Ferdinando Galiani si può
inscrivere in quella schiera, ormai ristretta e sempre rimpianta, di
uomini di cultura, di scrittori tipicamente italiani, dotati di
intelligenza intuitiva, di permanenti curiosità interdisciplinari,
di disponibilità ironica e partecipe a tempi, luoghi, idee e
problemi dai più futili ai più impegnativi; personaggi naturalmente
libertini, sensuali, talvolta ribelli, talvolta docili, pronti sempre
a giocare con le parole e a divertire con la loro conversazione.
Immaginiamo però che a una persona così dotata si aggiungano altre
qualità, questa volta tipicamente napoletane, sia per lo spirito, la
grazia, il gusto per la battuta, sia in relazione all' aspetto
fisico, al portamento (una gestualità surreale alla Totò o una
comicità seria alla Peppino De Filippo, per capirci), e avremo il
ritratto più o meno verosimile dell' abate Galiani, del petit
abbé che per dieci anni, dal 1759 al 1769, deliziò i salotti
parigini; del joli petit arlequin che ebbe l'amicizia e
l'ammirazione di Diderot e di Voltaire e l'inimicizia di altri
intellettuali illuministi, i quali non si divertivano affatto agli
sfottò che Galiani rovesciava, a parole o per iscritto, su di loro.
Ammirazione e inimicizie destinate a durare a lungo nella ampia
letteratura su Galiani e a rappresentare, anzi, una pietra di
paragone simbolica del disorientamento che può generare
l'incontrarsi, in una stessa persona, della cultura e della sua
negazione buffonesca (non è accaduto lo stesso anche per Mozart?) e
che, ad esempio, Nietzsche ha espresso molto bene in un passo di Al
di là del bene e del male: “Si danno persino dei casi in cui
alla nausea si mescola la fascinazione: tutte le volte, cioè, in cui
il genio sia legato, per un capriccio della natura, a un siffatto
indiscreto caprone e scimmia, come è accaduto all'abate Galiani,
l'uomo più profondo, più acuto e forse più sporco del suo secolo.
Parole certamente eccessive, ma indicative di un giudizio
contraddittorio che ha sempre accompagnato la figura e l'opera di
Galiani, la sua duplice personalità: che egli stesso, del resto,
sottolineava rivendicando in ogni occasione il valore
dell'individualismo edonistico, a volte cinico, e dell'utilitarismo;
sentimenti e comportamenti da lui definiti come l'unica molla
dell'agire umano. Lo chiamavano, per queste sue convinzioni,
Machiavellino, e della cosa egli non si adontava affatto.
Di questa suggestiva
figura si ricordano ora i duecento anni dalla morte in un convegno di
studi che si apre oggi a Chieti (la città in cui Galiani nacque nel
1728), patrocinato dal Comune, dall' Istituto italiano per gli studi
filosofici di Napoli e dalla Società italiana per gli studi sul
secolo XVIII. Il convegno proseguirà nei prossimi giorni a Napoli e
se ne prevede, tra qualche mese, un prolungamento nella città di
elezione di Galiani, Parigi. Galiani fu, come è facile capire, un
poligrafo. Si occupò di economia, di politica, di scienza del
linguaggio e di problemi sociali relativi al Regno di Napoli. Negli
anni dal 1770 al 1787 fu infatti consulente del governo durante la
reggenza illuminata di Bernardo Tanucci. Fra le sue più importanti
consulte rimangono attuali quelle dedicate alle Calabrie devastate
dal terremoto del 1783. Fu anche scrittore di teatro (ancora oggi si
mette in scena il suo Socrate immaginario) e di Dialoghi
famosi; dai Dialogues sur le commerce des blés a quello sulle
donne. Di lui resta anche un ricco epistolario, i cui principali
corrispondenti furono Tanucci e madame d'Épinay, sua amica e
ammiratrice, nonché tramite principale della vita mondana di Galiani
a Parigi (dove l'abate napoletano era segretario di legazione) e dei
suoi rapporti con Diderot, Grimm e altri esponenti del movimento
illuminista francese. L'amicizia della d'E' pinay ha un posto
rilevante nella biografia di Galiani per i motivi cui accennerò più
avanti. C'è quindi da rammaricarsi che delle 136 lettere da lei
inviate all'abate, tra il 1769 e il 1772, esista, se non erro, solo
l'edizione curata nel 1928 da Fausto Nicolini, sulla cui
attendibilità filologica (vi sono tagli arbitrari) ci sarebbe molto
da dire.
La fama di Galiani, in
Italia e nel mondo, dura inalterata da due secoli, ed è dovuta quasi
esclusivamente agli scritti economici. Il primo è l'opera giovanile
Della moneta, pubblicata nel 1751, che ha avuto riconoscimenti
ed elogi da grandi economisti quali Marx, Schumpeter, Einaudi,
Bohm-Bawerck, Loria e altri. Seguono i Dialogues sopra ricordati,
abbozzati a Parigi alla fine degli anni Sessanta e pubblicati, in
lingua francese, nel 1770 quando Galiani era ormai tornato a Napoli.
In Della moneta vi sono intuizioni sul ruolo che ha il lavoro
nella misurazione del valore di scambio (tesi che in qualche modo
anticipano quelle di Adam Smith e di David Ricardo) e sul posto
dell'interesse nel processo di trasformazione del valore in prezzo.
Un problema, quest'ultimo, che come sanno gli studiosi del pensiero
economico non è stato mai veramente risolto e che, ad esempio, Marx
considerava fondamentale nel modo di produzione capitalistico.
Meno semplice è invece
il giudizio sui Dialogues sur le commerce des blés. Ho detto
di un manoscritto allo stato di abbozzo lasciato da Galiani a Diderot
e a madame d'Épinay al momento di lasciare la Francia. C'è un
mistero in questa vicenda. Tutto fa pensare che il vero autore dei
Dialogues sia Diderot e che, in definitiva, trattandosi di un
attacco violento e sarcastico, e del tutto ingiustificato, alle tesi
della fisiocrazia (la scuola economica fondata da Francois Quesnay
nel 1758, alla quale si deve il Tableau économique, la più
geniale teoria economica moderna), Diderot abbia voluto attribuirne
la paternità a Galiani, famoso a Parigi per la sua causticità e, in
ogni caso, attendibile come economista.
Tutto fa pensare, in
realtà, che né Galiani né Diderot potessero capire fino in fondo
la teoria fisiocratica, che è rimasta enigmatica (tranne,
ovviamente, ai fisiocratici) per più di un secolo; e che proprio
questa impotenza interpretativa sia stata, per loro e, in genere, per
i non fisiocratici, un motivo di forte irritazione. La richiesta
fisiocratica della liberalizzazione del commercio interno e di
esportazione dei grani non poteva infatti essere estranea al modo di
pensare di Diderot. Ma certo lo era per un uomo come Galiani,
imbevuto ancora di idee mercantilistiche e vincolistiche e, in
politica, sicuramente conservatore. Cosa che i fisiocratici non erano
se non, come avrebbe poi detto Marx, per ingannevole apparenza.
Scrivendo parte dei Dialogues, dandogli il suo tocco, Diderot
voleva forse suscitare polemiche, come era nel suo stile, che
investissero il territorio dell'economia e delle teorie economiche
verso le quali egli aveva (ma non era il solo) una forte diffidenza
intellettuale. Ma la polemica divampò oltre il previsto: i
fisiocratici con in testa Morellet, risposero con numerosi scritti di
notevole rilievo teorico e politico ai quali non era facile
rispondere.
Galiani, tenuto al
corrente, cercò di intervenire con un pamphlet sarcastico che inviò
a Diderot e a madame d'Épinay e che essi molto opportunamente fecero
sparire: il titolo era Bagarre. Diderot, preso dal gioco,
rispose con una Apologie de l'abbé Galiani, che rimase però
inedita. In realtà, come scrisse a Galiani l'ambasciatore di Napoli
a Parigi, il marchese Caracciolo, i Dialogues avevano recato un grave
danno alla politica economica liberista che si tentava faticosamente
di introdurre in Francia. Non è un caso tuttavia che lo scritto di
Galiani avesse suscitato il consenso di tanti oppositori della
cultura illuminista. L'immagine forse più autentica di Galiani è
quella di un uomo sostanzialmente inquieto, desideroso di fare
qualcosa nel clima euforico di un secolo attraversato da ansie
riformatrici e da saette rivoluzionarie, ma come trattenuto dalle
ideologie dell'ancien régime che egli credeva di esorcizzare e
insieme di difendere con esilaranti mots d'esprit.
“la Repubblica”, 5
novembre 1987
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