Alla vigilia di un evento
come quello che andrà in scena oggi pomeriggio sul centrale del
Roland Garros, la memoria inevitabilmente ripercorre le tappe che
hanno fatto la storia - e la leggenda - del campionato mondiale di
tennis su terrabattuta, dall'epoca d'oro dei quattro moschettieri cui
è dedicato il trofeo (Borotra, Cochet, Brugnon e Lacoste) ai sei
titoli di Borg, dalle imprese di Pietrangeli e Panatta allo
strapotere latino delle ultime due decadi.
Una storia di gesti
bianchi, sudore e partite memorabili lunga oltre un secolo;
nell'ideale classifica degli scontri più appassionanti - e
drammatici - un posto d'onore va di sicuro assegnato alla finale del
1984, che vede contrapposti lo statunitense John McEnroe e il ceco
Ivan Lendl. Così come tre anni prima, nel giardino uggioso di
Wimbledon, lo stiletto americano aveva spodestato l'ascia bipenne
svedese, anche qui siamo al preludio di un ricambio generazionale: lo
strapotere fisico e della volontà soppianterà l'imprevedibilità
del genio balistico e della rappresentazione. Pure, al nastro di
partenza, il favorito sembra essere ancora Super Brat, ovvero il
«moccioso» del Queens, gravato come si presenta, Lendl, dalla
maledizione di perdente di successo (fino a quel momento il tennista
di Ostrava conta quattro sconfitte su altrettante finali nei tornei
del Grande Slam); e difatti, dopo meno di due ore di gioco, con il
punteggio fissato sul 6-3 6-2 per The Genius, i bookmaker
sembrano rassegnarsi a un pomeriggio di ordinaria amministrazione...
ma, nel bene o nel male, quando in campo c'è McEnroe nulla è
scontato e basta un niente a far saltare gli schemi: infastidito dal
gracchiare di una cuffia abbandonata a bordo campo da un cameraman
della NBC, John perde la testa e Lendl si aggiudica il terzo parziale
per 6 giochi a 4 chiudendo poi l'incontro con un duplice 7-5.
«Fu la sconfitta
peggiore della mia vita, persi in modo devastante. A volte, quando ci
ripenso, non riesco ancora a dormire»; con queste parole McEnroe -
che a settembre si prenderà la rivincita in casa, agli US Open -
ricorda oggi quella domenica nera in Non puoi dire sul serio
(trad. di Valentina Ricci, Pemme, pp. 376, • 18,50),
l'autobiografia stesa insieme allo scrittore e giornalista James
Kaplan.
Rispetto a Open di
Andre Agassi, il libro scorre via come una lunga conversazione, ma
poiché McEnroe è McEnroe - ossia, in tutto e per tutto il giocatore
più inimitabile del tennis moderno (se Borg fu il primo ad avere il
successo di una rockstar, Mac fu il primo a vivere come una rockstar)
- il racconto ci restituisce (e pare restituisca al suo autore) la
serenità e il bilancio ancora aperto di un'esistenza marchiata dalla
condanna di ogni predestinato a confermare le aspettative per cui si
è nati e dall'ostinata irriducibilità a ruoli opportunistici di un
uomo che sta ancora imparando a convivere con i propri fantasmi.
«La mia peculiarità -
confessa - ovviamente era perdere le staffe. Mi ha aiutato più di
quanto mi abbia danneggiato? Credo proprio di no. Aveva ragione mio
padre. Forse avrei riscosso successi più brillanti, se avessi
evitato le sfuriate. Ma non sono mai riuscito a fidarmi del mio
talento, né di nessuna altra cosa».
“Alias talpa il
manifesto”, 10 giugno 2012
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