«Vizi privati, pubblici
benefici». Questa frase, che è quasi divenuta un proverbio
dell’epoca moderna, appartiene al dottor Bernardo di Mandeville, il
medico olandese, trapiantato a Londra, che, tra il 1705 e il 1729,
compose la ben nota Favola delle api, ovvero vizi privati,
pubblici benefici. Così infatti suona il titolo della sua opera
sin dalla seconda edizione del 1714. Esce ora in traduzione, per la
cura di Tito Magri, l'insieme dei testi che costituiscono la prima
parte dell’opera e che Mandeville scrisse tra il 1705 e il 1724 (La
favola delle api, Laterza,1987).
[...]
La Favola delle api
è un’opera straordinaria anche per la spregiudicatezza
intellettuale che la contraddistingue. Nell’alveare che Mandeville
descrive, vige la prosperità economica e sociale in un mondo in cui
ci sono commercianti disonesti, avvocati truffaldini, medici
arroganti e vanitosi, una giustizia ingiusta con i poveri e gli
affamati e ruffiana con i ricchi, un esercito che maltratta i suoi
soldati, una chiesa di classe. «Ma chi potrebbe svelare tutte le
loro frodi? — si domanda Mandeville — Perfino la roba venduta per
la strada come concime per la terra, si scopriva spesso che era
mescolata con un quarto di pietre e di ghiaia inutilizzabili; sebbene
i critici non avessero motivo di lamentarsi visto che vendevano sale
al posto di burro». Così «ogni parte era piena di vizio», eppure,
osserva Mandeville, «il tutto era un paradiso».
Come spiegare questo
apparente paradosso? L’alveare descritto nel XVIII secolo si può
ancora oggi leggere tutti i giorni su tutti i giornali e vedere tutte
le ore in tutti i luoghi. Come mai da parti viziose risulta un tutto
paradisiaco?
Una chiave di spiegazione
si trova in un altro passo dell’Alveare scontento, il fulcro
dell'opera, poi chiarito a lungo nella nota (P). Dice Mandeville:
«Cosi il vizio nutriva l’ingegnosità, che insieme con il tempo e
con l’industria aveva portato le comodità della vita, i suoi reali
piaceri, agi e conforti, ad una tale altezza, che i più poveri
vivevano meglio di come vivessero prima i ricchi; e nulla si sarebbe
potuto aggiungere». Nella società borghese il più povero vive
meglio del più ricco di una società precedente.
Questa osservazione, che
sarà ripresa di peso da Adam Smith (e di ciò Marx si era accorto),
ci costringe a porci un’altra domanda: in che senso il più povero
vive meglio?
Da quale punto di vista?
Dal punto punto di vista della disponibilità reale delle cose
prodotte, cioè della produzione delle merci. Questo punto, in
apparenza così ovvio, è in realtà il centro della radicale
caratterizzazione della società borghese rispetto ad altre società.
E l’elemento caratteristico è determinato dal fatto che, come ha
notato Louis Dumont (Homo aequalis, Adelphi, 1984), Mandeville
stabilisce il primato del rapporto dell’uomo con i beni materiali
rispetto al rapporto tra gli uomini, se non in linea di principio,
almeno nell’analisi della della vita reale della società moderna.
Da qui alcune conseguenze
importanti: l’economia si autonomizza dalla morale nella stessa
misura in cui l'analisi della condotta umana e sociale si separa dai
modelli di comportamento fondati sul dover essere. Inoltre emerge
l’idea secondo cui i risultati sociali non sono il prodotto
conseguente delle intenzioni degli individui. Come fa vedere, nella
lucida e problematica introduzione, Tito Magri, il rapporto e la
differenza sono tra una società piccola e poco prosperosa dove è
possibile che i risultati sociali siano corrispondenti alle
intenzioni degli individui, e una società grande e potente dove
invece ciò non può più realizzarsi.
Mandeville, anticipando
anche su questo punto Adam Smith, mette in evidenza come i prodotti
di cui godiamo siano il frutto di una divisione e di una
organizzazione del lavoro assai complesse, non immediatamente
visibili nella merce. Ciononostante, la merce, (il prodotto, la cosa)
racchiude il tutto di quelle parti che hanno cooperato per la sua
realizzazione.
«Vizi privati, pubblici
benefici». Da parti viziose, un tutto che è un paradiso. Dietro
l’apparente apologia di un sistema sociale che vuole svincolarsi
dai residui del passato e che dichiara la sua rottura, c’è una
messa a nudo delle dinamiche dei rapporti e degli effettivi
comportamenti economici, che non sfuggì a Marx. Rapporti e
comportamenti che segnano il punto a partire dal quale non si torna
indietro anche in vista di una critica della società borghese.
L’economista von Hayek, sensibile alla teoria dei sistemi, ha colto
in Mandeville, come in Adam Smith e nella sua teoria della «mano
invisibile», un perno della realtà sociale per cui il benessere
collettivo può realizzarsi come un effetto che non dipende dalle
azioni individuali.
In questo si trovano
frammisti elementi di un liberalismo ottimistico, insieme con la
consapevolezza di una
complessità sociale non riducibile a immagini troppo semplificate, e
spesso argomentate retoricamente con buoni propositi e belle virtù,
di una società fondata sul «dover essere» e sul «buon
comportamento».
Il nodo gordiano da
sciogliere sta ancora nella verità detta da Mandeville : dal punto
di vista dei beni materiali il più povero presso di noi sta meglio
del più ricco nelle società «altre». Se molto è cambiato negli
ultimi due secoli, se, naturalmente, questa affermazione può essere
modificata da molti angoli visuali, rimane il fatto di quel punto di
vista. Se si accetta come assoluto e oggi indiscutibile il primato
del rapporto degli uomini con i beni rispetto ai rapporti fra gli
uomini, se non si tiene conto di quel che questo primato ha prodotto
e produce nel sistema-mondo, allora vale ancora la pena di ricordare
quest'altra constatazione di Mandeville: «Una delle ragioni
principali per cui così poche persone comprendono se stesse è che
la maggior parte degli scrittori insegnano agli uomini sempre quello
che dovrebbero essere, e quasi mai turbano le loro teste dicendo
quello che sono realmente».
il manifesto/giovedi 17
dicembre 1987
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