Migranti accolti sulla motonave norvegese Siem Pilot |
“Eh sì, il papa piace,
il papa parla dritto al cuore, tutti sono per il papa. Ma poi, quando
parla di immigrati…”. Don Beppe Gobbo lascia la frase a metà.
Nella sua spola tra quattro parrocchie della val di Pollina, e nel
piccolo centro di accoglienza di Calvene, provincia di Vicenza, ha
qualche titolo in più per parlare dei “preti di campagna in prima
fila”, rispetto al governatore del Veneto Luca Zaia, che a quella
categoria si è appellato contro il segretario generale della Cei,
monsignor Galantino, e la sua invettiva contro i “piazzisti da
quattro soldi”.
È in prima fila, don
Beppe, con molti altri. Quelli che, la domenica in cui sono caduti
alcuni muri europei e papa Francesco ha invitato ogni parrocchia a
prendersi una famiglia di profughi, hanno gioito, per il formidabile
assist alle loro difficili omelie della domenica.
Quelli che, nelle regioni
più cattoliche d’Italia, si vedono bocciare dai consigli pastorali
l’idea di aprire la canonica. Quelli che hanno dovuto rimangiarsi
l’offerta di locali ai profughi, perché troppo vicini all’asilo
dei bambini. Quelli che vivono pressati tra le richieste affannose
dei prefetti e le barricate premeditate dei sindaci – e spesso dei
loro fedeli. “I preti di campagna sono i baluardi
dell’accoglienza”, dice don Gobbo. Forse esagera. Forse non lo
sono sempre, e non lo sono tutti.
Ma, certo, è anche nelle
loro piccole canoniche – come nelle chiesone anonime delle
periferie cittadine – che passa la questione del secolo, le grandi
migrazioni e la loro accoglienza nella parte ricca del mondo. E,
dentro di essa, l’altra grande questione: che piega prenderà nei
fatti la chiesa di Bergoglio su questi temi?
Quanto è popolare e
seguito, nel cattolicesimo diffuso, il messaggio sociale di
Francesco? Dove e perché crescono le resistenze, a volte esplicite
ma più spesso silenti? Certo da noi, nel pieno dell’entusiasmo per
il papa, è difficile che un alto prelato esca allo scoperto come il
ruvido e massiccio Peter Erdoe, arcivescovo d’Ungheria: “Non
possiamo fare quanto ci chiede il papa, perché accogliere potrebbe
essere qualificato come illegale, in quanto traffico di esseri
umani”.
Ma la spaccatura c’è,
e passa, profonda, attraversando comunità e parrocchie, città e
campagne, giovani e vecchi, poveri e ricchi, regioni (ex) cattoliche
e regioni (ex) rosse. Partiamo da una di queste ultime.
Ferrara, il vescovo
e il don
Difficile incontrare
qualcuno a Ferrara che non conosca don Domenico Bedin. Difficile
almeno quanto riuscire a trascorrere più di dieci minuti con lui
senza che il suo cellulare cominci a squillare con insistenza.
Nei giri quotidiani tra
la rete di case di accoglienza di cui è responsabile, auricolari
fissi nelle orecchie, lui risponde a tutti, dal primo cittadino, che
spesso lo chiama per gestire grane, all’ultimo, con quel suo timbro
di pacatezza impastata di concretezza emiliana. Nei giorni successivi
all’elezione di papa Francesco qualcuno l’ha fermato per strada:
“Hai sentito, il papa dice le cose che hai sempre detto tu”.
“Questa cosa mi ha
rallegrato”, commenta sornione, “e insieme fatto sorridere”.
Punto di riferimento della comunità cittadina, per la diocesi locale
don Bedin è sempre stato una mosca bianca. Fin dai tempi di quella
piccola parrocchia nella periferia di Ferrara che lui ha animato per
vent’anni, dove la porta era sempre aperta a tutti, le raccolte di
firme degli abitanti contro il loro parroco sempre pronte e gli
imbarazzi della curia sempre malcelati.
Il prete ferrarese Domenico Bedin, detto don Bedin |
“Era un porto di mare”,
ammette e infatti quando cinque anni fa don Domenico ha scelto di
dedicarsi a tempo pieno all’associazione Viale K, in parrocchia è
arrivata “la normalizzazione”.
Nata negli anni ottanta
come struttura di prima accoglienza per persone in situazione di
povertà o disagio, oggi Viale K conta una rete di case di
accoglienza per italiani e stranieri. Dei circa 400 migranti ospitati
nella provincia di Ferrara, cento sono in carico alle strutture di
don Bedin. Nel cuore del modello emiliano “accoglienza diffusa e
attiva” non è un’espressione vuota.
Piccoli numeri in piccoli
luoghi, è la regola e la prassi, per lavorare all’inserimento
delle persone in contesti sociali e lavorativi: così nelle case di
accoglienza dell’associazione Viale K si coltiva frutta e verdura
poi venduta al mercato e si ricicla la plastica; a fianco di una
struttura di accoglienza hanno aperto un ristorante; poi ci sono le
scuole di italiano per i minori, il dopolavoro per le donne
provenienti dall’Europa dell’est, la mensa e i dormitori.
Ma se da una parte, nel
guado di una crisi che non ha risparmiato nessuno, Viale K è
diventata una sorta di stampella del sistema di welfare locale, dal
punto di vista pastorale “siamo considerati come una realtà a sé
stante, che non fa parte del vero progetto della diocesi, più
orientato all’evangelizzazione e alla difesa dei valori
fondamentali”.
Che don Bedin non esageri
si è capito alla fine di aprile scorso quando, in un intervento
pubblicato dal quotidiano “La Nuova Ferrara”, ha lanciato la sua
“provocazione”: “In un territorio economicamente fragile è
opportuno continuare ad accogliere? Sono 400 e se diventassero mille?
Siamo vecchi e con una denatalità spaventosa, ritengo che sia forse
la più grande opportunità che ci poteva succedere”.
La risposta del vescovo
Luigi Negri, ciellino, è arrivata il giorno successivo.
“L’arcivescovo Luigi Negri e la diocesi di Ferrara-Comacchio
sottolineano con forza che non hanno alcuna parte nelle dichiarazioni
rilasciate sulla stampa locale di oggi da don Domenico Bedin riguardo
alle possibili politiche migratorie sul territorio ferrarese poiché
non sono di loro specifica competenza”.
Una sonora rettifica, per
alcuni una scomunica. “Il vescovo pensa che una chiesa troppo
attiva sul tema della carità corra il rischio di educare le persone
al materialismo e di essere letta come un servizio sociale, perdendo
la sua identità che è quella di annunciare la verità sulle
questioni fondamentali, come la bioetica e la morale”, riflette
pacato don Bedin. La questione dirimente, non solo a Ferrara, è
quella di come interpretare la missione della chiesa.
Preti
di frontiera
Reticenze e resistenze
sono dure a scalfirsi, come dimostra anche la reazione del vescovo
Negri all’ultimo appello del papa all’accoglienza: “L’arcidiocesi
di Ferrara-Comacchio valuterà realisticamente la portata di questo
atto di carità, tenendo presente la situazione attuale delle nostre
comunità che purtroppo sono gravate da oggettive difficoltà”.
Don Bedin è un prete di
frontiera. Da una vita etichettato come “il prete dei poveri” e
che dunque nella chiesa di Francesco si trova un po’ meno solo –
ma sempre un po’ solo. Come si è trovato solo Oscar Cantoni,
vescovo di Crema, alle prese con la “strenua e tenace opposizione”
dei genitori dei bambini della scuola cattolica Manziana all’arrivo,
concordato tra Caritas e prefettura, di alcuni profughi nei locali
adiacenti alla scuola dell’ex convento delle Ancelle.
La lettera con la quale
il vescovo comunica di aver rinunciato a mandare i profughi in quella
scuola cerca esplicitamente di prevenire interpretazioni sbagliate
del suo gesto: “È un atto di umiliazione, non un atto di
codardia”. Ma è anche un atto d’accusa, amaro: nel piccolo, a
quei genitori che mandano i figli alla scuola cattolica, ma “non
utilizzano o comprendono le finalità educative che essa propone, tra
cui proprio l’accoglienza”; nel grande, quando constata come sia
“ben strano” che il papa, che gode in un “consenso universale e
applaudito da tutti, sia poi sistematicamente censurato quando non
concorda con le interpretazioni ideologiche e con gli schemi mentali
o spirituali di certi gruppi o persone, anche singole”.
La lettera di don Cantoni
è del 16 luglio: solo qualche settimana prima dell’appello del
papa in piazza san Pietro all’apertura delle parrocchie per
l’accoglienza di chi chiede rifugio. Non che ci fosse bisogno
dell’appello esplicito, a spiegare la linea del papa bastava quel
suo primo gesto della visita pastorale a Lampedusa (l’8 luglio del
2013), senza contare encicliche e interventi, primo tra i quali
quello tenuto nel settembre del 2013 nella sede del centro Astalli,
la struttura dei gesuiti che si occupa dei rifugiati.
Ma evidentemente una
spinta in più serviva, per provare a fare delle 27mila parrocchie
italiane degli esempi di quella “chiesa con le porte aperte” (in
entrata, ma anche in uscita, per andare fuori a guardare cosa c’è)
di cui parla Francesco. E una visita nel cattolicissimo Veneto lo
conferma.
L’accoglienza
difficile del Veneto
Con i suoi 1,3 profughi
ogni mille abitanti, il Veneto non porta sulle spalle il peso
maggiore della nuova onda di immigrazione, quella del 2014-2015, a
guardare la distribuzione nelle regioni italiane.
Ma certo la regione
Veneto è quella che protesta di più. Dalla sua testa, il
governatore della regione, al suo corpo amministrativo – è nato il
fronte dei 29 sindaci del no, che hanno chiuso programmaticamente i
loro comuni a ogni arrivo – a una parte dei suoi cittadini.
Quelli che scendono in
piazza o riempiono petizioni appena il giornale locale annuncia che
sta per arrivare un gruppo di profughi, mandati dal prefetto, a volte
all’improvviso ma più spesso dopo un’istruttoria e un accordo
con vari soggetti: tra i quali, purtroppo, si trovano più parroci
che sindaci, più Caritas che municipi, più cooperative sociali che
servizi pubblici territoriali.
Molto più che altrove,
il “modello” dell’accoglienza scelto in Veneto si basa sugli
alberghi: alla fine, la soluzione più rapida per i prefetti che non
sanno che pesci prendere, ma spesso assai problematica. Non tanto per
gli albergatori – i quali si offrono volontariamente e ne sono
spesso ben contenti – quanto per l’impatto sul territorio, sui
vicini, sull’inserimento.
Ma fare accoglienza
diffusa è difficile. Ha fatto notizia, nella scorsa primavera, la
fiaccolata di Padova guidata dal sindaco Bitonci contro la presenza
di un gruppetto di profughi in una casa privata messa a disposizione
da un’anziana vedova. Ma cose così, nel cuore del bianco Veneto,
succedono di continuo.
Il piccolo comune di
Camisano si è ribellato contro sette donne per le quali una coop di
Vicenza aveva trovato, dopo lunghe ricerche, un appartamento
disponibile. “Due sono incinte”, hanno titolato i giornali e
questa è stata considerata, dal sindaco (medico) in giù,
un’aggravante.
“Siamo in mezzo a un
polverone, e non sappiamo bene perché, abbiamo seguito tutte le
procedure giuste, e siamo convinti che il modello dei piccoli numeri
sia quello più gestibile”, dice Barbara Baldi, presidente della
cooperativa Tangram che si occupa delle sette ragazze; e racconta
della difficoltà a trovare i posti, anche bussando alle porte delle
canoniche.
Lo stesso è successo
alla cooperativa Cosmos, 49 profughi sistemati per ora in dieci
appartamenti. Valentina Baliello, responsabile del progetto di
accoglienza della coop per la provincia di Vicenza, racconta di
progetti che partono e di muri e muretti che vengono su, a volte
camuffati dietro motivazioni pratico-logistiche. Spesso l’agenzia
immobiliare che trova la casa di un privato – e a prezzi di mercato
– è la strada più rapida, di fronte a porte che si chiudono anche
nei luoghi sacri.
Ci sono chiese che aprono
gli oratori e le canoniche, oppure offrono i campetti di calcio. Ma
anche altre che li chiudono, o fanno orecchie da mercante. E spesso,
raccontano gli operatori del sociale, questo succede non tanto per
decisione del parroco, ma per l’intervento dei consigli pastorali:
già, perché il parroco non ha un potere assoluto, e per gestire le
sue parrocchie – e i relativi locali – deve chieder conto anche
alla complicata governance dettata dal diritto canonico.
I consigli pastorali,
eletti con una sorta di primarie dalle comunità, devono deliberare
sulle questioni più importanti della parrocchia, ed eleggono poi i
consiglieri per gli affari economici, insomma quelli che gestiscono
casse e beni. Non è facile muoversi: “C’è bisogno di motivare
la sensibilità dei cristiani, perché respirano disinformazione”,
dice don Luca Facco di Padova.
Facco racconta quel che è
successo in una delle tre parrocchie della sua zona che hanno
accettato l’invito ad aprire le porte, in quel di Cittadella (già
resa famosa a suo tempo dalle iniziative contro gli immigrati
dell’allora sindaco Bitonci, poi diventato primo cittadino di
Padova): quando finalmente è stato firmato l’accordo e le porte si
potevano aprire, è intervenuto il comune a chiudere tutto. Con tanto
di insulti al prete che si era permesso di parlarne dal pulpito.
Se si scava un pochino
emergono l’individualismo, il corporativismo, la logica di
campanile
Episodi che si ripetono
ogni volta, seguendo lo stesso copione. E dei quali le cronache
locali sono piene. E quando non sono al centro della bufera per i
locali concessi o negati, i preti si trovano lo stesso in mezzo alla
questione, per fare mediazioni, cercare soluzioni, metterci una buona
parola.
Com’è successo a
Sant’Anna di Chioggia, 4.800 abitanti a pochi chilometri dalla
splendida laguna, dove qualche settimana fa si è svolta una strana
assemblea in parrocchia. Fedeli, cittadinanza interessata, comitato
cittadini, prete, Caritas diocesana. Non un rappresentante delle
istituzioni, dei partiti, dei sindacati. E nel mezzo don Nicola, a
cercare di sbrogliare la matassa: 52 profughi arrivati a fine maggio,
per il 60 per cento musulmani, piazzati al Bragozz, l’albergo a due
stelle che si affaccia sul traffico della via Romea, in posizione
centrale, ma bisognoso di una qualche risistemazione.
Dalla sua postazione
della Caritas del nordest, don Callegari chiama in causa la
responsabilità delle istituzioni. Ma non si sottrae alla riflessione
sulle responsabilità, e le divisioni, del mondo cattolico. Che si
trova alle prese con il papa più amato che gli chiede di fare le
cose più difficili. Ma davvero il papa è così popolare quando
parla di carità?
Don Marino sorride. “Se
posso permettermi una battuta, agli uomini piacciono sempre le belle
donne possibilmente giovani, ci si innamora facilmente, poi
dall’innamoramento allo sposalizio, ai venticinquesimi o
cinquantesimi, di strada ne passa”. Soprattutto se il cattolicesimo
è quello veneto: “Non dimentichiamo il passaggio culturale
profondo che qui è stato compiuto, ben analizzato da Ilvo Diamanti:
una regione bianca, cattolica nella quale nasce e si consolida una
maggioranza localistica e leghista. Un cattolicesimo tipicamente
veneto, diffuso in parrocchia, negli oratori e nelle mentalità: ma
appena si scava un pochino, emerge l’individualismo, il
corporativismo, la logica del campanile”.
Il cambiamento
parte dalle avanguardie
In un simile contesto,
ormai storicamente dato, piomba il messaggio di Francesco, con alcuni
dei vescovi veneti in prima fila nel rilanciarlo, a partire dal
patriarca di Venezia, Moraglia, “chi non accoglie non può dirsi
cristiano”. Però la realizzazione, il cambiamento profondo, dice
don Marino, “è affidato a delle avanguardie: in parrocchia o nella
Caritas o altrove”.
Tuttavia, dopo il
messaggio dell’Angelus di domenica 6 settembre, c’è stata
un’accelerazione. A Padova, durante una riunione di tutti i vicari
foranei (un organismo di partecipazione e consultazione previsto da
quella diocesi) si è deciso di lanciare una campagna di
informazione, di stampare un opuscolo per smontare i tabù contro
l’accoglienza, da distribuire ai consigli pastorali.
E al livello nazionale in
tutte le 27mila parrocchie arriverà, il 30 settembre, un vademecum
dai rispettivi vescovi, su come tradurre in realtà l’invito del
papa.
Secondo monsignor
Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes,
quella domenica qualcosa è cambiato. “L’annuncio del papa ha
fatto emergere un consenso diffuso. Stiamo ricevendo inviti da tutte
le regioni, di strutture che si candidano a ospitare”. Per molti
parroci è stato un aiuto fondamentale. Come per don Tommaso
Scicchitano, giovane parroco in provincia di Cosenza che, dopo
l’appello di papa Francesco, ha scritto un post su Facebook per
chiamare a raccolta i suoi parrocchiani: “Papa Francesco ha chiesto
a ogni parrocchia di accogliere una famiglia di profughi. Che
facciamo? Gli diciamo di no?”.
E ha tirato un sospiro di
sollievo: “Adesso che l’ha detto anche il papa, mi sento più
libero di potere immaginare qualcosa, perché affrontare i problemi
etici è meno rischioso, puoi essere d’accordo o meno, ma è un
modo più semplice di vivere. L’accoglienza invece ti pone di
fronte al rischio di non essere in grado di gestire una situazione
difficile, è una scommessa”.
Dalle parti di
Francesco
Gesuiti, immigrazione,
accoglienza: il centro Astalli, che gestisce in Italia il servizio
per i rifugiati della Compagnia di Gesù, è una tappa obbligata di
quest’inchiesta. Nato nel 1981, gestisce una fitta rete di
strutture: solo a Roma ci sono otto sedi (per 20mila rifugiati
all’anno circa) per l’accoglienza ai rifugiati. Qui è nato
(all’indomani di quel primo appello del papa del 2013) Comunità di
ospitalità, un progetto di seconda accoglienza rivolto a persone in
possesso del permesso di soggiorno con l’obiettivo di sostenerne e
facilitarne il percorso di inserimento abitativo e lavorativo.
Dal 2014 però, quando il
progetto è partito, solo 15 istituti religiosi, su un totale a Roma
di circa 500 tra maschili e femminili secondo i dati della diocesi
capitolina, hanno messo a disposizione i loro locali e ospitano
attualmente una ventina di persone. Una risposta contenuta? “È
vero che ci sono tanti conventi, ma ci sarebbero anche tante caserme.
L’accoglienza è una cosa dello stato eppure abbiamo regioni intere
che non fanno assolutamente niente”, risponde Bernardino Guarino,
direttore del centro Astalli.
Però il problema è
anche che, a meno di non volere fare affari, i luoghi
dell’accoglienza non si possono inventare. Tra gli enti
ecclesiastici c’è una grossa potenzialità ma spesso si tratta di
strutture che andrebbero messe a norma. Più in generale si tratta di
creare una cassetta degli attrezzi perché l’accoglienza è un
processo che va governato e costruito, anche nel mondo cattolico.
E Guarino sottolinea
un’altra parola importante, quando si parla di accoglienza:
gratuità. “La novità del messaggio papale è quella della
gratuità dell’accoglienza, accogliere cioè non solo se c’è
qualcosa in cambio, ma perché è la persona che deve essere messa al
centro. C’era il rischio che i cattolici delegassero il tema agli
enti che abitualmente si occupano di accoglienza, come la Caritas, e
il papa li ha chiamati a una responsabilità personale”.
Per questo c’è chi,
più che delle divisioni che attraversano la chiesa, preferisce
parlare della spaccatura che attraversa le coscienze. “Il papa ci
sta dando colpi ai fianchi. C’è una parte di noi stessi che non
sempre vuole accettare il Vangelo”.
Chi parla, dai suoi
uffici di via della Conciliazione, è l’arcivescovo Claudio Celli,
che da presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni
sociali si trova a gestire sia il versante teologico sia –
soprattutto – quello social e pop di Francesco.
Eravamo come
assopiti
Quello che sta succedendo
in questi giorni, in questi mesi, dice Celli, è fuori dell’ordinaria
amministrazione. “È come quando cadde il muro di Berlino, un
ecclesiastico tedesco mi confidò: per noi era più comodo prima,
avevamo un alibi, una scusa per non agire”.
Quali sono i “colpi ai
fianchi” che sta dando il papa, e a quali fianchi? “Il richiamo
continuo e forte all’essenzialità del Vangelo. L’opzione
preferenziale per i poveri. La chiesa come ospedale da campo,
accidentato e imperfetto, preferibile a una chiesa perfetta ma
immobile”.
Grande punto di
riferimento, racconta don Celli, è il documento di Aparecida,
che concluse la conferenza dell’episcopato latinoamericano nel
2007. L’allora cardinal Bergoglio fu il presidente del Comitato di
redazione del documento: nella ricostruzione della “politica
sociale” della chiesa che sta venendo fuori, tendiamo a dimenticare
il fortissimo impatto della sensibilità, e della storia,
latinoamericana.
Ma tutto entra nella
carne viva oggi, di fronte al mondo che cerca di spalancare le porte
chiuse d’Europa e d’Italia: “Diciamolo: noi a livello italiano
ed europeo ci eravamo come assopiti. Ma a volte la vita, la realtà,
ci obbliga a delle scelte”.
Le opposizioni a
Francesco nell’establishment cattolico? “Ci sono molti
benpensanti che ritengono che il papa abbia esagerato: ma dicevano
così anche ai tempi di Gesù, lo definivano un pazzo”.
I benpensanti, nel
discorso di don Celli, sono sparsi ma molto più presenti ai piani
medio alti che a quelli bassi: “Mi sembra che ultimamente il popolo
di Dio abbia scavalcato certi pensatori”, afferma parlando del
viaggio negli Stati Uniti e dei movimenti conservatori nel
cattolicesimo americano. Nelle riflessioni del presidente del
Consiglio pontificio, le innovazioni sulle questioni della morale
familiare e sessuale e quelle sul messaggio sociale vanno insieme: “È
la chiesa che va incontro all’uomo, qualunque sia il suo stato di
vita”.
Torniamo nelle
catacombe
Si vedranno il 16
novembre, sotto la terra di Napoli. Rinnoveranno, nelle catacombe
della Sanità, quel patto siglato cinquant’anni fa dalla “chiesa
delle catacombe”, per una chiesa “serva e povera”. La citazione
non è casuale: era il 1965, si concludeva il concilio Vaticano II, e
a sottoscrivere quel patto fu una maggioranza di cardinali
latinoamericani.
Fu una delle premesse
della teologia della liberazione, che sarebbe stata poi spianata
dalla chiesa ufficiale. Nell’anno 2015, hanno deciso di rievocare e
rifare quel patto un buon numero di preti di frontiera. Quelli che si
trovano agli incontri di Libera, che vanno dalla barricate
afronapoletane di Alex Zanotelli al pragmatismo lombardo – e
radicale – della Casa della carità di don Colmegna.
“Torniamo nelle
catacombe, per tornare al messaggio originale di una chiesa che vive
povera”, dice Virginio Colmegna. Racconta che a Bruzzano, nella
parrocchia della Maria Vergine Assunta, dal 24 luglio a oggi sono
passate 351 persone di tredici nazionalità, e il progetto, promosso
con la Casa della carità, è riuscito. “Bisogna osare, rompere.
Non basta dire che la chiesa è per i poveri: deve essere povera. Non
bisogna utilizzare i poveri per affermare la propria identità”.
Attenzione, il messaggio
che uscirà dal nuovo patto delle catacombe sarà bello tosto: “Gli
atei devoti pensano ancora che la religione sia un tranquillante, che
si possa proporre un Dio utile per sé: no, Dio non è utile, entra
nelle pieghe, nelle sofferenze”. Pronti a raccogliere e rilanciare
il messaggio, tanti uomini di chiesa, da nord a sud. Non è la parte
maggioritaria della chiesa, ma non è più nell’ombra o in castigo.
Anzi, è tornata al centro della scena per portare a termine quel che
era cominciato nel lontano 1965. Come dice don Colmegna: “Il
concilio Vaticano II comincia adesso”.
Dal sito di
“Internazionale”, 22 settembre 2015
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