12.10.15

Il pennino nel whisky. L'alcool protagonista della letteratura americana (Alfred Kazin)

Per qualche ragione gli scrittori americani che bevono forte sono molti. Certo, i beoni delle lettere hanno abbondato anche in altre nazioni: Burns, Swinburne, Lionel Johnson, Ernest Dowson, Verlaine, i due ciccioni Dylan Thomas e Evelyn Waugh. Dei russi non ne parliamo: basti citare Sergei Yesenin, marito di Isadora Duncan, che scrisse col sangue il biglietto del suicidio. Ma nell'America del ventesimo secolo l'alcool non è stato solo un problema 'cronico' ma il compagno naturale del letterato, della sua solitudine, della frenesia e delle aspirazioni artistiche, del suo essere «speciale» in una società dove ciò che conta è sempre il denaro.
Ernest Hemingway
Anzi, mettiamo insieme gli elementi che formano lo scrittore americano e troveremo: talento, denaro, donne, voglia di sopravanzare gli altri, e alcool. Dei sei premi Nobel americani, tre (Sinclair Lewis, Eugene O'Neill e William Faulkner) erano alcolizzati e bevitori forsennati per gran parte della vita. Altri due, Ernest Hemingway e John Steinbeck, grandissime spugne.
Ma l'elenco degli amanti dell'alcool è lungo, e sebbene debbano aver vissuto con gusto, c’è anche il lato lugubre : Fitzgerald e Ring Lardner, alcolizzati senza speranza, bevitori rituali, morirono l'uno a quarantaquattro e l'altro a quarantotto anni. Hemingway diceva che «una giornata deve finire con un drink, se no che giornata è?» e John O'Hara, anche lui quarantottenne, quando lo portarono all'ospedale con un'ulcera perforante trovò tempo di dire: «Ecco come mi ricompensa l'alcool, io che gli ho voluto tanto bene».
E i suicidi famosi? Jack London, John Berryman, Hart Crane: alcolizzati anche loro. Poe, il solo di quella setta tra i grandi dell’Ottocento, morì bevendo la sera delle elezioni del 1849. London ci dà un resoconto interessante del suo alcolismo in John Barleycorn. All'inizio — scrisse — il liquore pareva un modo di evitare le grinfie delle donne per finire «nel gran mondo degli uomini». Un girovago, un viaggiatore dei mari, trovava sempre casa in un bar. Ma poi, lento o rapido, arrivava il suicidio. Quand’era marinaio, London a volte rimaneva ubriaco per tre mesi di seguito.

Gli anni ruggenti
Il punto culminante di tutto questo bere venne negli anni Venti, quando Fitzgerald scrisse che la sua generazione «beve cocktail prima del pasto come gli americani, vino e cognac come i francesi, e scotch-and-soda come gli inglesi. Un miscuglio gigantesco, da incubo». Edmund Wilson, in Lexicon of prohibition, del 1927, elencò con tutta serietà oltre cento vocaboli che negli Stati Uniti esprimono ubriachezza, e di se stesso allora disse di essere sempre stato «con la mente e gli occhi annebbiati», e di avere avuto la testa sgombra solo una volta, quando lesse di Sacco e Vanzetti.
Francis Scott Fitgerald
Deliziosa confusione dei sensi, tratta da un libro come Il grande Gatsby: «Tutto quello che avveniva era velato, come in una nuvola... il sorriso di lei, i suoi gesti... nel giardino uomini e donne andavano e venivano come farfalle della notte tra sussurri, champagne e stelle...». Nonostante la prosa squisita, lo sfondo del libro è l’alcool: Gatsby è un contrabbandiere. L’alcolismo di Fitzgerald, che divertiva tanto il malizioso Hemingway (capace, competitivo com'era, di fermarsi sempre in tempo), era il bisogno di essere stravagante per combattere il contraltare sessuo-monetario rappresentato dalla folle Zelda, e solo uno scrittore dall'immaginazione cosi potente e disperata come lui avrebbe potuto farcela. Ciò che pensava di sé lo disse poi, in Tenera è la notte, quando descrisse la debolezza dell’affascinante Dick Diver, venduto al compromesso, che la sfanga aggiungendo sempre due dita di gin al caffè.
Come tant’altri danni che facciamo a noi stessi in quest'epoca di pillole, il bere è un fatto tecnologico. La gente beve per ragioni ereditarie, nutritive, sociali. Beve perché è stanca, inquieta, annoiata, angosciata. L'alcool non è uno stimolante: è un tranquillante. La civiltà è tiranna: è dal suo peso che l’uomo fugge.
Ma ci sono anche periodi in cui il bere è nell’aria, sembra quasi una necessità morale. Negli anni Venti gli scrittori, in un’America che cambiava rapidamente, entrarono di colpo nell’alta finanza: i Fitzgerald, affascinanti, famosi, ricchi dall’oggi al domani, non avrebbero più potuto accettare niente di meno di quella vita. Il loro bere cominciò come un party senza fine. Poi Zelda uscì di carreggiata, il paese andò in malora, Tenera è la notte non fu un best-seller, e Scott andò a Hollywood. Lì, mentre lavorava alla sceneggiatura di Via col vento, Selznick lo licenziò perché non scriveva battute buffe. Fitzgerald prese a bere anche di più. Tra una sbornia e un lavoretto di categoria B, cominciò a scrivere The last tycoon.
Eugene O'Neill
Da ubriaco, Fitzgerald era più piacevole di Sinclair Lewis, che si addormentava sempre. Ma uno degli ubriachi più impegnati della storia americana fu Eugene O'Neill, che veniva da una famiglia di alcolizzati. Una volta, a Princeton, bevve una bottiglia di assenzio in un dormitorio, fece a pezzi i mobili della sua stanza, e ci vollero quattro compagni per immobilizzarlo. La minima contrarietà, lo spingeva sul bicchiere. Un giorno bevve acqua e vernice, un altro alcool alla canfora. Sposato clandestinamente a Kathleen Jenkins, furioso per il figlio che gli stava per nascere, lo scrittore si sfogò mettendo a soqquadro la stanza d'albergo dei genitori, a New York. Poco dopo tentò di uccidersi col Veronal.
O'Neill si vantava di non aver «mai scritto una riga da ubriaco». In realtà non gli riuscì mai di stare completamente lontano dall’alcool, specialmente negli anni dal 1913 al 1933, quando divenne il più grande scrittore di teatro d’America. E fu nei venti anni successivi, quando il morbo di Parkinson gli impose di diventare astemio, che scrisse i suoi maggiori lavori.
Sempre negli anni Venti, il più audace di tutti fu Ring Lardner, che beveva mandando sempre «al diavolo le conseguenze». Fitzgerald lo ritrasse come Abe North in Tenera è la notte, ma il Lardner della vita reale era molto più spiritoso del malinconico personaggio letterario. Una volta disse a un attore: «Dì un po’, ma come sono io da sobrio?». Pareva deciso a bere fino a morirne, e infatti fu proprio quello che fece. Ma nel suo caso l’inquietante «perché?» è quanto mai misterioso. Cresciuto in una solida famiglia del Middle West, amò molto la moglie, ebbe quattro figli in gamba, e la fama di scrittore satirico se la conquistò limitandosi a riprodurre il linguaggio vernacolare e sgangherato che udiva nei bar, dove passava lunghe ore davanti al bicchiere.
Lardner era un bevitore formidabile, anche da giornalista. «Ho la reputazione, purtroppo, di reggere alcool a damigiane». Quando lui e Fitzgerald venivano a Great Neck (dov'era la fantastica casa di Gatsby), a volte passavano nottate intere a bere. Lardner andava a dormire quando i figli erano già a scuola.
William Faulkner
Gli alcolizzati, come i prodigi, cominciano da giovani. Faulkner, ultimo anello di una lunga catena di bevitori, a diciott’anni se la spassava già con gli ubriaconi del paese. A venti cercò di arruolarsi nell’aviazione canadese, ma su un apparecchio da addestramento cominciò a dare in escandescenze: nella carlinga si era portato una pinta di bourbon. Poi venne il proibizionismo, ma Faulkner non si dette per vinto: beveva di tutto, fossero pure porcherie solenni. Nei bordelli di Memphis ci andava perché servivano un whisky passabile. Per guadagnare qualcosa si mise a distillare alcool, e quando fu costretto a prendere un impiego alle poste (che poi lasciò perché «lavorare lì significava essere alla mercé di qualsiasi figlio di puttana con in mano un francobollo da due centesimi»), si consolò sulla bottiglia. «Non esistono whisky cattivi», diceva. «Certi whisky sono migliori di altri».
Faulkner beveva da solo e in compagnia, beveva perché bevevano gli uomini del «profondo sud», beveva per allentare la tensione del lavoro («Mi pare di avere tutti i nervi scoperti»), come fece dopo aver finito L’urlo e la furia. A un amico disse: «Leggi questo libro, è una puttanata», e per giorni e giorni fu ubriaco. Di quel passo, per una trentina d’anni, si ammalò gravemente almeno due volte l’anno. Sono anni contrassegnati da esaurimenti, ulcere, elettroshock, costole rotte, cadute dalle scale e da cavallo, vertebre spaccate, sudori freddi, tremiti, intontimenti, danni organici...
Faulkner non beveva per «cominciare» a scrivere. Come uomo poteva essere represso, ma non come scrittore. Ma col passare del tempo, scrivere e bere andavano insieme. Al Greenwich Village scriveva su taccuini minuscoli, in un bar, sorseggiando gin. «Le parole continuano a venire», disse. Come tanti grandi narratori, produsse molto perché ricordava tutto ciò che aveva sentito dire, visto e vissuto. L'uomo Faulkner trovava invece la vita, spesso, insopportabile. Chi può dire perché? Ma sebbene fosse un maestro della lingua, non c'è dubbio che il «vizio» infiammò e sciupò la sua narrativa come fece col suo corpo.

La fine dell'allegria
Dopo gli anni Venti, scrittori come John Steinbeck fecero del loro meglio per continuare a bere in abbondanza come avevano imparato a fare da giovani. Ma mancava l’allegria. Durante la seconda guerra mondiale André Gide seppe che Steinbeck era in Algeria come corrispondente, e fece di tutto per conoscerlo. Ma invano.
John Steinbeck
Gide tentò di incontrarlo la sera, poi a pranzo, infine a colazione: Steinbeck era sempre sbronzo. Dashiell Hammett, che Lillian Hellman descrive come un gentiluomo del sud, straordinariamente lucido, intelligente e informato, in realtà si riduceva all’insensibilità totale a intervalli molto frequenti. Thomas Wolfe sbalordì Fitzgerald, una notte che litigavano in strada, perché a un certo momento, ebbro e furioso, abbatté un palo della corrente elettrica e gettò un quartiere intero nell’oscurità.
Malcolm Lowry sarebbe stato anche più sbalordito, lui che fu sempre un bevitore estremamente raffinato, il più grande della storia del mondo. Sotto l’influenza dell’alcool scrisse Sotto il vulcano, nel '47. E' uno dei romanzi più potenti del secolo, tanto nel linguaggio quanto nel legame che stabilisce tra la decadenza dell'Occidente e il rottame di vita che vive un alcolizzato degli anni Trenta. E solo un alcolizzato di quella classe poteva concepirlo.
Come si spiega tutto questo bere eccessivo, delirante, spesso fatale? Hemingway aveva una teoria: diceva The giant killer (Il gigante omicida), e avrebbe potuto aggiungere che il gigante è l’America stessa, o piuttosto la «dea-cagna», il successo con la S maiuscola, che William James diceva fosse il grande dio americano. Anche la storia degli scrittori americani del diciannovesimo secolo è contrassegnata da uno sforzo innaturale, da isolamento fisico, da alienazione da quelli che dovrebbero essere «gli aspetti teneri e sorridenti della vita americana».
Gli scrittori bevevano per camuffarsi di fronte agli altri e a se stessi, per essere diversi dalla volgare «borghesia», per essere come «1’uomo della strada» ma anche per avere «classe». Bevevano perché inseguivano il successo di ogni tipo: prestigio, fama, denaro. Le contraddizioni li schiacciavano. In un modo o nell’altro il «gigante» esigeva il sacrificio finale, la loro vita, dagli scrittori che cercavano di uccidere, giorno dopo giorno, la «grande paura».


“la Repubblica”, 3 novembre 1979

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