«Che sant’uomo, ma che
tormento!». Fu la sua amica Grazia Cherchi a trasferire su Franco
Fortini la frase che don Abbondio rivolse al Cardinale. Un sant’uomo
fin troppo inquieto. Fortini diede ragione all’amica, al punto che
ricordando la sua presenza nel comitato della rivista «Officina»,
formato da Pasolini, Roversi, Leonetti, Scalia, Romanò e altri,
ammise con (insolita) autoironia: «Quanto a me, ero un seminatore di
scandali e di scismi, su questo non c’è dubbio; e credo veramente
che la pazienza di quegli amici io la portassi al limite». È così,
naturalmente, Fortini ha portato al limite la pazienza della cultura
italiana, perché non era mai contento di nulla, tantomeno del
presente che viveva. Come ha scritto Giovanni Raboni, fino all’ultimo
giorno della sua vita Fortini si è rifiutato di smettere di sognare,
ovvero di seguire il consiglio pressante che ci viene dal nostro
tempo: finirla, una buona volta, di sognare. Consiglio, peraltro, su
cui gran parte della cultura (non solo politica e non solo italiana)
si è ampiamente allineata molto più di quanto lo stesso Fortini
potesse temere o immaginare.
Per questo il poeta
(grandissimo), critico, saggista è oggi più che mai fortemente
«inattuale», parlava del presente «in nome del futuro» (sempre
Raboni): con l’atteggiamento mentale dell’educatore che ha e
vuole trasmettere l’ossessione di distinguere (il bene dal male).
Comunque sempre scomodo, eretico, non ortodosso come marxista, non
istituzionale come letterato, anticonfessionale come intellettuale
sensibile al pensiero religioso. Già in vita Fortini è stato
descritto non solo dai suoi numerosi avversari come una specie di
Savonarola, un predicatore perennemente con il dito puntato. Pasolini
lo accusò di essere «malfidato» nell’accezione romanesca, non
nel senso di malfido ma di malfidente. «È piuttosto vero», disse
Fortini, che era orgoglioso della «fredda ira» (Berardinelli dixit)
che traspariva persino dalla sua poesia: fermo restando che tra
poesia e ideologia o critica della società e del mondo per lui non
c’era alcuna soluzione di continuità. «La mia grinta mortuaria,
di ghiaccio-represso», per usare parole sue, si indirizzava ovunque
sentisse profumo di conformismo, di opportunismo da chierici, di
specialismo asettico da «logotecnocrati» (per usare il sarcasmo del
suo amico Cesare Cases).
Polemizzò con tutti,
Fortini, anche e soprattutto con gli amici. E anche questo
massimalismo infaticabilmente dialettico lo rende prezioso in un
tempo in cui la polemica non c’è o si riduce a insulto sterile:
basta leggere la sua Verifica dei poteri, un libro del 1965
riproposto adesso dal Saggiatore con prefazione di Alberto Rollo.
Dove si parla di padri e di figli (tensione tra passato e futuro,
appunto): anche di padri ingombranti, come osserva Rollo, a
cominciare da Lukács, per continuare con Auerbach, Spitzer,
Goldmann… Leggendo Pasternak, Proust, Kafka, Mann, Brecht, Fortini
«verifica» la distanza dalla grandezza e cioè dalla verità, che è
il (sottinteso) obiettivo utopico verso cui non si stanca di tendere
chi vorrebbe, come lui, trasformare radicalmente il mondo. In
definitiva verificare è il suo atteggiamento costante, qualcosa che
somiglia a un «mandato» sociale sia quando è poeta sia quando è
filologo sia quando è moralista, ed è per questo che non c’è
separazione neppure tra il critico letterario e il saggista
etico-politico che comunque instaurano un rapporto necessariamente
conflittuale con la propria materia e con la propria contemporaneità.
Come fa presente Pier
Vincenzo Mengaldo (il massimo lettore di Fortini), «certamente sua
non è quell’arte della mediazione che era somma in Lukács»,
essendo, al pari di Pasolini, «uomo dell’impazienza e non della
tessitura, del fulmine e non del fuoco lento». Amici e nemici,
Fortini e Pasolini, simili e opposti. Romano Luperini definisce
benissimo i due caratteri: «L’uno è poeta di un’inibizione,
l’altro di un’esibizione. Fortini tende al distanziamento
razionale e quasi classico (…); Pasolini alla visceralità. Il
primo ha in orrore ogni eccesso vitalistico, odia l’intemperanza e
la mancanza d’equilibrio sia nel comportamento sia nelle scelte
linguistiche, e ha sempre rifiutato lo sperimentalismo; il secondo
trovò in una disperata vitalità l’unica ragione della sua
esistenza…».
Da queste prospettive
divergenti nascerà nel novembre 1956 il celebre (e rude) confronto
in versi, ospitato da «Officina», sul rapporto intellettuale-realtà
tra il militante socialista ma intimamente comunista (Fortini) e il
«compagno di strada in crisi e scomodo» (Pasolini), lontano da ogni
schieramento diretto. L’incontro tra Fortini e la «nuova sinistra»
dei «Quaderni piacentini» allargherà la distanza, tant’è vero
che in Verifica dei poteri, la «disarmata sincerità» di
Pasolini, definita «inutile coazione a ripetere», viene collocata
tra i tanti bei gridi «così sterili, rauchi — e confusi» contro
la meschina infamia dell’Italia. La rottura diventa quasi
insanabile con le barricate del Sessantotto, quando i due ex sodali
si ritroveranno su sponde avverse. Ma quella lunga burrasca
intellettuale verrà poi rivissuta, a bocce ferme, nel 1993 in un
libro, Attraverso Pasolini, in cui Fortini fa i conti con se
stesso: «Aveva torto e io non avevo ragione». L’assassinio di
Pasolini, secondo l’amico, conferì valore profetico agli stessi
scritti corsari la cui visceralità ingenua (o finto ingenua) non gli
era mai piaciuta.
Avrebbe potuto avvicinare
Fortini a Pasolini la nuova temperie del Gruppo 63, che li vedeva
ugualmente ostili, ma non avvenne, benché Pier Paolo, proprio in
quella fase, provò a coinvolgere Franco nella rivista che dirigeva
con Moravia e con la Morante, «Nuovi Argomenti». Le ragioni del
rifiuto erano inequivocabilmente politiche: Pasolini a Roma, con i
suoi film, da Accattone al Vangelo secondo Matteo,
appariva come il protagonista di un centro di potere, una figura
precipitata nel discredito dei giovani intellettuali che circondavano
Fortini (Panzieri, Solmi, Bellocchio, Cherchi, Fofi…). Il quale nel
frattempo aveva aperto un conto con la neoavanguardia di Sanguineti
che, sempre in Verifica dei poteri, viene individuato come il
fautore dell’avanguardia come «arte da museo e da atelier di
moda», il teorico dell’«altra faccia della chiacchiera di massa»,
ovvero della neoavanguardia come saldatura tra letteratura e ordine
borghese-capitalistico. Né in questo caso, diversamente dal rapporto
con Pasolini, Fortini ha avuto ripensamenti, se è vero che in un
ritratto degli anni Novanta appare ancora più duro, parlando di
«fastidioso culturalismo poliglotta» e, peggio ancora, della
«posizione politica di parlamentare, per così dire,
“normalizzato”», in cui Sanguineti «sembra trovare un
contenitore per i frantumi psichici del suo passato»: «Una ironia
depressiva fra crepuscolarismo, comunismo e liberty».
Per la verità, non è
che dal suo nemico gli siano mai mancate durissime repliche pan per
focaccia. Analogo trattamento fortiniano nei confronti delle
sperimentazioni di Giorgio Manganelli, colpevole, con il suo «spreco
e fasto lessicale», di immergere il lettore nei «piaceri della
pubblicità televisiva». E così non meravigliano le riserve,
contraddittorie, nei confronti del padre ideale della neoavanguardia,
Gadda, verso il quale Fortini dichiara senza mezze misure: «Mi è
sempre stato antipatico», «certe laceranti delusioni non mi
commuovono affatto». Ma su un altro versante, si ricorderanno la
netta repulsione per La storia di Elsa Morante o le ironie
acide a proposito del successo ottenuto dalle Lezioni americane
dell’amico Calvino: «Un decennio di “pensiero debole” e di
relativismo da morale laica hanno disposto moltissimi ad accogliere
queste pagine».
Sono discussioni e prese
di posizione lontanissime, ben più remote di quanto la cronologia
esterna farebbe credere. Talmente anacronistiche da risultare sempre
indispensabili. In fondo oggi verificare sarebbe più urgente che
mai.
Corriere della sera, 7
settembre 2017
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