30.10.17

Anniversari. Franco Fortini, in nome del futuro (Paolo Di Stefano)

«Che sant’uomo, ma che tormento!». Fu la sua amica Grazia Cherchi a trasferire su Franco Fortini la frase che don Abbondio rivolse al Cardinale. Un sant’uomo fin troppo inquieto. Fortini diede ragione all’amica, al punto che ricordando la sua presenza nel comitato della rivista «Officina», formato da Pasolini, Roversi, Leonetti, Scalia, Romanò e altri, ammise con (insolita) autoironia: «Quanto a me, ero un seminatore di scandali e di scismi, su questo non c’è dubbio; e credo veramente che la pazienza di quegli amici io la portassi al limite». È così, naturalmente, Fortini ha portato al limite la pazienza della cultura italiana, perché non era mai contento di nulla, tantomeno del presente che viveva. Come ha scritto Giovanni Raboni, fino all’ultimo giorno della sua vita Fortini si è rifiutato di smettere di sognare, ovvero di seguire il consiglio pressante che ci viene dal nostro tempo: finirla, una buona volta, di sognare. Consiglio, peraltro, su cui gran parte della cultura (non solo politica e non solo italiana) si è ampiamente allineata molto più di quanto lo stesso Fortini potesse temere o immaginare.
Per questo il poeta (grandissimo), critico, saggista è oggi più che mai fortemente «inattuale», parlava del presente «in nome del futuro» (sempre Raboni): con l’atteggiamento mentale dell’educatore che ha e vuole trasmettere l’ossessione di distinguere (il bene dal male). Comunque sempre scomodo, eretico, non ortodosso come marxista, non istituzionale come letterato, anticonfessionale come intellettuale sensibile al pensiero religioso. Già in vita Fortini è stato descritto non solo dai suoi numerosi avversari come una specie di Savonarola, un predicatore perennemente con il dito puntato. Pasolini lo accusò di essere «malfidato» nell’accezione romanesca, non nel senso di malfido ma di malfidente. «È piuttosto vero», disse Fortini, che era orgoglioso della «fredda ira» (Berardinelli dixit) che traspariva persino dalla sua poesia: fermo restando che tra poesia e ideologia o critica della società e del mondo per lui non c’era alcuna soluzione di continuità. «La mia grinta mortuaria, di ghiaccio-represso», per usare parole sue, si indirizzava ovunque sentisse profumo di conformismo, di opportunismo da chierici, di specialismo asettico da «logotecnocrati» (per usare il sarcasmo del suo amico Cesare Cases).
Polemizzò con tutti, Fortini, anche e soprattutto con gli amici. E anche questo massimalismo infaticabilmente dialettico lo rende prezioso in un tempo in cui la polemica non c’è o si riduce a insulto sterile: basta leggere la sua Verifica dei poteri, un libro del 1965 riproposto adesso dal Saggiatore con prefazione di Alberto Rollo. Dove si parla di padri e di figli (tensione tra passato e futuro, appunto): anche di padri ingombranti, come osserva Rollo, a cominciare da Lukács, per continuare con Auerbach, Spitzer, Goldmann… Leggendo Pasternak, Proust, Kafka, Mann, Brecht, Fortini «verifica» la distanza dalla grandezza e cioè dalla verità, che è il (sottinteso) obiettivo utopico verso cui non si stanca di tendere chi vorrebbe, come lui, trasformare radicalmente il mondo. In definitiva verificare è il suo atteggiamento costante, qualcosa che somiglia a un «mandato» sociale sia quando è poeta sia quando è filologo sia quando è moralista, ed è per questo che non c’è separazione neppure tra il critico letterario e il saggista etico-politico che comunque instaurano un rapporto necessariamente conflittuale con la propria materia e con la propria contemporaneità.
Come fa presente Pier Vincenzo Mengaldo (il massimo lettore di Fortini), «certamente sua non è quell’arte della mediazione che era somma in Lukács», essendo, al pari di Pasolini, «uomo dell’impazienza e non della tessitura, del fulmine e non del fuoco lento». Amici e nemici, Fortini e Pasolini, simili e opposti. Romano Luperini definisce benissimo i due caratteri: «L’uno è poeta di un’inibizione, l’altro di un’esibizione. Fortini tende al distanziamento razionale e quasi classico (…); Pasolini alla visceralità. Il primo ha in orrore ogni eccesso vitalistico, odia l’intemperanza e la mancanza d’equilibrio sia nel comportamento sia nelle scelte linguistiche, e ha sempre rifiutato lo sperimentalismo; il secondo trovò in una disperata vitalità l’unica ragione della sua esistenza…».
Da queste prospettive divergenti nascerà nel novembre 1956 il celebre (e rude) confronto in versi, ospitato da «Officina», sul rapporto intellettuale-realtà tra il militante socialista ma intimamente comunista (Fortini) e il «compagno di strada in crisi e scomodo» (Pasolini), lontano da ogni schieramento diretto. L’incontro tra Fortini e la «nuova sinistra» dei «Quaderni piacentini» allargherà la distanza, tant’è vero che in Verifica dei poteri, la «disarmata sincerità» di Pasolini, definita «inutile coazione a ripetere», viene collocata tra i tanti bei gridi «così sterili, rauchi — e confusi» contro la meschina infamia dell’Italia. La rottura diventa quasi insanabile con le barricate del Sessantotto, quando i due ex sodali si ritroveranno su sponde avverse. Ma quella lunga burrasca intellettuale verrà poi rivissuta, a bocce ferme, nel 1993 in un libro, Attraverso Pasolini, in cui Fortini fa i conti con se stesso: «Aveva torto e io non avevo ragione». L’assassinio di Pasolini, secondo l’amico, conferì valore profetico agli stessi scritti corsari la cui visceralità ingenua (o finto ingenua) non gli era mai piaciuta.
Avrebbe potuto avvicinare Fortini a Pasolini la nuova temperie del Gruppo 63, che li vedeva ugualmente ostili, ma non avvenne, benché Pier Paolo, proprio in quella fase, provò a coinvolgere Franco nella rivista che dirigeva con Moravia e con la Morante, «Nuovi Argomenti». Le ragioni del rifiuto erano inequivocabilmente politiche: Pasolini a Roma, con i suoi film, da Accattone al Vangelo secondo Matteo, appariva come il protagonista di un centro di potere, una figura precipitata nel discredito dei giovani intellettuali che circondavano Fortini (Panzieri, Solmi, Bellocchio, Cherchi, Fofi…). Il quale nel frattempo aveva aperto un conto con la neoavanguardia di Sanguineti che, sempre in Verifica dei poteri, viene individuato come il fautore dell’avanguardia come «arte da museo e da atelier di moda», il teorico dell’«altra faccia della chiacchiera di massa», ovvero della neoavanguardia come saldatura tra letteratura e ordine borghese-capitalistico. Né in questo caso, diversamente dal rapporto con Pasolini, Fortini ha avuto ripensamenti, se è vero che in un ritratto degli anni Novanta appare ancora più duro, parlando di «fastidioso culturalismo poliglotta» e, peggio ancora, della «posizione politica di parlamentare, per così dire, “normalizzato”», in cui Sanguineti «sembra trovare un contenitore per i frantumi psichici del suo passato»: «Una ironia depressiva fra crepuscolarismo, comunismo e liberty».
Per la verità, non è che dal suo nemico gli siano mai mancate durissime repliche pan per focaccia. Analogo trattamento fortiniano nei confronti delle sperimentazioni di Giorgio Manganelli, colpevole, con il suo «spreco e fasto lessicale», di immergere il lettore nei «piaceri della pubblicità televisiva». E così non meravigliano le riserve, contraddittorie, nei confronti del padre ideale della neoavanguardia, Gadda, verso il quale Fortini dichiara senza mezze misure: «Mi è sempre stato antipatico», «certe laceranti delusioni non mi commuovono affatto». Ma su un altro versante, si ricorderanno la netta repulsione per La storia di Elsa Morante o le ironie acide a proposito del successo ottenuto dalle Lezioni americane dell’amico Calvino: «Un decennio di “pensiero debole” e di relativismo da morale laica hanno disposto moltissimi ad accogliere queste pagine».
Sono discussioni e prese di posizione lontanissime, ben più remote di quanto la cronologia esterna farebbe credere. Talmente anacronistiche da risultare sempre indispensabili. In fondo oggi verificare sarebbe più urgente che mai.


Corriere della sera, 7 settembre 2017  

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