Rosalba Cannavò, una delle primissime militanti dei Siciliani
giovani, scrisse la prima delle molte tesi di laurea dedicate a
Giuseppe Fava. Una piccola e combattiva casa editrice siciliana, la
Cuecm di Salvo Torre, ne ricavò un libro, di cui questa era
l’introduzione. (S.L.L.)
Giuseppe Fava detto Pippo |
Chi scrive ha avuto con Fava un rapporto singolare. Un rapporto prima
lontano, inconsapevole, nato alla fine degli anni Sessanta attraverso
la lettura di Processo alla Sicilia, appassionato reportage dalle
zone del sottosviluppo. Un rapporto divenuto più consapevole poco
più di una dozzina di anni dopo con la lettura de “I Siciliani”,
il mensile messo su da lui, di nuovo in condizioni di estrema
difficoltà, nella Catania assurta a nuova capitale di mafia. E
diventato infine ravvicinatissimo attraverso il contatto con la
redazione dello stesso mensile dopo la sua morte.
Ed è stato proprio in questa terza fase che la curiosità per la
figura dell’uomo, il fascino delle sue scelte di vita,
l’intelligenza dell’analisi condotta sulle vicende della sua
città e della sua isola, hanno stimolato una rilettura più attenta,
distesa, meditata delle sue opere e dei suoi scritti giornalistici.
L’impressione, o meglio la convinzione che ne ho ricavato è stata
quella di trovarmi di fronte a uno dei maggiori intellettuali
siciliani di questo secolo.
Non c’è - sia chiaro – in questa affermazione il peso che
potrebbe esercitare il cosiddetto giudizio di valore, necessariamente
positivo di fronte a un uomo che per coraggio e per amore della sua
terra è andato incontro alla morte. Si tratta di una valutazione
obiettiva. Credo davvero che, sia pure con le migliori intenzioni, si
faccia un torto a Giuseppe Fava classificandolo tra i “giornalisti
uccisi dalla mafia”. Con Fava è stato ucciso un intellettuale, uno
specifico modo di intendere la funzione dell’intellettuale nella
Sicilia degli anni Ottanta. Dietro il suo assassinio non c’è
d’altronde la paura dello scoop compromettente, non c’è la
notizia-polveriera che deve rimanere in un cassetto.
Sta una produzione multiforme, un complesso integrato di parole, di
sentimenti, di capacità, di analisi, di abitudini, che certo si
trasfondono pienamente nella sua attività giornalistica e le fanno
qualcosa di particolare; ma che sono prima di tutto opposizione
intellettuale.
Si tratta di una figura anomala, per usare un aggettivo che è stato
fatto incombere negli ultimi anni sulle vicende siciliane.
Una figura poliedrica, che ha accoppiato in sé la straordinaria
forza della denuncia civile con una prosa tagliente, capace di
squarci improvvisi e di particolari insistiti, degustati con voluttà
al momento stesso che si accinge a tornare ai colori forti. Una
figura che ha immesso nel panorama della cultura siciliana dei suoi
anni la ribellione: ribellione alla rassegnazione, al lamento dello
sconfitto, alla nostalgia dell’emigrato, ribellione all’idea che
non vi sia altra forza a muovere la storia se non l’avidità
dell’uomo. E forse perciò per questo bisogno di costruire vita
anziché ricamarne, il suo stile è così lontano dall’ ovattata
ironia, dal prezioso intarsio, dal ritmo raffinato dei suoi
contemporanei.
La sua bellissima polemica con Sciascia su “I Siciliani” del
maggio 1983 è, vista oggi, uno dei documenti più nitidi del
conflitto tra due modi di essere intellettuali, tra due culture e due
Sicilie: la Sicilia che vuole trovare anzitutto in se stessa la forza
e la fierezza di reagire e la Sicilia scettica che ama il dubbio fino
a trasformarlo in fede.
Ma non è solo su questo piano che Fava porta tutta la carica
innovativa del proprio atteggiamento intellettuale. C’è pure la
sua capacità di trasformarsi in organizzatore di azione e di
pensiero. Che è un corollario della sua caldissima fiducia nella
vita (una fiducia che è pur percorsa da qualche vena di pessimismo):
poiché è qui che nasce la sua disponibilità a dare agli altri, la
persuasione che insieme si possa costruire.
Anche per questo si dice troppo poco quando si parla di Fava solo
come del “giornalista ucciso dalla mafia”.
Quel giornalista, in realtà, creò altri giornalisti, diede vita ad
un collettivo, fondò una testata tirandola fuori con tenacia dal
mondo dell’immaginazione. Fu un maestro. Un maestro che ha
insegnato a battersi, coll’arma della parola, a un gruppo di
giovani.
Ecco
perché scoprirlo, apprezzarne il percorso, diventa soprattutto un
compito di chi si è trovato nella stessa temperie civile e ha
compreso fino in fondo il valore della sua rottura, delle sue
intuizioni o dimensioni analitiche, del rapporto stabilito tra
informazione e cultura. Ed ecco perché è importante questo libro,
che rielabora la tesi di laurea dell’Autrice, già studentessa
dell’università di Catania.
Perché proviene da una giovane, da un’esponente di quella
generazione di siciliani che nella rottura culturale operata da Fava
si è identificata, e attraverso quella rottura ha imparato a
guardare il mondo. In fondo, dopo quel 5 gennaio del 1984, proprio
gli studenti furono la linfa di un movimento di opinione che si
trasmise, per canali disparati, a tutto il paese. Un movimento di
solidarietà con una rivista e con una volontà di giustizia. Non si
tratta dell’unica tesi di laurea dedicata a Giuseppe Fava. E anche
questo è un segno che incoraggia.
Nelle scuole, nelle università di tutta Italia, sempre più
frequentemente mi capita di sentirmi chiedere di parlare di questo
intellettuale anomalo. Vuoi dire che, nonostante i media, le idee
circolano; quelle, voglio dire, che non sono ammesse al grande
circuito telematica.
Il ritratto di Fava fornito da Rosalba Cannavò può essere, con le
informazioni i riferimenti e le testimonianze che contiene o a cui
rimanda, un mezzo per capire e sapere di più, un primo strumento
informativo in attesa e nella speranza che altri ancora ne vengano
apprestati. Da studenti siciliani. E magari da nuovi intellettuali.
Dalla prefazione a Giuseppe Fava, storia di un uomo libero di
Rosalba Cannavò, Cuecm 1990
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