Lucio Mastronardi |
Esistono oggi in Italia
scrittori come Lucio Mastronardi? La domanda non è affatto
peregrina, se per essa intendiamo la capacità di raccontare le
trasformazioni della sterminata provincia italiana e, attraverso
questo filtro, riuscire a prevedere come esse cambieranno il volto
dell'intero Paese. Non siamo in grado di dire se oggi vi siano,
nemmeno in nuce, scrittori dotati di suddette virtù
visionarie, come fu Mastronardi per una breve stagione a cavallo tra
gli anni cinquanta e sessanta, oppure il suo amico Luciano Bianciardi
o ancora Pier Paolo Pasolini. Quel che è sicuro è che quella
folgorante meteora che per qualche anno illuminò il panorama della
letteratura italiana è oggi fuori dagli scaffali delle librerie e
dalle pagine culturali dei giornali, e Mastronardi (a differenza di
Bianciardi e Pasolini) è da annoverare a pieno titolo tra gli
scrittori dimenticati del Novecento italiano.
Grande merito, allora, a
cinquantanni esatti da quel Maestro di Vigevano che rimarrà
il suo ineguagliato successo editoriale (al quale si ispirerà Elio
Petri per l'omonimo film con Alberto Sordi protagonista), a Riccardo
De Gennaro per aver ritirato fuori la vicenda umana e letteraria di
uno dei tanti scrittori abbandonati per strada nella vorticosa
progressione della storia italiana del dopoguerra (La rivolta
impossibile Vita di Lucio Mastronardi, prefazione di Goffredo
Fofi, Ediesse editore). Si tratta della prima biografia di
Mastronardi, a più di trent'anni dalla morte, e anche questo la dice
lunga sull'oblìo cui è stato consegnato lo scrittore di Vigevano.
Bisognerebbe chiedersi il perché, ancora una volta, la sua prosa non
abbia retto all'urto del tempo, nonostante a rileggerlo si possano
ritrovare i germi dell'Italia di oggi e si possa capire da dove
provenga una certa cultura che ha spadroneggiato nell'ultimo
trentennio. Ci si domanda: come avrebbe trattato gli yuppies dell'era
craxiana, gli aziendalisti, i rampanti della finanza, l'avanzata
leghista lo scrittore che per primo, raccontando l'ascesa sociale (da
scarpari a industrialotti) dei suoi compaesani, aveva intuito alla
radice la degenerazione del boom economico in un Paese ancora
scarsamente acculturato, se il 27 aprile del 1979 non avesse deciso
che era ora di farla finita per davvero e si fosse gettato nell'amato
Ticino («La piazza e il fiume, questo amo di Vigevano, null'altro»,
soleva dire)?
La parabola di
Mastronardi scrittore è molto breve, figlia del neocapitalismo dei
primi anni sessanta ed essenzialmente legata a una trilogia che si
apre nel 1959 con il Calzolaio di Vigevano e, dopo l'exploit
del Maestro, si conclude con Il meridionale di Vigevano.
Il resto saranno oscillazioni tra il non riuscire a sconfinare dalla
cittadina lombarda, che faticherà ad abbandonare anche solo per una
vacanza, e l'ambizione di «diventare uno scrittore», smarcandosi
finalmente dall'artigianato di provincia e avvicinandosi al Gruppo 63
che proprio allora muoveva i primi passi. In entrambi i casi lo
scrittore di Vigevano incontrerà la disapprovazione di Italo
Calvino, suo grande estimatore fino a quel momento. Una
disapprovazione che sfocerà in scontro aperto, anche per il
carattere fumantino di Mastronardi, e culminerà nella rottura tra i
due e nel passaggio di quest'ultimo dalla Einaudi che lo aveva scoperto e
lanciato alla Rizzoli. La prima stroncatura Calvino la riserverà,
nel 1965, al suo quarto romanzo ancora dattiloscritto,
L'industrialotto: «Naturalmente quello che posso dirti lo sai
già da te: è sempre la stessa storia, le stesse persone, lo stesso
mondo. Con ciò non voglio dire che devi cambiare, per carità! Ma
non aver fretta e lascia scorrere il tempo, lascia che il mondo cambi
intorno a te, e poi, se ne hai voglia, ne registrerai i cambiamenti
(...) Il lavoro dello scrittore non è mica quello di un giornale:
noi lavoriamo sui tempi lunghi».
La seconda arriverà a
seguito di uno scambio di missive per un progetto, poi abortito, di
un libro di racconti: «Non leggere libri di critica che ti
confondano le idee. Leggi il Volponi». «Un mattone», per
Mastronardi, che contrattacca: «Ho letto le Mimesis di
Auerbach; stupenda opera. A pagina 326 del secondo volume ho
finalmente trovato un pensiero che, forse, mi ha sbloccato dalla
crisi nella quale mi dibatto da anni e che risale al Calzolaio,
appena subito dopo (...) Per me che cerco di descrivere
trasformazioni sociali, il senso del tempo è essenziale». La
reazione di Calvino è dura: «Trovo che dal tuo temperamento
stilistico è molto meno lontano Volponi che i tipi che scrivono
incastrando una storia con l'altra. (...) Scritti come erano scritti
i tuoi racconti hanno un senso, non solo logico ma letterario. Così
no, anche se usi lo stesso materiale variamente disposto. Te lo
dicevo che a leggere libri di critici pasticcioni ti sarebbe venuto
da fare dei pasticci». Quando parla di «critici pasticcioni»
Calvino si riferisce a personaggi come Barilli, Guglielmi,
probabilmente Balestrini, ma il bersaglio principale rimane
Mastronardi.
«Mi pare che la nuova
strada non valga la vecchia», gli rimprovera in una delle ultime
lettere, il 6 aprile del 1966, a commento di un racconto inedito
intitolato Un poco di buono, lasciando intendere che la sua
originalità era legata proprio al modo in cui, raccontando la sua
Vigevano, Mastronardi aveva messo a nudo le magagne di un'intera
nazione contagiata dalla febbre della crescita economica e
dell'industrializzazione, e che l'«italo-lombardo» (la definizione
è di Vittorini, che pare gli abbia fatto riscrivere il Calzolaio
ben quindici volte) dei suoi libri era già la sperimentazione più
felice che potesse aver compiuto. Prova postuma ne sia il fatto che
il suo ultimo romanzo, pubblicato da Rizzoli nel 1971, A casa tua
ridono, lascerà poche tracce e sarà accolto freddamente dallo
stesso establishment letterario. Pur nell'eclissarsi della
meteora, Mastronardi avrà però un ultimo guizzo, riuscendo a
profetizzare la mercantilizzazione dell'editoria in una lettera del
1966 a Guido Davico Bonino in cui sostiene polemicamente che la
maggior parte degli editori «non crede per niente nella letteratura,
non crede negli scrittori, non crede in niente fuorché nel commercio
e negli affari» e che i libri «sono oramai diventati oggetti di
consumo, come i dischi».
Il fitto carteggio con
Calvino è uno dei fili più importanti che sorreggono La rivolta
impossibile, quasi un'autobiografia nella biografia, tanto
intenso fu il rapporto tra due personaggi che non potevano essere più
diversi. Era stato lo scrittore de Le città invisibili a
costituire una sorta di fratello maggiore dai tempi in cui
Mastronardi si era presentato in questo modo a Vittorini: «Sono un
giovane di 25 anni e da almeno dieci mi interesso di letteratura...
Verga, Pirandello, lei, Hemingway e Steinbeck, l'Americana...».
L'infatuazione della casa editrice per quel giovane aspirante
scrittore, maestro elementare nella capitale della scarpa, figlio di
un comunista e d'indole profondamente anarchica, finito due volte in
manicomio e una volta in carcere per aver litigato con un ferroviere,
allontanato dalla scuola in cui insegnava nell'esilio di
Abbiategrasso perché in rotta con l'intero istituto, fu totale ed è
certificata dallo stesso Giulio Einaudi nel libro-intervista di
qualche anno fa a Severino Cesari. La Storia darà loro ragione e la
trilogia vigevanese, pubblicata nei «Coralli», rimarrà insuperata:
quel «fare soldi per fare soldi per fare soldi» raccontato da
Giorgio Bocca in un celebre reportage gli darà spunto per
immortalare una classe operaia che, stordita dal boom, non aveva
saputo sviluppare una coscienza di classe. A ben leggere, in quel
cambiamento antropologico possiamo trovare le radici dell'ideologia
leghista e di quella berlusconiana. Ritorna la domanda: esistono oggi
in Italia scrittori come Lucio Mastronardi, capaci di raccontarci non
solo come siamo, ma dove stiamo andando?
“alias domenica il
manifesto”, 10 giugno 2012
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