Tra il 1989 e il 1991
venne pubblicato il bimestrale “Liber”, che si proclamava
“Rivista europea di libri”, le cui ambizioni continentali erano
evidenti dalla denominazione e dal comitato di direzione
multinazionale (direttore il francese Pierre Bordieu). Usciva in
quattro lingue in abbinamento a giornali e riviste quali la
“Frankfurter Allgemeine”, “L'Indice”, “Le Monde”, “El
Pais”. Il numero di ottobre 1990 ricordava con tre articoli
Leonardo Sciascia a un quasi un anno dalla sua morte. Quello qui
“postato” è una sorta di bilancio dell'opera dello scrittore
siciliano e del suo ruolo nella storia d'Italia. Gli altri erano
dedicati alla “fortuna” di Sciascia in Spagna e in Francia.
(S.L.L.)
Nel ’67 Sciascia
scriveva: “È stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra
sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente
svolto... Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla
Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che
viene ad articolarsi come la storia di una lunga sconfitta della
ragione”. La letteraria Regalpetra, ridisegnata sulla natia
Racalmuto, veniva assunta come metafora di ogni luogo ove,
nell’eclissi della ragione, non restava che far torto o patirlo. La
storia di quel paese veniva così a rappresentare il primo momento di
quell’ontologia del potere che avrebbe regolato la vasta folla dei
personaggi futuri come bulloni, viti e chiavarde degli ingranaggi di
una grande macchina inquisitoriale.
Le Parrocchie
avevano la forza di un archetipo. In esse, infatti, trovarono radice
quelle investigazioni storico-erudite, da Il Consiglio d'Egitto
a La strega e il capitano, nelle quali, recuperando la lezione
di Manzoni, Sciascia smascherava le atroci imposture di un passato
mai passato. Sempre in esse trovò battesimo la greve materia di quei
romanzi polizieschi, da Il giorno della civetta a Una
storia semplice nei quali diceva d’aver introdotto il dramma
pirandelliano, di quelle storie di mafia in cui un sistema di
illeciti e criminosi interessi, inizialmente collocato in Sicilia,
rilevava estese ramificazioni, nell’inesorabile salire a nord della
linea delle palme. Alla storia come luogo della menzogna e
dell’ingiustizia, Sciascia oppose soltanto l’ottimismo della
scrittura. Prendeva corpo quell’utopia della letteratura chiamata a
mettere ordine nel caos della vita, quel primato dello stile che
distinse subito Sciascia dagli intellettuali impegnati sulla trincea
del saggio-denuncia e dagli epigoni del neorealismo. Si manifestava
quel peculiare modo di decifrare la realtà, nella guisa di una lunga
divagazione o di un’intuizione fulminante, che sempre muoveva, per
dirigersi a terra, da una costellazione di libri, nella
frequentazione di diversi pianeti letterari, dalla Sicilia di
Pirandello e Brancati alla Francia di Voltaire, Courier e Stendhal,
dalla Spagna di Cervantes e Unamuno, fino alle Americhe di Hemingway
e Borges.
La letteratura divenne
presto, per Sciascia, la forma più assoluta che la verità potesse
assumere. Il pamphlet s’incastrò sempre più con l’apologo, la
ricostruzione precisa di un fatto di cronaca giudiziaria rivelò il
disegno di una parabola, l’investigatore cedette all’inquisitore.
I suoi libri, insomma, furono contemporaneamente i vari capitoli di
una microfisica del potere, laica incarnazione del Maligno, e
lucidissime allegorie della vita politica nazionale. Gli italiani vi
si specchiarono e con grande riluttanza si riconobbero: di qui le
aspre polemiche, il doloroso isolamento in cui talvolta Sciascia
visse. Tutto iniziò con Il contesto.
Il romanzo, ambientato in
un imprecisato paese sudamericano assai simile all’Italia, svolge
una catena di delitti eccellenti nel raggelante scenario di una
collusione tra partiti di governo e organizzazioni rivoluzionarie per
il mantenimento dello statu quo: storia che, se gli costò l’accusa
di anticomunismo, parve, anni dopo, un’inquietante profezia del
“compromesso storico”. Con il tralignare della politica italiana
in pasticciaccio, nell’incrudire di un pessimismo che a Diderot
sostituì Montaigne e Pascal, la sua tesa scrittura si caricò degli
equivoci riflessi di una realtà ormai sconvolta dal sistema
clientelare e mafioso. I suoi gialli problematici si improntarono a
quel gioco di multiple e parziali verità che era nelle cose. Fu il
tempo di Todo modo,
libro di coltissima tessitura, implacabile processo a un’Italia
democristiana ove la giustizia è impossibile. Venne poi Candido,
amarissima satira di un paese in mano a due grandi chiese, la
cattolica e la comunista, nell'allarmata constatazione del confluire
dell'uno nell’altro dogma. Infine lo straziante Affaire Moro,
ove si intona una dolorosa meditazione sulla “passione” del
politico democristiano, simbolo di tutte le vittime del mondo,
immolato sull’altare di uno stato fantasmagorico e inesistente,
quale quello attaccato con ferocia visionaria dalle Brigate rosse, o
difeso con stolido e quasi unanime zelo dalle forze di governo e dai
partiti di opposizione.
Negli ultimi anni,
lontanissimo dal rosso e nero di ogni ideologia, di contro a una
realtà che dileguava in metafisici vapori si tenne a una strenua e
inflessibile difesa del diritto. Accanto ad alcune detective
stories, quali Il cavaliere e la morte e Una storia
semplice, percorse da cupe riflessioni autobiografiche e da
brividi religiosi, apparvero le pagine dedicate alla pena di morte
del racconto A porte aperte. Sempre più presente nel
dibattito politico nazionale, le sue infiammate requisitorie morali e
civili bruciano ancora nelle belle pagine del suo ultimissimo libro,
A futura memoria.
Comunque lo si
giudicherà, resta incontestabile il fatto che Sciascia, attraverso
le sue letteratissime metafore, ogni volta facendo parte per se
stesso, fu il sensibile sismografo della nostra società.
Dall’estrema punta meridionale del continente, egli fu, insieme con
De Roberto, Pirandello, Borgese, Brancati, Tornasi di Lampedusa, uno
di quegli scrittori che affidarono alle loro pagine un senso, se non
il senso, di una storia d’Italia.
Liber, Anno II n.3
Ottobre 1990
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