Pochi scrittori sembrano
avere sperimentato una identificazione altrettanto totale con i
personaggi che li hanno resi universalmente noti quanto il praghese
Jaroslav Hasek, padre di quel «bravo soldato Svejk» elevato
nell'immaginario collettivo a incarnazione del fantaccino beffardo e
imboscato. Dotato di una vitalità impressionante, che gli ha
permesso di essere eletto a presunto simbolo dello spirito nazionale
ceco, nonché di troneggiare in tempi recenti dalle insegne di una
catena di ristoranti, Svejk ha finito per oscurare il suo stesso
autore (tipo peraltro quanto mai eccentrico), fagocitando nella
percezione dei lettori tutti gli altri scritti pubblicati prima della
sua apparizione.
È sul versante di questa
alterità che si posiziona il Meridiano a lui dedicato (Opere, a cura
di Annalisa Cosentino, pp. 1568, euro 65,00) che, proponendo il
capolavoro di Hasek in una traduzione integrale (cinque anni fa era
già uscita quella pregevolissima di Giuseppe Dierna nei Millenni
Einaudi) estendendo la prospettiva anche in direzione di quei testi
poetici, giornalistici, drammaturgici e narrativi in parte inediti in
italiano che rappresentano il variopinto retroterra delle Avventure
del bravo soldato Svejk nella Grande guerra. Pagine che non
rivoluzioneranno certo il giudizio critico sullo scrittore, ma che
hanno il merito di inquadrarne l'opus maius sullo sfondo di una
pervicace irrisione del mito dell'Austria Felix, e richiamando alla
mente, quanto a radicalismo, Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl
Kraus.
La catastrofe della
Grande Guerra, annunciata dalla domestica di Svejk nell'incipit
fulminante: «Insomma, hanno ammazzato il nostro Ferdinando», non
sarà infatti che il colpo di grazia per «la fatiscente monarchia
asburgica» alla quale - in modo più o meno esplicito - Hasek
rivolgeva i suoi strali almeno già dal 1910. Tanto da fondare, nella
primavera del 1911, un immaginario «Partito del progresso moderato
nei limiti della legge», per parodiare nei suoi «comizi» di
sedicente candidato al parlamento di Vienna la retorica dei
politicanti della Kakania. Già in queste improvvisazioni satiriche,
in genere concepite in questa o quella birreria di fronte agli
occasionali compagni di bevute, in una sorta di cabaret dada ante
litteram, emerge la predilezione di Hasek per la dimensione orale,
così come il culto della ciarla, della fanfaronata, dell'aneddoto
inverosimile che da lì a qualche decennio saranno elevati a vero e
proprio genere letterario da Bohumil Hrabal.
Ma anche in precedenza,
nei cosiddetti «bozzetti galiziani» e nei reportage di viaggio
pubblicati a diciott'anni sul principale quotidiano ceco, «Narodny
listy», affiorava la tendenza di Hasek all'affabulazione, nonché
quel tono singolarmente ambiguo che caratterizzerà tutte le sue
opere, sospese tra situazioni di un realismo quasi desolante e la
loro immancabile deformazione grottesca. Basti leggere L'assassino di
fronte al tribunale, dove la requisitoria di un pubblico ministero
viene inframmezzata in una sorta di flusso di coscienza a quelle che
sono le reali preoccupazioni dell'oratore in quel momento, ossia lo
spezzatino scadente appena divorato. Oppure La ribellione del
detenuto Sejba, in cui la messa celebrata all'interno di un carcere
si trasforma in una spassosa prova di nervi tra il chierichetto
intenzionato a dimostrare tutto il suo zelo per ricevere una razione
in più e il direttore della prigione, che vorrebbe farla finita il
prima possibile per andarsene all'osteria.
D'altronde, la capacità
virtuosistica di alternare registri stilistici, nonché di indugiare
con evidente soddisfazione sulla soglia tra verosimiglianza e
parodia, non metterà al riparo Hasek dai tagli della censura
imperial-regia, allorché le sue frecciate contro lo Stato, la Chiesa
cattolica e l'esercito si faranno troppo evidenti. Incarcerato più
volte per la sua vicinanza agli ambienti anarchici, nonché per aver
turbato l'ordine pubblico da sobrio e da ubriaco, Hasek sarà
richiamato come riservista nel gennaio 1915 e, dopo essersi fatto
espellere dalla scuola ufficiali a Ceske Budejovice, finirà
prigioniero dei russi nel settembre di quello stesso anno, non prima
di essersi consegnato volontariamente al nemico, secondo una prassi
non infrequente nelle file dell'esercito asburgico.
Tutte vicende che, seppur
trasfigurate, ritroviamo puntualmente nelle Avventure del bravo
soldato Svejk, la cui stesura fu interrotta dalla morte dell'autore
nel 1923 proprio nel punto in cui Svejk si apprestava a cadere
ignominiosamente in mano al nemico.
Non si sa se, qualora
avesse avuto la possibilità di continuare, Hasek avrebbe reso il suo
eroe partecipe anche degli episodi più picareschi della sua
biografia personale, quelli che all'indomani della rivoluzione
d'Ottobre lo vedranno schierarsi a favore dei bolscevichi e diventare
addirittura aiutante del comandante del soviet militare della
sperduta città tatara di Bogul'ma. Di certo, è difficile
immaginarsi Svejk in veste di redattore di riviste filo-bolsceviche o
responsabile della propaganda - mansioni queste che il suo creatore
svolgerà prima a Kiev, poi a Ufa e Irkutsk durante la guerra civile.
Tuttavia, la notevole
dose di autobiografismo che permea il capolavoro di Hasek non deve
far dimenticare che il personaggio di Svejk ha una genesi complessa
che risale al periodo prebellico e finanche al 1907, quando lo
scrittore, celandosi dietro il nome della sua fidanzata, aveva già
pubblicato un racconto (qui tradotto per la prima volta in italiano)
centrato sulla figura di un improbabile «bravo soldato svedese»
persuaso del fatto che «la più grande delizia dev'essere morire per
il proprio sovrano».
Il volume permette di
confrontare le varie ipostasi assunte da Svejk nel tempo, dai cinque
racconti del ciclo datato 1911 in cui compare già con il suo nome
(Il bravo soldato Svejk. Gli interessanti casi di un milite onesto)
al romanzo-pamphlet del 1917 titolato Il bravo soldato prigioniero,
dove spuntano vari elementi autobiografici e la descrizione del cupio
dissolvi che si è impadronito dell'impero asburgico («L'Austria non
desiderava altro che diventare inutile») si fa sempre più
sferzante.
D'altro canto la
proliferazione degli Svejk - ossia la generazione di innumerevoli
cloni accomunati da quella «idiozia congenita» che consente loro di
mettere a nudo l'assurdità nascosta dietro la retorica patriottarda
- non si arresterà neppure dopo la prematura scomparsa di Hasek.
Quasi a smentire l'interpretazione «nazionale» che vuole Svejk
espressione di un panciafichismo tipicamente ceco, l'anti-soldato di
Hasek sarà riletto in chiave pacifista e universale nel 1928 da
Erwin Piscator e Bertold Brecht, che lo porteranno in scena a Berlino
«mobilitando» nel vero senso della parola le marionette disegnate
da Georg Grosz grazie a un tapis roulant.
Ma l'avventura più
angosciante vissuta dal «buon soldato» è certamente quella che gli
riserverà lo stesso Brecht, quando nel 1943 lo resusciterà nella
pièce teatrale Svejk nella seconda guerra mondiale, portandolo fino
a Stalingrado camuffato da nazista.
Invariabilmente
spiazzante e inafferrabile nel suo candore, Svejk resta ancor oggi
dopo più di cent'anni un «classico» della resistenza passiva al
male, forse l'incarnazione più riuscita di quel dissenso mimetico
che finge di avallare la logica aberrante del potere per meglio
demistificarlo. Un aspetto che è stato colto con acutezza da Milan
Kundera: «Svejk aderisce così poco agli scopi della guerra che non
li contesta neppure. La guerra è spaventosa ma lui non la prende sul
serio. Non si prende sul serio ciò che non ha senso».
“il manifesto”, primo
marzo 2015
Nessun commento:
Posta un commento