Renata
Pisu, sinologa, giornalista, scrittrice, donna di grande cultura e,
insieme, di grande semplicità e umana simpatia, dopo gli studi nella
Cina Popolare degli anni 50, cominciò la sua lunga e intensa
carriera giornalistica scrivendo a puntate, per il settimanale “ABC”
diretto da Gaetano Baldacci, una storia della Rivoluzione cinese ed
ha sempre amato, di tanto in tanto, “tornare alle storie”. Questa
sua rievocazione della rivolta dei boxer mi pare assai vivida ed
efficace. (S.L.L.)
Nell'afosa estate di
Pechino, esattamente cento anni fa, si consumò la tragedia del lungo
assedio al quartiere delle legazioni straniere e del massacro
indiscriminato di civili cinesi compiuto dalle forze del contingente
internazionale arrivate per "difendere la civiltà" dalla
furia dei Boxer. Non erano "caschi blu" i russi, gli
italiani, i francesi, gli inglesi, gli americani i giapponesi e i
tedeschi che si impegnarono in Cina in una missione militare comune
(Peace-enforcing, si direbbe oggi), in un certo senso
antesignana degli interventi umanitari, con armi più o meno
"intelligenti", che hanno contrassegnato l'ultimo decennio
del XX secolo, un secolo che ha ricevuto l'estrema unzione con
l'intervento in Kossovo ed il battesimo con la Guerra dei Boxer. O
forse sarebbe meglio dire con la guerra contro la Cina, un immenso
paese in sfacelo, una torta da sbocconcellare, un corpo malato da
smembrare. Allora non esisteva l'Organizzazione delle Nazioni Unite
ma le potenze più industrializzate, Giappone compreso (le stesse di
oggi), concertarono comunque un intervento armato contro un paese
sovrano qual era l'Impero cinese, per difendere i propri
connazionali, i propri interessi e i cinesi convertiti al
cristianesimo, dalla furia xenofoba degli accoliti di una società
segreta, quella dei Pugni Giusti e Armoniosi, i quali praticavano la
boxe magica (per questo sono passati alla storia come i Boxer, i
pugilatori) e si illudevano che bastasse scacciare gli stranieri,
divellere le rotaie dei loro "carri di fuoco" (in cinese si
chiama così il treno), per sanare il Celeste Impero da tutti i suoi
mali.
Raccolti in bande di
disperati - erano per lo più braccianti, battellieri, facchini,
vagabondi, artigiani e piccoli bottegai in rovina, venditori
ambulanti, maestri con i loro scolari, monaci taoisti, tutti
giovanissimi - imperversavano già da qualche anno nella Cina
settentrionale prima che le notizie della loro folle violenza
arrivassero sulle prime pagine dei giornali occidentali. Così li
descrive in una sua "memoria" al Trono un prefetto che il
22 maggio del 1900 andò a visitare un loro accampamento entro la
cinta di un tempio: "Vidi che erano tutti ragazzi di tredici o
quattordici anni, il più piccolo non aveva superato gli otto. Dopo
aver salutato le divinità ed essersi rispettosamente piazzati ai due
lati dell'altare, i giovinetti assunsero improvvisamente un aspetto
morboso, la faccia rossa, lo sguardo fisso; dalle loro bocche usciva
una schiuma bianca; si misero a gridare e a ridere e si dettero calci
e pugni, anche quelli più piccoli saltavano a un'altezza di parecchi
piedi. Avanzavano e indietreggiavano, si alzavano e si coricavano, si
giravano in avanti o all'indietro come se fossero diretti da un solo
uomo. Un vecchio mi disse che erano gli dei che entravano nei corpi
dei ragazzi e che questa era chiamata la boxe divina. Dopo diciotto
giorni di esercizio arrivavano alla perfezione, cioè diventavano
invulnerabili alle pallottole dei diavoli stranieri".
Nei proclami dei Boxer si
leggeva: "La Chiesa cattolica e gli occidentali insieme
complottano per distruggere la Cina. Hanno dilapidato il denaro del
nostro paese, demolito i nostri templi, distrutto le effigi dei
Budda, usurpato le terre dove il popolo ha le sue tombe. Milioni di
persone li odiano". Ma i Boxer odiavano anche la dinastia
regnante, la Qing. Si riallacciavano infatti, come sostengono gli
storici cinesi contemporanei, alla tradizione delle società segrete
che, nella storia costante dell'assolutismo cinese, hanno sempre
costituito l'unica forma di opposizione al Potere: i loro accoliti,
imbevuti di insegnamenti esoterici e di superstizioni, sono sempre
stati (e potrebbero esserlo ancora oggi, come sembra temere Pechino
che l'anno scorso ha messo fuori legge e perseguita la setta Fa Lun
Gong) come un fuoco che cova sotto la cenere e che può divampare da
un momento all'altro, come una tigre che si risveglia e che qualcuno
può essere tentato di cavalcare. Allora fu l'Imperatrice Vedova Ci
Xi, “il Vecchio Budda”, a cavalcare la furia dei Boxer il cui
obiettivo di lotta, agli inizi, era: "Sterminare gli stranieri,
rovesciare i Qing". Ma poi, manovrati dalla Corte, si diressero
unicamente contro i "diavoli stranieri" e dilagarono, nei
primi cinque mesi del 1900, nelle campagne e nei villaggi intorno a
Tientsin e a Pechino che occuparono il 14 giugno, massacrando i
cinesi convertiti, dando alle fiamme tutte le proprietà degli
occidentali, colpendo a morte, per strada, il 20 giugno, il Ministro
tedesco Von Ketteler. Il giorno dopo l'Imperatrice Vedova dichiarava
guerra all' Occidente intero - una mossa avventata che sarebbe
costata cara alla Cina, non a lei personalmente che gli occidentali
vollero mantenere al potere - e i Boxer posero sotto assedio il
quartiere delle undici Legazioni straniere rappresentate nella
capitale. Lì rimasero intrappolati fino al 14 di agosto, 475 civili
stranieri, 450 militari di otto nazioni, duemila cinesi cristiani e
circa 150 cavalli da corsa che fornirono carne fresca alla piccola
comunità che aveva organizzato la difesa costituendo diverse unità
di combattimento divise per nazionalità, con i comitati di emergenza
formati in gran parte da missionari. Sotto assedio e con ancora
maggiore penuria di viveri e di munizioni, rimase per due lunghi mesi
anche la cattedrale di Bei Tang, dove erano barricati tremila cinesi
cattolici, comprese 850 scolare, difesi da 43 marinai, 31 francesi e
12 italiani, la metà dei quali morirono uccisi dai Boxer.
Ma i Boxer morirono
invece a migliaia perché non erano affatto "invulnerabili",
come si ostinavano a credere lanciandosi all' assalto senza nessuna
copertura. Se l'assedio fu una tragedia (morirono 76 combattenti
stranieri, 6 bambini occidentali e qualche centinaio di convertiti
cinesi), la vera carneficina si ebbe nelle campagne e nei villaggi
dove i Boxer trucidarono più di 200 missionari cattolici e
protestanti e più di 30 mila cristiani cinesi. Quando, il 13 agosto
del 1900, le truppe internazionali entrarono a Pechino, un
giovanissimo giornalista italiano, Luigi Barzini, inviato del
Corriere della Sera, scrisse che ""la bandiera della nostra
civiltà avrebbe dovuto essere ammainata a lutto". Il Kaiser
aveva detto ai soldati tedeschi prima che si imbarcassero: "Siano
completamente alla vostra mercé tutti coloro che cadono nelle vostre
mani. Non prendete prigionieri, uccidete. Fate che il nome della
Germania diventi famoso in Cina come quello di Attila che alla testa
degli Unni conquistò gloria nella storia. Che nessun cinese osi più
guardare negli occhi un tedesco!". Non solo i tedeschi ma anche
i soldati di tutti gli altri paesi "civili" si comportarono
secondo i consigli del Kaiser: Pechino fu ridotta a un cumulo di
macerie, il Palazzo Imperiale fu saccheggiato, i volumi della
Biblioteca Imperiale servirono ad alimentare i fuochi dei bivacchi,
ai margini delle strade si ammassavano i cadaveri dei cinesi uccisi
per "esercitazione".
Un testimone della
carneficina, l'inglese Putnam Weale, scriveva: "Uno strano
giovanotto di una delle legazioni occidentali si offriva sempre di
fare la parte del boia. Era eccitatissimo e mi fece un discorso che
non dimenticherò mai. Avete visto i pozzi vicino alla Porta
Orientale dove si sono buttate tutte quelle donne cinesi per paura
dei nostri soldati? Quando riescono a prenderne una e a violentarla,
mi invitano sempre ad assistere. Che ridere!". Gli storici
cinesi marx-maoisti, sia pure a mezza voce, hanno sostenuto che
l'insurrezione dei Boxer è stato "il primo grande movimento
contro il colonialismo moderno la cui forza ha costretto le potenze
occidentali a rinunciare al progetto di spartizione della Cina".
Qualunque sia il verdetto finale - che non vi sarà perché potrebbe
essere soltanto di matrice ideologica - resta la cronaca dei massacri
perpetrati.
“la Repubblica”,10
agosto 2000
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