Jan Fabre, Istallazione |
Il libro che
riteneva più suo fu anche quello che a Stendhal diede i maggiori
problemi di composizione, De l’amour,
pubblicato nel 1822 e quindi sottoposto a un tormento di varianti,
aggiunte e riscritture che mai lo riscattarono dalla irresolutezza:
voleva essere un trattato e riuscì l'autobiografia ufficiosa di uno
scrittore perpetuamente innamorato, ambiva all'analitica esistenziale
e fu invece uno splendido (questo sì) concentrato di beylismo.
Che
Stendhal più o meno inconsciamente barasse lo testimonia l'indice,
mai emendato, dove si promette di discutere, oltre
all'amore-passione, anche l'amore-gusto, l'amore-capriccio e
l'amore-vanità, tre ambiti che il grande libertino cui batteva in
petto un cuore romantico volle in effetti ignorare. Al centro del suo
grosso scartafaccio rimane l'immagine, celeberrima, che fa
dell'amore-passione il risultato di un processo di cristallizzazione:
«Nelle miniere di Salisburgo [chi lo sta traducendo è nientemeno
Massimo Bontempelli, per una antica edizione einaudiana] si usa
gettare nelle profondità abbandonate della miniera un ramo sfogliato
dal gelo; due o tre mesi dopo lo si ritrova coperto di fulgide
cristallizzazioni: i più minuti ramoscelli, quelli che non sono più
grandi dello zampino di una cincia, sono fioriti d'una infinità di
diamanti mobili e scintillanti; è impossibile riconoscere il ramo
primitivo». Stando al suo più fiero eversore, quei diamanti non
sarebbero che di vistosa bigiotteria se, a centocinquant'anni di
distanza dalla piccola bibbia stendhaliana, Robert Poulet firma un
libello e lo intitola Contre l'amour,
il quale, dopo un'edizione semiclandestina uscita da Volpe nel '69,
torna ora come Contro l'amore
(a cura di Guilherme von Zastrow, Castelvecchi, pp. 126, € 9.00).
Poulet è noto in Italia
appena per il libro-intervista a Louis-Ferdinand Céline (Il mio
amico Celine, Elliot 2011) che fu tanto un suo amico quanto un
alter ego, ma di lui nel complesso è ignota la trafila
biobibliografica che fu tutt'altro che usuale, anzi fu quella di un
anti-Stendhal postdatato. Nato a Liegi nel 1893, in un ambiente
piccolo borghese e cattolico, dopo l'esperienza al fronte nella
Grande Guerra, avvia una cospicua attività di poligrafo e di
sceneggiatore (laddove gli si accredita la firma, per esempio, nel
leggendario Napoléon di Abel Gance); critico letterario di
autentico lignaggio (e fratello maggiore del più famoso Georges),
uomo di destra ed editorialista politico, sotto l'Occupazione dirige
il foglio collaborazionista «Le Nouveau Journal» per cui, alla
Liberazione, viene processato, condannato a morte e quindi, in
contemporanea con Céline, amnistiato e costretto dal 1951 all'esilio
in Francia, dove rimane fino al decesso (sopraggiunto il 6 ottobre
del 1989) sia intensificando la produzione di critico letterario e di
memorialista, specie sulle colonne di «Rivarol», sia smarcandosi
dalle sue più pesanti ipoteche ideologiche per attestarsi sulle
posizioni di un anarchico conservatore. (Qui va aggiunto, a onor del
vero, che se la sua couche, un cattolicesimo appunto retrivo e
bigotto, era rimasta quella poi descritta nel capolavoro di Hugo
Claus, La sofferenza del Belgio, il suo collaborazionismo era
dipeso innanzitutto da una malintesa fedeltà al re Leopoldo III, non
certo alle parole d'ordine del nazismo flamand e tanto meno a
quelle di Léon Degrelle, promotore del famigerato movimento «Rex»:
d'altronde, che Poulet fosse un nemico giurato di Degrelle lo dice la
monumentale biografia dedicatagli da Jean-Marie Delaunois, Dans la
melée du XXe siècle. Robert Poulet, le corps étranger,
Editions de Krijger 2003, e lo conferma il saggio stravagante,
appendice a Le Benevole di Jonathan Littell, Il secco e
l'umido. Una incursione in territorio fascista, Einaudi 2008).
Cos'ha da dire dunque un
simile individuo, così deliberatamente anti-illuminista e insieme
anti-romantico, al venerabile Stendhal? Intanto che la proverbiale
cristallizzazione non è affatto una causa ma un sintomo, ambiguo e
pernicioso: «Ci si affeziona per caso a un soggetto qualsiasi. Poi
ci si persuade che l'amato doveva venire scelto fra tutti, e si
inventano cento ragioni per amarlo, ricamando intorno a due o tre
tratti più o meno piacenti che in esso si sono scoperti». Scritto
in pieno 68. dopo altri libelli scagliati in faccia agli idoli della
tribù (il mito o, si dice oggi, l'invenzione della giovinezza, la
borghesia come ceto universale, l'automobile quale simbolo di
libertà), Contre 1'amour è steso in stile aforistico, di
chiarezza esemplare, nudo di note e di riferimenti, dove per
contraddire Stendhal ci si fionda sui versanti che lo stesso Stendhal
ha rimosso: costruito alla maniera di un piccolo trattato, affronta
in modo sistematico l'amore come desidero, come libertinaggio,
l'amore convenzionale, l'amore coniugale, gli amoretti o amorazzi
oltre che, ovviamente, l'amore-passione.
Poulet è persuaso che
l'amore sia stato progressivamente annientato dal discorso sull'amore
o, in altri termini, che i moderni processi di civilizzazione come di
secolarizzazione ne abbiano tradito la natura per eccesso oppure per
difetto, da un lato facendone schermo e bersaglio della libido,
dall'altro sublimandolo nel vocabolario dell'assoluto, il quale
«falsa un sentimento che è nell'ordine del relativo». Per Poulet
(secondo cui «non si può essere più sciocchi, in materia, di
quest'uomo intelligente, Stendhal») la retorica dell'amore è una
metafisica dell'accecamento sensuale ovvero una inconscia fuoruscita
del senno, insomma è dismisura, proiezione di sé sul sembiante
dell'altro, infine un inganno che non teme né sa di essere sempre un
autoinganno. Al riguardo, lui così fermamente cattolico non riesce a
dichiarare una schietta preferenza per i libertini ma è chiaro che
li preferisce agli spiriti sentimentali che vede dominare la
letteratura, il cinema, il teatro e le canzoni in cui, soggiunge, «si
insegna a sospirare come a tirare la cocaina». Non arriva certo a
proclamare, pari al suo amico Céline, che l'amore «è l'infinito
alla portata dei cani» ma con una simile boutade, in realtà
una apologia rovesciata, deve comunque fare i conti. Il suo è perciò
un trattatello del disinganno prima che del disincanto, cioè un
antidoto alla dismisura del corpo e/o dello spirito cui lo scrittore
belga ha da opporre qualcosa che ancora non ha il beneficio di un
nome o, semmai, ha solo quello di una casta perifrasi.
Non è la fiamma che
brucia e consuma, ma un tepore più normale e domestico, un tenue
ardore che esige la consapevolezza dei propri limiti affettivi e il
pieno riconoscimento, infine il rispetto, dell'altro. Scrive: «Sangue
freddo, buon senso, schiettezza di spirito e di cuore sono le
disposizioni in cui si sviluppa il vero amore. Nessuna di queste tre
virtù è alla portata della gioventù, che deve quindi accontentarsi
del falso amore, in tutte le sue forme, che ci appagano della vana
eccitazione, dello smarrimento, della menzogna. [.. ,]Si comincia ad
amare quando si diventa intelligenti».
Quella di cui sta
parlando è una forma d'amore che non molti saprebbero distinguere
dal riserbo di un sostanziale disamore: come il grande Stendhal, il
vecchio Poulet aveva molto amato e vissuto però non poteva avere
alle spalle lo struggente ricordo delle miniere di Salisburgo, perché
incombeva ancora e sempre su di lui il secolo delle macerie.
"alias domenica il manifesto"10 giugno 2012
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