuano Lord Jim, uscito tre
anni prima, e Linea d'ombra, che è del 1902. D' altra parte
in questa come nelle altre lettere che compongono il terzo volume
delle Collected Letters of Joseph Conrad (Cambridge University Press,
pagg. 532, dollari 47,95), e che coprono il periodo del suo massimo
vigore letterario (1903-1907), l'ironia sembra davvero la compagna
fedele che non lo lascia mai, né nel lavoro né nella vita. E'
questa la scoperta maggiore offerta dal terzo degli otto volumi con
cui Frederick R. Karl ci darà entro il 1992 l'intero epistolario
conradiano (3500 lettere, per lo più inedite), e ricompensa l'attesa
che lo precedeva, essendo quello che permette di penetrare nelle
vicende domestiche e letterarie dello scrittore in un momento
cruciale, gli anni in cui compone, tra l'altro, Nostromo,
L'agente segreto, il saggio Autocrazia e guerra e il
racconto Razumov, ampliatosi poi nel romanzo Sotto gli
occhi dell'Occidente.
“La vita è dura, mio
caro, e noi, come dice il Maestro (Henry James, n.d.r.), abbiamo
scelto il mestiere più duro di tutti”, scrive all' amico Ford
Madox Ford, che tra l'altro lo aiuta nella stesura di Romance.
Per Conrad è dura su tutti i fronti. Nella campagna inglese, poi a
Londra, Capri, Montpellier e Someries, lui e la sua famiglia sembrano
bombardati dalla sfortuna: malattie, incidenti, povertà, editori
esosi, e quindi una gran solitudine. Nel 1907 Conrad compie
cinquant'anni e avrebbe voglia di finirla. Gli fa da scudo, ora come
sempre, James Brand Pinker, l'agente letterario senza il cui aiuto
andrebbe davvero a fondo. “Mandami una penna stilografica”, gli
scrive a più riprese. Quando la penna arriva, il lavoro ricomincia.
“Occorrono altre 30 mila parole per L'agente segreto? E va
bene, gliele manderò. Ma tu, per favore, mandami un altro anticipo.
La gotta mi danna. Jessie ha avuto un collasso nervoso...”.
Anche Capri gli sembra un
avamposto della perdizione. Pure, ciò che lo salva veramente è il
lavoro. Pinker, al quale sono indirizzate la maggior parte delle
lettere, è il bersaglio dei suoi sfoghi. Conrad non capisce perché
un libro come L'agente segreto non lo faccia arricchire.
Pensava di aver scritto un best seller. Non ha nessuna
intenzione sociale, politica o polemica, dice, e pare convinto.
Naturalmente non era vero. L'anarchismo era nell'aria, Conrad lo
fiutava anche dal sud della Francia, e, come dice uno dei curatori
dell'epistolario, Laurence Davies, tutti e tre i romanzi di questo
periodo sono intensamente politici, L'agente segreto compreso.
Glielo facevano osservare anche altri, per esempio D.H. Lawrence,
Stephen Crane, Arnold Bennett. Ma la sua reazione era pronta. Ancora
a Pinker scrive: “L'agente segreto è solo una storia
superficiale. Non avevo nessuna intenzione di trattare l'anarchia
politica seriamente nei suoi aspetti filosofici come manifestazione
della natura umana nella sua infelicità e nella sua imbecillità”.
Si direbbe che,
ossessionato dalla mancanza di denaro, faccia di tutto per non
apparire autore di lavori seri. Quando si sentiva messo alle corde,
reagiva sparando giudizi sugli altri, di cui queste lettere sono
piene. A Ford scrive: “Oggi mi sento così così, come i racconti
di Kipling”. Allo scultore Jacob Epstein confida: “Lawrence aveva
cominciato bene, poi si è messo a scrivere sozzure. Nient' altro che
oscenità”. E ancora: “Crane è un grande impressionista, però
potrebbe non farcela”. Quanto a sé, riprendendo il sorriso,
osserva: “Ci vorrebbero una mano più vigorosa e una mente più
robusta delle mie per affrontare i grandi temi”. D' altra parte
ammirava John Galsworthy (che gli prestava denaro), Wells (è uno
stimolante intellettuale) e soprattutto James (il nostro bon matre,
il solo di cui cercasse l' approvazione).
La gente in generale,
compresi i suoi lettori, lo straziava. “I più intelligenti tra noi
sono molto stupidi, e io non credo di avere una dose eccezionale di
intelligenza”, scrive a Hugh Clifford che gli ha sottoposto un
manoscritto. E a Henry-Durand Davray, che si sforzava di far
conoscere tra loro gli scrittori francesi e inglesi dell'epoca: “I
lettori sono così stupidi che non vedrebbero il sole che splende, se
non glielo indicassimo noi”. Questi potrebbero essere vezzi,
naturalmente, parole dette con giocosa cattiveria; come quando a
Wells scrive: “In fondo ai calzoni, voi siete un conservatore”. O
come quando, a Ford, passa questa osservazione sul genere umano e
sulla vita: La sete dell'Ignoto (e dell'Inutile) sembra essere
inerente all'organizzazione mentale dell'uomo. Agli uomini dovremmo
dire: Ne voyez vous pas que c'est une bonne farce?”.
L' idea della farsa
abbraccia anche (ed è qui che l' ironia si fa più profonda o più
sconcertante) il suo lavoro. “Per me, scrivere il solo modo
possibile di scrivere è semplicemente la conversione di energia
nervosa in frasi. Nel vostro caso - dice ancora a Wells (prendendolo
involontariamente in giro) - sono sicuro che il segnale, l'impulso,
lo dà un' intelligenza molto disciplinata. Io mi affido al caso”.
“Il gruppo dei miei
lettori è molto piccolo - confessa allo storico polacco Kazimierz
Waliszewski - scrivo con difficoltà, lentamente, cancellando di
continuo...”. È uno dei pochi spaccati che offrono queste lettere
su un aspetto della vita di Conrad che in genere si dà per scontato:
voglio dire il genio di nome Teodor Jozef Konrad Nalecz Korzeniowski
che, nato polacco a Berdyczow in Podolia (Ucraina) nel 1857, arrivato
in Inghilterra nel 1878, quindi a 21 anni, si impadronisce della
lingua a tal punto da diventare uno dei grandi della letteratura
inglese. Il miracolo (eguagliato forse solo da Nabokov) è meno
stupefacente di quanto si pensi: l'inglese di Conrad è bellissimo
come fattura, ricco di un pulsare idiomatico che (per intenderci) ai
nostri giorni appartiene a un Mamet, a un Mailer; ma rivela sempre la
difficoltà, le cancellature, nonostante la presenza al suo fianco di
un Ford e di un Pinker. Del resto, che importa? L' epistolario rivela
lo sforzo ma, come epistolario, è dei più affascinanti che si
conoscano: proprio perché Conrad scrive con abbandono, mai per i
posteri. A Pinker dice: “Sono ansioso di venire a patti con me
stesso, in tutto, anche nella scrittura”.
Nel 1906 spedì a Henry
James una copia de Lo specchio e, in francese (per sottolineare la
devozione di entrambi a Flaubert), si lasciò scappare: Questi
bozzetti sono buttati giù soprattutto per il mio piacere. Scrivere
per il proprio piacere è una pericolosa fantasia. Ma a Ford confida:
Dovremmo sempre scrivere per il nostro piacere, e lo rimprovera
perché Ford vorrebbe pubblicare Romance con l' avvertenza che ai due
amici ci sono voluti sei anni per comporlo. Non sono stati sei anni,
ma uno e mezzo: il resto è stato ritardo... Nemmeno Flaubert ci mise
sei anni a scrivere Madame Bovary, ed era un capolavoro. Si sentiva
lontano dalla meta, nonostante il freno della farsa? Queste lettere
rispondono affermativamente. Karl osserva che in Conrad non ci sono
solo i tre periodi degli anni polacchi, della carriera marittima e di
quella letteraria; ci sono altre suddivisioni, c' è il nazionalista
polacco e il patriota anti-russo, e c' è soprattutto il tentativo di
creare qualcosa di unico in lingua inglese, qualcosa che mantenesse
anche gli strati della cultura polacca e di quella francese. Il
merito di ciò che scrivo non è mio, Conrad avverte ambiguamente in
una lettera a Pinker, ma ciò che spedisco oggi è Conrad genuino. Di
tale ambiguità, che in una lettera a Waliszewski gli fa usare l'
espressione homo duplex, è consapevole. Qua e là ne ride, anzi. E'
un uomo che pensa come Abele ma sente come Caino, scrive Davies.
Lavoro con grande impeto, ma combatto la malattia e l' imbecillità,
dice a Wells. E subito dopo a Pinker: La gente può leggere chi
vuole, poi torna a leggere me. Tutti coloro con cui corrisponde (e in
questo volume sono 56) ricevono l' urto di tale doppiezza, a
eccezione di Henry James. Scrittore senza dubbio prolifico, chi lo
avrebbe detto portato a contemplare storie più che a scriverle? Ho
solo visioni, scrive a Ford. Quando poi la critica gli attribuisce il
desiderio di rinnovare il romanzo (raggruppandolo più tardi con lo
stesso Ford e James, Proust, Gide e Virginia Woolf), prima
acconsente, poi sbotta: Chi, io? Ma se sono un uomo dell' Ottocento!.
C' è infine, particolarmente in questi cinque anni, la sua ambiguità
verso le donne. Di Winnie Verloc dell' Agente segreto scrive: Sentiva
che le cose non si dovrebbero mai guardare troppo da vicino. E' la
posizione di Conrad verso tutte le donne, scrisse anni fa un critico
inglese. Le lettere lo confermano: Joseph Conrad approfondisce solo
metà del genere umano. L' altra metà (compresa la moglie Jessie)
per lui rimase sempre, sui mari come a tavolino, un enigma. Conrad al
suo apice, potrebbero dunque intitolarsi queste lettere, Conrad nella
profonda vocazione alla sconfitta di tutti gli estremismi,
rivoluzioni e autocrazie, attenuata dalla pacata consapevolezza che i
termini della farsa, quantunque uno si sforzi di narrarla per denaro
o per piacere, restano inalterati.
“la Repubblica”, 11
agosto 1988
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