Cercatori d'oro |
Sto leggendo con gusto un
curioso scritto che Sellerio pubblicò in una collana di libretti
verdolini, “Il divano”, più di vent'anni fa. E' una Guida del
cercatore d'oro della California pubblicata a New York nel 1848 e
firmata da un non meglio conosciuto mister Simpson. Pare che il
libretto, con altri dello stesso genere, abbia contribuito con
successo alla fabbricazione di un mito, quello – appunto –
dell'oro di California e al diffondersi della febbre che ne conseguì.
Le pagine che si leggono con gusto e curiosità, seppure con più di
un dubbio sulla veridicità, non sono poche e a libro finito qualcuna
ne “posterò” per proporla e rammentarmene. Qui trova invece
posto l'introduzione di Brilli, che ho trovato assai efficace come
rievocazione di un tempo e di un mito. (S.L.L.)
Per la
risonanza che ebbe in tutto il mondo, il discorso che il Presidente
degli Stati Uniti tenne al Congresso il 5 dicembre 1848 può essere
considerato l’avvio ufficiale della corsa all’oro della
California: «Le relazioni parlano di una tale abbondanza del metallo
in quella regione, da sembrare al di là del credibile se non fossero
suffragate da testimonianze dirette!». Sul tavolo presidenziale
c’erano infatti due autorevoli relazioni che giuocheranno un ruolo
primario nella storia della California, quella del colonnello R. B.
Mason, governatore militare della regione, e quella di Thomas Larkin,
console americano a Monterey, entrambe concordi nell’attestare la
straordinaria quantità di ritrovamenti auriferi verificatisi nei
torrenti e nelle gole della Sierra Nevada.
Tutto era
nato nei primi giorni di quel fatidico 1848 nei possedimenti di un
intraprendente allevatore di bestiame svizzero, il capitano Sutter,
allorché, durante i lavori di ampliamento del canale di una segheria
ad acqua, si raccolsero leprime pagliuzze del metallo prezioso. Ecco
come viene registrato l’evento nel diario di un operaio che era
presente: «Addì 24 gennaio, abbiamo trovato nel bottaccio una
specie di metallo che assomiglia all’oro, ed il primo a scoprirlo è
stato James Marshall, il costruttore della segheria». Vano ogni
tentativo di mantenere il segreto. In capo a poche settimane i
torrenti che si gettano nel fiume Sacramento, a cominciare dal Sutter
Creek, vengono presi d’assalto e passati al vaglio da una prima
ondata di improvvisati cercatori. Non è che l’inizio di un
fenomeno travolgente che ha ancor oggi dell’incredibile. Basti
pensare che dalle poche migliaia di bianchi presenti nel 1848 nelle
valli del Sacramento e del San Joaquin, e nelle zone pedemontane, si
passa a oltre centomila cercatori alla fine del 1849 e al doppio nel
corso del 1850, allorché si giunge in California da ogni parte del
mondo, Australia compresa.
Per gli
Europei, gli Asiatici e gli stessi Americani, la California è poco
più di un nome sulle carte geografiche. A dire il vero, essa era
assurta a qualche notorietà proprio agli inizi di quello stesso
anno, il 1848, per essere stata ceduta dal Messico agli Stati Uniti
dopo due anni di guerra.
Vaghe e
inaffidabili risultano le relazioni dei rari esploratori come
Lansford Hastings, autore di una Guida alla pista dell’Oregon e
della California (1845), che parlano di un clima ideale, di una
potenziale feracità del suolo, di un paesaggio primevo abitato da
pacifici indiani e pochi rancheros. Ancor più generiche le
notizie sui possibili percorsi o piste per giungervi. Dopo la
cittadina di Independence, nel Missouri, avamposto della civiltà
verso il mitico West, le carte geografiche registrano un vuoto tanto
sterminato quanto minaccioso sin quasi alla costa del Pacifico, un
vuoto vagamente marezzato di cilestrine montagne — le favolose
Montagne Rocciose — o caratterizzato dall’indistinto e
inesplorato amalgama di deserti e pianure.
Come
riferiscono le cronache dell’epoca, si giunge in California
soprattutto via mare attraversando l’istmo di Panama, o
circumnavigando il continente, per Capo Horn. Sia che venga scelta la
via di mare, o quella di terra, le fatiche affrontate da questi
Argonauti — così vengon detti — diretti verso la California sono
inenarrabili. Le carovane organizzate in tutta fretta, senza riserve
di cibo adeguato o di bestiame, senza guide esperte dei territori da
attraversare; o i navigli approntati alla bell’e meglio da
compagnie improvvisate, prive dell’equipaggiamento necessario a
mantenere i viaggiatori per mesi di navigazione, si mutano in
trappole mortali, in vere e proprie decimazioni. Lo scorbuto e poi le
malattie infettive come il tifo e il colera si diffondono prima fra
gli equipaggi e poi fra quanti si accampano lungo i fiumi
californiani.
Ciò non
toglie che l’entusiasmo per questa «nuova frontiera» che si
dischiude ad occidente sia incontenibile. Ecco cosa scrive in
proposito il «New York Herald» nel gennaio del 1849: «Il trambusto
determinato dalle miniere d’oro della California prosegue con
intenso fervore. Ogni genere di voci l’alimentano di giorno in
giorno. E ogni voce vien trangugiata con incredibile avidità. Al
momento lo spirito migratorio sembra far proseliti soprattutto negli
stati agricoli e commerciali del Nord e del Sudovest. Nei porti
dell’Atlantico si armano bastimenti e si formano società di
navigazione, i mariti s’apprestano a lasciare le mogli, i figli le
madri, i giovani gli agi consueti; tutti si gettano come forsennati
verso l’El Dorado del Pacifico, la meravigliosa California che sta
facendo uscir di senno troppa gente... Non passa giorno che uomini
benestanti non mettano in vendita i loro averi per fornirsi dei mezzi
necessari a raggiungere la meta dorata. Anche nelle altre città
grandi e piccole, più o meno lontane dai porti, si formano compagnie
per attraversare l’istmo o doppiare Capo Horn». Un occasionale
testimone che si trova appunto a Panama, nel 1851, annota: «Fra gli
Americani diretti verso la California ci sono uomini d’ogni ceto:
professionisti, mercanti, manovali, marinai, agricoltori, artigiani e
un gran numero di quei tipi che hanno dimestichezza con l’Ovest,
secchi e allampanati, muniti di schioppi più alti di loro». C’è
chi non manca di cogliere l’impressionante metamorfosi fra la
partenza e l’arrivo di quanti hanno preferito le piste di terra.
Così parla un testimone diretto, quale fu il giudice Ingall: «
L'aspetto degli emigranti s’è andato intristendo da quando siamo
partiti. All’inizio erano pieni di vita e d’animazione, e il
cammino era rallegrato dalla canzone I’m going to California
with my tin pan on my knee e dall’altra Oli, California,
that’s thè land for me. (Il titolo della prima canzone suona «
Me ne vado in California con la padella sul ginocchio » ove lo
strumento del cercatore d’oro tin pan sostituisce la parola
banjo della canzone originale. Il titolo della seconda è « O
California, sei la terra che fa per me ».) Ma ora essi si trascinano
a stento, affamati e sfiniti, e se s’ode un canto è Oh, carry
me back to old Virginia’s shore («
Oh, riportatemi alle spiagge della vecchia Virginia »). È
appena il caso di aggiungere che per questi Argonauti che giungono
stremati in California il bello deve ancora cominciare. Li attendono
fatiche e sofferenze incredibili nel vaglio dei fiumi e nello scavo
di rudimentali miniere. Cenciosi e malnutriti, si trovano esposti
alle intemperie e alle epidemie. Risse, ruberie, atti di brigantaggio
sono all’ordine del giorno in una terra senza legge. La California
dei loro sogni si rivela una terra disabitata, in gran parte
selvaggia, priva di qualsiasi struttura capace di far fronte ad
improvvise e formidabili ondate migratorie.
Fin dal 1848
la scoperta dell’oro crea quello che oggi definiremmo un indotto di
eccezionali proporzioni in una vastissima regione che manca di tutto:
viveri, legname, vestiario, attrezzature, trasporti, medicine...
L’ultimo, eccentrico anello dell’indotto è costituito dalle
guide per quanti si accingono a partire per la California e quindi si
mettono alla ricerca dell’oro. La guida del fantomatico Simpson —
nome certamente di comodo — pubblicata a New York con sorprendente
tempestività dall’editore Joyce and Co., nel 1848, è la prima di
una nutrita serie che l’avrebbe seguita. Guida o esca per accendere
le illusioni di migliaia di emigranti? Il dubbio è lecito poiché,
mentre ci attenderemmo un pragmatico vademecum con informazioni sui
luoghi, le distanze, gli itinerari, ci troviamo dinnanzi
all’esaltazione di una nuova età dell’oro. La guida è ad un
tempo ingranaggio dell’indotto commerciale e propulsore dei sogni
dei nuovi emigranti. L’enfasi e la dissimulazione sono i veri
ingredienti di queste pagine nelle quali l’autore sembra molto più
interessato a imitare i canoni di un genere letterario, che a fornire
informazioni di prima mano e di una qualche attendibilità. La stessa
divisione del libretto in due parti: il resoconto delle vicende
personali nella zona mineraria con il vivace corredo di eventi,
incontri, aneddoti, esplorazioni, e la raccolta oggettiva di dati sui
metodi di estrazione dell’oro, sulla flora e la fauna, gli usi e i
costumi degli abitanti, risponde ai criteri propri della letteratura
topografica e di viaggio del XVIII secolo. La guida mantiene infatti
un sostanziale equilibrio fra la suggestione narrativa delle
avventure e la funzione didattica della documentazione, fra il diario
e la storia, il dulce e l'utile oraziani. Più che un
avventuroso pioniere, il nostro Mr. Simpson, è un abile manipolatore
e cucitore di notizie, resoconti, relazioni — quelle citate di
Mason e di Larkin in particolare — e un non sprovveduto cultore di
letteratura di viaggio, visto che camuffa il proprio itinerario
californiano nella forma epistolare, una forma molto più consona ai
raffinati milordi del Grand Tour che ai rudi pionieri del West, e
trova il modo di imitare Gulliver e Robinson.
L’abilità
dell’autore della guida traspare anche da altri elementi in
apparenza contraddittori. Il primo è costituito dall’attendibilità
dei metodi di setacciamento, estrazione e depurazione del metallo
descritti nel testo, così da catturare l’interesse e la fiducia
del lettore. Il secondo è dato dallo stile pragmatico e disadorno
con cui si descrivono situazioni favolistiche come l’avvistamento
di torrenti dall’alveo d’oro. Il terzo è l’atmosfera
benevolente che affratella i cercatori, i quali non rivelano traccia
di brama o di egoismo. Una miscela che dà luogo ad uno deimiti
centrali del Nuovo Mondo, alla moderna reincarnazione dell’età
dell’oro. Soltanto più tardi scrittori come Mark Twain, Bret Harte
e Jack London faranno della corsa all’oro una metafora della lotta
per la vita.
La Guida
del cercatore d’oro della California è forse il primo esempio
di come si alimenta un mito su scala mondiale. Come nota il suo
autore, dietro le migrazioni dei cercatori, dietro il vanificarsi
delle illusioni di gran parte di loro, resta pur sempre una terra
dissodata — per usare un’immagine biblica — pronta per nuove
generazioni di più laboriosi pionieri e di accorti imprenditori.
Resta soprattutto, possiamo aggiungere, l’irrefrenabile impulso
verso la «nuova frontiera». La più clamorosa conseguenza della
corsa all’oro della California è infatti la penetrazione della
cosiddetta civiltà nel continente americano, sino alla costa del
Pacifico, e con essa il contributo dato dagli emigranti di mezzo
mondo all’assetto definitivo della confederazione americana.
Guida del cercatore d'oro della California, Sellerio, 1993
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