Pioveva sul giardino
ducale di Modena. Scendeva la sera, e centinaia di persone
sopportavano la pioggia senza battere ciglio. L’enorme palcoscenico
era ancora deserto, con quattro sedie vuote e un tavolino basso.
Modena, in Emilia-Romagna, è una città molto chic, e come in tutta
la regione qui abbondano i ricchi, il sangue latino e il parmigiano.
Qui si fabbricano le Ferrari, le Lamborghini, le Maserati; qui c’è
la casa in cui ha vissuto Enzo Ferrari e, a pochi metri, quella di
Luciano Pavarotti.
Dieci minuti dopo, sotto
la pioggia che continuava a scrosciare, tra gli applausi e le grida,
tre uomini e una donna sono saliti in scena. Lei era una
presentatrice acida della televisione; loro erano gli imprenditori
gastronomici più dolci d’Italia. Massimo Bottura, 53 anni, del
posto, di solito è presentato come “il secondo miglior chef del
mondo” (dopo Adrià, chiaramente) e la sua Osteria è solo qui.
Carlo Cracco, 50 anni, veneto, è il cuoco più richiesto da quando
presiede la giuria di MasterChef Italia. Oscar Farinetti, 61 anni,
piemontese, è il commerciante per eccellenza, l’inventore della
catena di negozi Eataly che vende prodotti e generi alimentari
italiani nelle grandi città del mondo.
La pioggia non accennava
a fermarsi e loro ricordavano, riflettevano, pontificavano. Ognuno
rispettava il suo ruolo: Massimo l’Appassionato raccontava
ossessivamente le sue ossessioni culinarie; Carlo il Bello se ne
usciva con frasi ingenue e commoventi; Oscar l’Astuto lanciava
slogan dalle velleità filosofiche; Serena la Cinica li punzecchiava.
Il pubblico mangiava e
beveva ogni parola. Ti spiegavano delle cose: che la cucina italiana
è più esportabile di altre perché a definirla non sono le tecniche
ma i prodotti, che i tortellini crudi sono quanto di meglio ci sia
per farci sentire di nuovo bambini, che Lou Reed era diffidente, ma è
andato all’Osteria e ci è tornato tre giorni di seguito, che
abbiamo il miglior formaggio del mondo, che dubitare è fondamentale,
che bisogna pagare di più per i prodotti buoni, e altre verità
vere.
Io li ascoltavo, mi
bagnavo e mi meravigliavo ancora una volta del fatto che il cibo, un
esercizio quotidiano, ripetuto, attraverso cui riforniamo di energia
e piacere i nostri corpi, sia diventato soprattutto qualcosa che non
si mangia, ma che si legge, si ascolta, si guarda, si immagina.
Una
certa vergogna
Il cibo, la cosa più
materiale che c’è, quella più intima, è entrato nella logica
dello spettacolo o della masturbazione. È un sintomo: passiamo ore a
guardare da lontano quello che prima toccavamo, annusavamo,
ingoiavamo. Forse è il cambiamento necessario per trasformare la
gastronomia nell’arte del momento. Non è difficile: non è cara,
non richiede formazione, ci sentiamo in grado di capirla. Di sicuro
il discorso sul cibo, da queste parti, è onnipresente. Come dice
Paolo Poli, uno dei comici più conosciuti (e longevi) d’Italia:
“Credevo che questo fosse il secolo del sesso, invece è il secolo
della cucina”.
Il mondo ricco non riesce
a smettere di parlare (di guardare, di sentire, di leggere) di cibo,
e prova una certa vergogna quando qualcuno fa presente che quasi un
miliardo di persone non hanno abbastanza da mangiare. Che molti
muoiono e che la colpa di solito è di un sistema che concentra la
ricchezza, anche quella alimentare, nelle mani di pochi: nelle nostre
mani.
Allora l’Expo di
Milano, che è costata qualcosa come tredici miliardi di euro ed è
una grande vetrina dell’alimentazione di chi riesce ad alimentarsi,
ha scelto come slogan: “Nutrire il pianeta”. Allora il festival
di Modena ha previsto, tra centinaia di dibattiti e lezioni e
dimostrazioni della miglior gastronomia, uno sciocco argentino che
presenta, una domenica pomeriggio, un libro sulla fame. E questo,
immagino, migliora la digestione di tutto il resto. La colpa, se
colpa esiste, scende meglio con l’olio al tartufo. Bianco, è
ovvio.
Nel sito di
“Internazionale” da “El Pais”(Traduzione di Francesca
Rossetti), 8.10.2015
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