Nella casa milanese di
Alberto Cavallari, firma di punta e direttore del «Corriere della
Sera» in anni difficili, tra un disegno di George Grosz con i suoi
avidi borghesoni dalla nuca grassa e un ritratto scarnificato dal
segno fitto di Alberto Giacometti, c’è un quadro a olio di Dino
Buzzati. Raffigura la fuga notturna di un soldat à cheval —
che era poi lo stesso Cavallari, cui la tela è dedicata — rincorso
da un branco di lupi e da un’enorme e livida luna, minacciosamente
sospesa sul deserto intorno.
È un’immagine che
pochi conoscono e che incuriosisce perché conferma come gli spazi
desolati, spopolati e aridi fossero, al pari delle montagne (basta
pensare al Duomo di Milano, dipinto come fosse un monumento
dolomitico), quasi un’ossessione per Buzzati. Sia quando scriveva
sia quando dipingeva.
Del resto, le steppe e i
paesaggi arcaici hanno ispirato molti autori: da Borges, che vi
collocava l’idea del labirinto, a Zanzotto, il quale paragonava i
suoi ultimi versi alla flebile voce dei fiumi asiatici che evaporano
di colpo nelle pianure sabbiose del Gobi. Insomma: in quanto luoghi
metafisici e onirici, i deserti sono stati lo sfondo perfetto per
certe storie buzzatiane, cariche di magia, angoscia, solitudine,
mistero. A partire dal suo Deserto dei tartari, romanzo fra i
più riconoscibili e amati della letteratura europea novecentesca.
Buzzati diceva spesso che
i suoi testi avevano ottenuto il riconoscimento di pubblico e critica
«solo a scoppio ritardato, cioè dopo quindici o vent’anni». Una
recriminazione che non faceva mirando alla gloria («è polvere e
sabbia», ripeteva, mutuando il portoghese Fernando Pessoa, secondo
il quale «ogni uomo che meriti d’essere celebre sa che non ne vale
la pena»), ma nella convinzione di aver prodotto qualcosa di «bello
dal punto di vista poetico». Questo era, sempre con il
condizionamento di infiniti dubbi e timidezze, il suo primo
obiettivo, confessato con casta ingenuità a un’insegnante che lo
intervistò nel 1969 per i propri alunni. Che lo abbia raggiunto è
provato dal suo ingresso tra i classici, senza che mai cadesse
l’oblio su di lui.
Frustrazione per la vuota
routine quotidiana, senso di allarme davanti a una natura che a volte
si presenta con aspetti oscuri e maligni, attesa della grande
occasione che non arriva, ansia di battersi quando sembra incombere
una minaccia: ecco i temi che lo scrittore si impose fin dal suo
libro più importante, il Deserto, appunto. Temi che
alimentarono, più o meno esplicitamente o sottotraccia, altri suoi
lavori, in parte perfino i più eccentrici. Così, non a caso il
tenente Drogo che consuma inutilmente gli anni nella sperduta
fortezza Bastiani, invecchiando diventerà (con una semplice
dilatazione di vocali) l’architetto di mezz’età Dorigo, elegante
e malinconico, impaurito dalla morte e accecato da un sentimento
totale, protagonista dello scandaloso Un amore.
Si sa che Buzzati
indicava la genesi del suo romanzo più noto, e divenuto termine di
confronto, nella vita quotidiana del «Corriere della Sera», dov’era
entrato a 22 anni e al quale rimase fedele fino a quando la malattia
lo vinse. «Mi sai dire un luogo qualsiasi del mondo che, più di un
giornale, possa esser considerato lo specchio fedele della fuga del
tempo?», spiegò a Giulio Nascimbeni, responsabile della Terza
Pagina e amico, per allontanare il dubbio che la sua invenzione
narrativa fosse un frutto, magari involontario, dell’albero di
Kafka.
È dunque nelle stanze di
via Solferino che vanno cercate le chiavi per capirlo, pensando alla
prodigiosa congiunzione tra la sua vasta opera plurale. Di scrittore,
pittore e giornalista in cui tutto si tiene, sulla base del
comandamento di «non inventare». Lo ripeteva con l’aria di
confidare una disciplina interiore, affinata in particolare sui
tavoli della redazione o sul bancone della tipografia. «L’optimum
del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura e quindi
non esiste differenza tra giornalismo e letteratura», diceva,
riferendosi sia alla qualità del linguaggio sia al complicato
rapporto tra la realtà della cronaca e le spinte simboliche che gli
venivano dalla fantasia. Rapporto che Il Deserto dei tartari,
maturato nelle notti al «Corriere», tiene in un equilibrio
prodigioso.
Corriere della sera, 1
ottobre 2017
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