Salvatore Settis |
«Sarebbe
assurdo che una generazione precedente potesse limitare l'uso che
(della terra, n.d.r.) faranno le generazioni successive, poiché la
terra appartiene ad esse proprio come appartenne ai loro
predecessori, al loro tempo». Sono parole che potrebbero provenire
da uno dei tanti benemeriti difensori dell'ambiente, parole che
figurerebbero benissimo anche in un editoriale del nostro manifesto.
Sono invece tratte dalle Lezioni
di Glasgow
di Adam Smith, i corsi accademici che il maggior fondatore della
moderna teoria economica tenne nell'università scozzese tra il 1762
e il 1764 (tradotte in italiano da Giuffré nel fatidico 1989). Già,
proprio quello Smith di cui il neoliberismo, fuori e dentro d'Italia,
si è - indebitamente - appropriato come padre nobile al fine di
legittimare la propria ideologia imperniata sull’homo
oeconomicus,
egoista e dedito solo al profitto immediato, tale quindi da
giustificare anche lo sfruttamento senza tregua di quei beni comuni
apparentemente gratuiti (perché senza cartellino di prezzo), che
chiamiamo ambiente o territorio o, semplicemente, natura.
Il
nesso tra neoliberismo e distruzione dei beni comuni è diretto e
profondo, e il riconoscerlo è merito non piccolo di quest'ultimo
libro di Salvatore Settis, Azione
popolare. Cittadini per il bene comune
(Einaudi 2012) , l’archeologo che da anni si è trasformato in
intellettuale militante per la tutela non solo del patrimonio
storico-artistico, come pure ci si potrebbe attendere da un esperto
del settore, ma di quel bene molto più fragile -perché perlopiù
intangibile e quindi meno o per nulla difeso - che è il paesaggio
italiano. Questo era appunto il tema di Paesaggio
costituzione cemento
(Einaudi 2010), che ricostruiva il dibattito secolare sulla difesa
del territorio, partito addirittura prima dell'unità d'Italia,
all'epoca degli stati italiani pre-risorgimentali, e che trovò una
sintesi felice nell'articolo 9 della Costituzione, che considera i
beni culturali e il paesaggio come un unico patrimonio culturale da
salvaguardare. A quel libro e alle sue ultime pagine, che esortavano
a resistere alla crescente devastazione attraverso forme di azione
popolare da intraprendere per una più piena attuazione della
condizione di cittadinanza, si riallaccia il titolo di questo nuovo
testo, che fonde assieme una vasta serie di analisi che si nutre di
apporti provenienti dalle più diverse discipline: storia, economia,
sociologia, diritto, filosofia e persino biologia evolutiva.
Pur
in tanta ricchezza e complessità, l'obiettivo è sempre chiaro e mai
perso di vista: la rivalutazione del bene comune, al di là di ogni
uso retorico o strumentale, e dei beni comuni, senza cui il primo
diventa solo un slogan vuoto, da stiracchiare per l'ennesima campagna
elettorale. Di beni comuni oggi si parla molto, e anche confusamente,
finendo per comprendervi tante cose diverse, a volte troppe. Al primo
posto non possono che esservi i «beni comuni materiali naturali»,
come li chiama Giovanna Ricoveri ispirandosi a Empedocle: terra,
acqua, aria, energia (in Beni
comuni vs merci,
Jaca Book 2010, di cui è imminente l’uscita in inglese con il
titolo Commons
vs commodities,
con prefazione di Vandana Shiva). Ma se questo può bastare per i
cosiddetti paesi in via di sviluppo, non è così per un paese come
l'Italia, la cui identità storica è fatta anche di luoghi, di
paesaggi, di monumenti che fino a poco tempo fa erano parte del
demanio pubblico e che lo sciagurato federalismo demaniale rischia di
smantellare una volta per sempre, all’insegna di quello slogan
«padroni a casa nostra» che riflette, come forse nessun altro, lo
sgretolamento dell'idea stessa di una cittadinanza italiana.
La
riflessione di Settis oscilla costantemente tra memoria storica,
disamina del presente e tensione verso il futuro, tenacemente
sorretta dalla convinzione che se non si sa guardare indietro, non si
può neppure sperare di saper guardare avanti. Di qui l'ampia
ricognizione di carattere giuridico sull'antica nozione di usi civici
o beni collettivi, «un altro modo di possedere» (la definizione è
del giurista Paolo Grossi), oggetto di una secolare battaglia
politica e legale in nome dell'egemonia della proprietà privata che
ha sempre cercato di ridurla ai minimi termini in quanto ostacolo al
profitto dei ceti dominanti. Ma la proprietà collettiva, forma
spontanea di auto-organizzazione socio-economica pervasa da spirito
comunitario, ha ricevuto anche di recente critiche drastiche da parte
di scienziati sociali sulla base della teoria detta «tragedia dei
beni comuni», secondo cui essi sarebbero inevitabilmente destinati a
perire per l’eccesso di consumo collettivo. Una teoria che il lungo
lavoro empirico di Elinor Ostrom, l’economista scomparsa da pochi
mesi, ha rivelato privo di fondamenta, un puro asserto ideologico. È
anche a lei che Settis guarda per rivalutare il principio di
cooperazione che il neoliberismo ha sempre vilipeso in favore della
competizione ossia del mercato, trattato come una sorta di entità
metafisica, di nuova religione secolare, che l’autore smaschera
come un falso mito. Così come smaschera come vera ed estrema
antipolitica il tentativo di screditare come antipolitici tutti quei
fermenti spontanei di protesta contro la politica ufficiale che
esclude la voce dei cittadini proprio quando si tratta di decisioni
vitali per la salute e il benessere della comunità (gli esempi al
riguardo si sprecano, ma per chi scrive da Vicenza, già città del
Palladio e ora di basi militari, il riferimento è immediato).
Quello
di Settis è ancora una volta un appassionato richiamo al diritto di
resistenza sulla scia di una proposta che risale a Dossetti e La
Pira, pur senza entrare nella discussione di forme specifiche ma
fornendo una poderosa legittimazione storica e culturale.
Diceva
Andrea Zanzotto che siamo passati dai campi di sterminio allo
sterminio dei campi, «fatti apparentemente distanti ma che dipendono
dalla stessa mentalità». Questo libro ci aiuta a capirlo.
"alias-talpa il manifesto", 6 gennaio 2013
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