Per qualche ragione gli
scrittori americani che bevono forte sono molti. Certo, i beoni delle
lettere hanno abbondato anche in altre nazioni: Burns, Swinburne,
Lionel Johnson, Ernest Dowson, Verlaine, i due ciccioni Dylan Thomas
e Evelyn Waugh. Dei russi non ne parliamo: basti citare Sergei
Yesenin, marito di Isadora Duncan, che scrisse col sangue il
biglietto del suicidio. Ma nell'America del ventesimo secolo l'alcool
non è stato solo un problema 'cronico' ma il compagno naturale del
letterato, della sua solitudine, della frenesia e delle aspirazioni
artistiche, del suo essere «speciale» in una società dove ciò che
conta è sempre il denaro.
Ernest Hemingway |
Anzi, mettiamo insieme
gli elementi che formano lo scrittore americano e troveremo: talento,
denaro, donne, voglia di sopravanzare gli altri, e alcool. Dei sei
premi Nobel americani, tre (Sinclair Lewis, Eugene O'Neill e William
Faulkner) erano alcolizzati e bevitori forsennati per gran parte
della vita. Altri due, Ernest Hemingway e John Steinbeck, grandissime
spugne.
Ma l'elenco degli amanti
dell'alcool è lungo, e sebbene debbano aver vissuto con gusto, c’è
anche il lato lugubre : Fitzgerald e Ring Lardner, alcolizzati senza
speranza, bevitori rituali, morirono l'uno a quarantaquattro e
l'altro a quarantotto anni. Hemingway diceva che «una giornata deve
finire con un drink, se no che giornata è?» e John O'Hara, anche
lui quarantottenne, quando lo portarono all'ospedale con un'ulcera
perforante trovò tempo di dire: «Ecco come mi ricompensa l'alcool,
io che gli ho voluto tanto bene».
E i suicidi famosi? Jack
London, John Berryman, Hart Crane: alcolizzati anche loro. Poe, il
solo di quella setta tra i grandi dell’Ottocento, morì bevendo la
sera delle elezioni del 1849. London ci dà un resoconto interessante
del suo alcolismo in John Barleycorn. All'inizio — scrisse —
il liquore pareva un modo di evitare le grinfie delle donne per
finire «nel gran mondo degli uomini». Un girovago, un viaggiatore
dei mari, trovava sempre casa in un bar. Ma poi, lento o rapido,
arrivava il suicidio. Quand’era marinaio, London a volte rimaneva
ubriaco per tre mesi di seguito.
Gli anni ruggenti
Il punto culminante di
tutto questo bere venne negli anni Venti, quando Fitzgerald scrisse
che la sua generazione «beve cocktail prima del pasto come gli
americani, vino e cognac come i francesi, e scotch-and-soda
come gli inglesi. Un miscuglio gigantesco, da incubo». Edmund
Wilson, in Lexicon of prohibition, del 1927, elencò con tutta
serietà oltre cento vocaboli che negli Stati Uniti esprimono
ubriachezza, e di se stesso allora disse di essere sempre stato «con
la mente e gli occhi annebbiati», e di avere avuto la testa sgombra
solo una volta, quando lesse di Sacco e Vanzetti.
Francis Scott Fitgerald |
Deliziosa confusione dei
sensi, tratta da un libro come Il grande Gatsby: «Tutto
quello che avveniva era velato, come in una nuvola... il sorriso di
lei, i suoi gesti... nel giardino uomini e donne andavano e venivano
come farfalle della notte tra sussurri, champagne e stelle...».
Nonostante la prosa squisita, lo sfondo del libro è l’alcool:
Gatsby è un contrabbandiere. L’alcolismo di Fitzgerald, che
divertiva tanto il malizioso Hemingway (capace, competitivo com'era,
di fermarsi sempre in tempo), era il bisogno di essere stravagante
per combattere il contraltare sessuo-monetario rappresentato dalla
folle Zelda, e solo uno scrittore dall'immaginazione cosi potente e
disperata come lui avrebbe potuto farcela. Ciò che pensava di sé lo
disse poi, in Tenera è la notte, quando descrisse la
debolezza dell’affascinante Dick Diver, venduto al compromesso, che
la sfanga aggiungendo sempre due dita di gin al caffè.
Come tant’altri danni
che facciamo a noi stessi in quest'epoca di pillole, il bere è un
fatto tecnologico. La gente beve per ragioni ereditarie, nutritive,
sociali. Beve perché è stanca, inquieta, annoiata, angosciata.
L'alcool non è uno stimolante: è un tranquillante. La civiltà è
tiranna: è dal suo peso che l’uomo fugge.
Ma ci sono anche periodi
in cui il bere è nell’aria, sembra quasi una necessità morale.
Negli anni Venti gli scrittori, in un’America che cambiava
rapidamente, entrarono di colpo nell’alta finanza: i Fitzgerald,
affascinanti, famosi, ricchi dall’oggi al domani, non avrebbero più
potuto accettare niente di meno di quella vita. Il loro bere cominciò
come un party senza fine. Poi Zelda uscì di carreggiata, il paese
andò in malora, Tenera è la notte non fu un best-seller, e
Scott andò a Hollywood. Lì, mentre lavorava alla sceneggiatura di
Via col vento, Selznick lo licenziò perché non scriveva
battute buffe. Fitzgerald prese a bere anche di più. Tra una sbornia
e un lavoretto di categoria B, cominciò a scrivere The last
tycoon.
Eugene O'Neill |
Da ubriaco, Fitzgerald
era più piacevole di Sinclair Lewis, che si addormentava sempre. Ma
uno degli ubriachi più impegnati della storia americana fu Eugene
O'Neill, che veniva da una famiglia di alcolizzati. Una volta, a
Princeton, bevve una bottiglia di assenzio in un dormitorio, fece a
pezzi i mobili della sua stanza, e ci vollero quattro compagni per
immobilizzarlo. La minima contrarietà, lo spingeva sul bicchiere. Un
giorno bevve acqua e vernice, un altro alcool alla canfora. Sposato
clandestinamente a Kathleen Jenkins, furioso per il figlio che gli
stava per nascere, lo scrittore si sfogò mettendo a soqquadro la
stanza d'albergo dei genitori, a New York. Poco dopo tentò di
uccidersi col Veronal.
O'Neill si vantava di non
aver «mai scritto una riga da ubriaco». In realtà non gli riuscì
mai di stare completamente lontano dall’alcool, specialmente negli
anni dal 1913 al 1933, quando divenne il più grande scrittore di
teatro d’America. E fu nei venti anni successivi, quando il morbo
di Parkinson gli impose di diventare astemio, che scrisse i suoi
maggiori lavori.
Sempre negli anni Venti,
il più audace di tutti fu Ring Lardner, che beveva mandando sempre
«al diavolo le conseguenze». Fitzgerald lo ritrasse come Abe North
in Tenera è la notte, ma il Lardner della vita reale era
molto più spiritoso del malinconico personaggio letterario. Una
volta disse a un attore: «Dì un po’, ma come sono io da sobrio?».
Pareva deciso a bere fino a morirne, e infatti fu proprio quello che
fece. Ma nel suo caso l’inquietante «perché?» è quanto mai
misterioso. Cresciuto in una solida famiglia del Middle West, amò
molto la moglie, ebbe quattro figli in gamba, e la fama di scrittore
satirico se la conquistò limitandosi a riprodurre il linguaggio
vernacolare e sgangherato che udiva nei bar, dove passava lunghe ore
davanti al bicchiere.
Lardner era un bevitore
formidabile, anche da giornalista. «Ho la reputazione, purtroppo, di
reggere alcool a damigiane». Quando lui e Fitzgerald venivano a
Great Neck (dov'era la fantastica casa di Gatsby), a volte passavano
nottate intere a bere. Lardner andava a dormire quando i figli erano
già a scuola.
William Faulkner |
Gli alcolizzati, come i
prodigi, cominciano da giovani. Faulkner, ultimo anello di una lunga
catena di bevitori, a diciott’anni se la spassava già con gli
ubriaconi del paese. A venti cercò di arruolarsi nell’aviazione
canadese, ma su un apparecchio da addestramento cominciò a dare in
escandescenze: nella carlinga si era portato una pinta di bourbon.
Poi venne il proibizionismo, ma Faulkner non si dette per vinto:
beveva di tutto, fossero pure porcherie solenni. Nei bordelli di
Memphis ci andava perché servivano un whisky passabile. Per
guadagnare qualcosa si mise a distillare alcool, e quando fu
costretto a prendere un impiego alle poste (che poi lasciò perché
«lavorare lì significava essere alla mercé di qualsiasi figlio di
puttana con in mano un francobollo da due centesimi»), si consolò
sulla bottiglia. «Non esistono whisky cattivi», diceva. «Certi
whisky sono migliori di altri».
Faulkner beveva da solo e
in compagnia, beveva perché bevevano gli uomini del «profondo sud»,
beveva per allentare la tensione del lavoro («Mi pare di avere tutti
i nervi scoperti»), come fece dopo aver finito L’urlo e la
furia. A un amico disse: «Leggi questo libro, è una puttanata»,
e per giorni e giorni fu ubriaco. Di quel passo, per una trentina
d’anni, si ammalò gravemente almeno due volte l’anno. Sono anni
contrassegnati da esaurimenti, ulcere, elettroshock, costole rotte,
cadute dalle scale e da cavallo, vertebre spaccate, sudori freddi,
tremiti, intontimenti, danni organici...
Faulkner non beveva per
«cominciare» a scrivere. Come uomo poteva essere represso, ma non
come scrittore. Ma col passare del tempo, scrivere e bere andavano
insieme. Al Greenwich Village scriveva su taccuini minuscoli, in un
bar, sorseggiando gin. «Le parole continuano a venire», disse. Come
tanti grandi narratori, produsse molto perché ricordava tutto ciò
che aveva sentito dire, visto e vissuto. L'uomo Faulkner trovava
invece la vita, spesso, insopportabile. Chi può dire perché? Ma
sebbene fosse un maestro della lingua, non c'è dubbio che il «vizio»
infiammò e sciupò la sua narrativa come fece col suo corpo.
La fine
dell'allegria
Dopo gli anni Venti,
scrittori come John Steinbeck fecero del loro meglio per continuare a
bere in abbondanza come avevano imparato a fare da giovani. Ma
mancava l’allegria. Durante la seconda guerra mondiale André Gide
seppe che Steinbeck era in Algeria come corrispondente, e fece di
tutto per conoscerlo. Ma invano.
Gide tentò di incontrarlo la sera,
poi a pranzo, infine a colazione: Steinbeck era sempre sbronzo.
Dashiell Hammett, che Lillian Hellman descrive come un gentiluomo del
sud, straordinariamente lucido, intelligente e informato, in realtà
si riduceva all’insensibilità totale a intervalli molto frequenti.
Thomas Wolfe sbalordì Fitzgerald, una notte che litigavano in
strada, perché a un certo momento, ebbro e furioso, abbatté un palo
della corrente elettrica e gettò un quartiere intero nell’oscurità.
John Steinbeck |
Malcolm Lowry sarebbe
stato anche più sbalordito, lui che fu sempre un bevitore
estremamente raffinato, il più grande della storia del mondo. Sotto
l’influenza dell’alcool scrisse Sotto il vulcano, nel '47.
E' uno dei romanzi più potenti del secolo, tanto nel linguaggio
quanto nel legame che stabilisce tra la decadenza dell'Occidente e il
rottame di vita che vive un alcolizzato degli anni Trenta. E solo un
alcolizzato di quella classe poteva concepirlo.
Come si spiega tutto
questo bere eccessivo, delirante, spesso fatale? Hemingway aveva una
teoria: diceva The giant killer (Il gigante omicida), e
avrebbe potuto aggiungere che il gigante è l’America stessa, o
piuttosto la «dea-cagna», il successo con la S maiuscola, che
William James diceva fosse il grande dio americano. Anche la storia
degli scrittori americani del diciannovesimo secolo è contrassegnata
da uno sforzo innaturale, da isolamento fisico, da alienazione da
quelli che dovrebbero essere «gli aspetti teneri e sorridenti della
vita americana».
Gli scrittori bevevano
per camuffarsi di fronte agli altri e a se stessi, per essere diversi
dalla volgare «borghesia», per essere come «1’uomo della strada»
ma anche per avere «classe». Bevevano perché inseguivano il
successo di ogni tipo: prestigio, fama, denaro. Le contraddizioni li
schiacciavano. In un modo o nell’altro il «gigante» esigeva il
sacrificio finale, la loro vita, dagli scrittori che cercavano di
uccidere, giorno dopo giorno, la «grande paura».
“la Repubblica”, 3
novembre 1979
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