I dizionari del cinema
dicono tutto il male possibile di
Joan lui, il costosissimo
film che Adriano Celentano realizzò per Cecchi Gori nel 1985,
parlano di delirio di onnipotenza, di sciatteria, di assoluta
mancanza di senso della misura. E questo giudizio negativo mi pare
confermato dalle programmazioni delle reti tv che quasi mai hanno
ripreso quel brutto film. Penso che per rivederlo sul piccolo schermo
sia necessario aspettare la morte di Celentano e la curiosità che la
morte induce: i programmatori televisivi cercheranno di recuperare
anche i cascami della sua storia artistica. Quanto a me tra i miei
ritagli ho rintracciato questa intervista che il Molleggiato rilasciò
sul set di Joan Lui a
due cronisti del “manifesto” quasi in ginocchio davanti a lui e
che presenta qualche curiosità. (S.L.L.)
We are the world, we are
the children», prima sommesso poi sempre più forte il coro si alza
dalla penombra. Lui, anzi Joan Lui, appollaiato su di uno sgabello
piazzato in mezzo al palco, tutto in nero con una mise a metà tra il
judoka e il cantante rock, osserva incuriosito. All’improvviso
scatta e in equilibrio precario sul trespolo prende a dirigere le
improvvisate coriste — esseri meravigliosi piovuti da Broadway—
fino a che la musica si trasforma in un’esplosione di risate.
Sono le due di notte e
l’accenno di tensione all'interno del grande studio di Cinecittà
si dilegua, le antenne di Adriano Celentano hanno colto il momento e
trovato la soluzione giusta.
Osservare Celentano al
lavoro sul set del suo ultimo film, di gran lunga il più impegnativo
della sua carriera, è per certi versi sorprendente. Non c’è nulla
in lui che faccia pensare al «maestro», non c'è nessuno,
dall’attrezzista all’aiuto regista, che faccia le cose che deve
fare con atteggiamento di soggezione o di preoccupazione. Eppure
tutto ruota attorno a lui, è «Adriano» che detta i tempi e
condiziona gli umori di decine e decine di persone che lo attorniano.
Il suo carisma, evidentemente fortissimo, è però qualcosa di
impalpabile, difficile da afferrare e interpretare.
Sul set di un film che
costerà alla fine quasi 20 miliardi, la più colossale produzione
italiana da almeno vent'anni, Celentano si comporta come chiunque
l'abbia visto almeno una volta, in concerto o nelle rare apparizione
televisive, potrebbe immaginarselo: spontaneo, divertito, mai in
preda all'agitazione, il volto atteggiato a quella sintesi strana che
coniuga occhi malinconici ad un sorriso perennemente allegro.
Il grande traguardo
L’idea di un’intervista
sul set gli piace, ma anche in questo caso è lui a dettare i tempi,
ritagliati per forza di cose tra un ciak e l’altro.
«Fare questo film su
Gesù è un grande traguardo per me, un traguardo che inseguivo da
tempo. Certo traguardo starebbe a significare che dopo non c'è più
niente, però è bello tagliare il traguardo prima. E poi potrebbe
essere anche un modo per vedere che cosa viene dopo. Era un film che
dovevo fare, prima o poi. E l'ho fatto prima. È un film molto, molto
complesso, un concentrato di tutto quello che è cinema, dagli
effetti speciali alle scenografie alle musiche. No, della trama non
dico niente, deve essere una sorpresa per gli spettatori. Ti dico
solo che nei finale c'è una catastrofe, succede quello che non
dovrebbe mai succedere.
Pessimista? Sì, forse,
anzi l'unica cosa ottimistica è che per fortuna si tratta di un
film. Ma che cosa c'è da essere ottimisti con tutto quello che
succede attorno a noi, me lo dici? Siamo alle soglie di una
catastrofe, la natura si ribellerà a tutto l'inquinamento che gli
abbiamo imposto. Un inquinamento che ha rovinato anche le menti».
«Forse è vero che suono
sempre la stessa musica ma gli strumenti cambiano. E' la musica di un
credente, che odia la speculazione edilizia, che odia l’inquinamento.
Ecco perché io sento che questo film qui ha il merito di voler dire
una cosa importante: tanto abbiamo fatto che siamo arrivati alla
soglia del punto critico. Io mi immagino due forme di catastrofe:
quella provocata dagli uomini e quella della natura che si ribella.
Loro non si rendono conto di quello che hanno fatto, del punto cui
hanno portato il mondo. Loro chi sono? Sono gli americani, i russi,
tutti quelli che vogliono fare i furbi con l'amico, tutti quanti noi
insomma».
Mentre spiega la sua
mistica, Celentano lascia correre gli occhi per il set, controlla,
capisce dallo sguardo degli altri che è venuto il momento di tornare
a lavorare. È l’occasione buona per dare un'occhiata in giro, al
grande studio trasformato nella casa di Joan Lui, Gesù Cristo
tornato in terra secondo Celentano. Immaginate una grande platea
degradante di poltroncine rosse, sovrastata da una immensa cappa —
ciminiera con uso di cucina, qua e là macchine tipografiche. In alto
enormi vetrate colorate con grandi immagini umane. Abbandonati sulle
poltrone, distribuiti per la platea, stanno gli apostoli (diciassette
questa volta) cui hanno prestato le sembianze ballerine e ballerini
di un corpo di ballo americano, lo stesso, mi dicono, che ha lavorato
in Cohrus Line. Distaccati. professionali, bellissimi. Proprio come
piacciono a Celentano che della professionalità pare avere una
specie di culto. Adriano intanto dà l'ok alla scena e saltella giù
dal palco. Si ricomincia.
«Sì, succede proprio di
tutto in questo film, vengono toccati tutti i tasti della tastiera
del cinema. C’è anche la violenza, naturalmente. Ti stupisci? Ma
quando si parla di Gesù non si può non essere violenti, a causa sua
la gente si accanisce ancora oggi. Questo film è importante per
un'altra ragione, può fare da traino al cinema italiano per il
mercato americano. Sì che ho sentito parlare di Jesus Christ
Superstar, l'ho visto quattro volte, è il più bel film che sia
mai stato fatto su Gesù. Devo dire la verità, un film che ho
apprezzato è anche il Gesù di Pasolini, magari lui Gesù
l'aveva umanizzato, sconsacrato un po’ troppo. Io mi diverto anche
se qui c'è da lavorare sodo. In più io sono un fifone. Ma sapendo
che faccio un lavoro per Lui sono tranquillo. Sapere che a Lui
interessa mi dà le forze».
«Il mio modo di lavorare
è un po’ un fatto di famiglia. Mi ricordo lo zio Amedeo, era un
tipo straordinario. Era un grande musicista, ha fatto anche delle
canzoni, io volevo fargliele incidere, c’ero quasi riuscito,
purtroppo lui non ha fatto in tempo. Amedeo era un barbiere
bravissimo, tutti volevano andare da lui a farsi la barba, ma si
sentiva soprattutto un musicista, gli piaceva tanto cantare, e col
mandolino era un maestro. A cantare e suonare andava la sera nei
locali, ma dopo due giorni si stancava e la piantava lì, era troppo
scostante. C’è stata una storia tra noi due, lui voleva a tutti i
costi essere il padrino al mio battesimo, ma mia madre non voleva
proprio perché era un tipo troppo scostante, e, sai come si dice, il
carattere del padrino condiziona il bambino. Alla fine ha vinto mia
madre, e magari ha avuto ragione. Sì, io sono più determinato,
anche se credo che il modo di fare alla fine dei conti sia sempre
quello. Forse sono solo stato più fortunato.»
«No, non credo di aver
composto la colonna sonora di questi ultimi venticinque anni, sono
successe troppe cose importanti.»
24 mila baci
«La ragione del mio
successo prolungato? Io la conosco, ma non posso dirla. Posso dire
che il discorso è sempre uno ma va diluito nel tempo. Certo che di
tappe importanti nella mia vita ce ne sono state tante ma se proprio
devo indicare i momenti di svolta, adesso me ne vengono in mente tre.
Il primo è legato a 24 mila baci. Ero militare in quel
periodo quando seppi di essere stato ammesso a Sanremo. Ottenni un
permesso di sei giorni, allora ministro era Andreotti. Ero contento
anche perché quell’anno avevo creato una rottura con Il mio
bacio è come un rock. In quel periodo tutti andavano in scena
con il frack, io, il pomeriggio in albergo, avevo deciso che questa
cosa mi dava fastidio, non mi vedevo proprio così acconciato. Mi
sono guardato allo specchio, ho slacciato il nastrino e ho scoperto
che stavo meglio. Poi ho pensato che in scena dovevo voltarmi, fare
uno scarto, una mossa. Fu una specie di scandalo, un deputato voleva
denunciarmi».
Per scoprire gli altri
due punti di svolta della Celentano story bisogna aspettare. La scena
sul set è cambiata, gli attrezzisti hanno creato, mentre noi
parlavamo un complicato gioco di luci. Alle luci il regista Celentano
tiene molto, le fa cambiare e ricambiare. Finalmente si gira, una
battuta, un’altra pausa.
«Nel racconto vado
all’indietro, torno a un festival del rock ’n’ roll a Roma. Mi
avevano chiamato con altri tremila cantanti, c'erano tutti i big,
Villa, la Tornelli, tutti insomma. Ho preso la valigetta e sono
arrivato a Roma la sera prima dello spettacolo. È successo che mi
hanno dato tre canzoni da imparare per l’indomani: io gli dico
guardate che non ce la faccio, loro insistono. Studio la notte e
naturalmente non le imparo a memoria. Allora ho pensato una cosa, mi
sono scritto i testi su un grande foglio e con quello sono andato in
scena. Solo che arrivato a metà non potevo più leggerlo, dovevo
girare il foglio. Lo girai e mi accorsi che in quel modo la scrittura
era all’incontrario. Feci finta di nulla e andai avanti lo stesso,
fu un grande successo, anche se l'impresario mi voleva fare causa. Mi
videro altri due impresari più intelligenti che mi chiesero di
andare a un festival ad Ancona. Anche là ci volevano tre canzoni,
era una fissazione. Le preparai e arrivai primo, con Il tuo bacio,
secondo e terzo».
«Ancora prima ci fu il
festival del rock ’n’ roll al palazzo del ghiaccio di Milano. Lo
organizzava Bruno Dossena, che mi volle a tutti i costi. Ho saputo
che c'è un cantante rock a Milano, mi disse, e finalmente ti ho
trovato. Mi viene anche in mente il mio primo gruppo, eravamo i Rock
boys, con Gaber e Jannacci; in una tournée in Germania, venne anche
Tenco».
«Da allora sono passati
più di venti anni ma ancora, tra i tanti Celentano, l’attore, il
regista, il cantante, preferisco quest’ultimo. A parte l’origine,
mi piace la reazione immediata del pubblico a quello che fai. Mi
diverto a scrivere e a raccontare con il cinema, solo che in questo
caso devi aspettare per avere le reazioni, anche se poi magari la
soddisfazione è più ampia, più profonda.
Il mio primo scudetto?
Beh, ne ho vinti tanti, quando un film incassa più di tutti o quando
vendi un milione di copie di un disco. Ma come effetto sul pubblico
forse il primo scudetto è stato 24 mila baci. No, Ti ricordi
Dolly Bell non l’ho visto, non sapevo nemmeno che esistesse
quel film. Adesso devo procurarmi la cassetta».
Sincerità di
Berlinguer
«Sono tante le cose che
non rifarei, anche se in questo momento non me ne viene in mente
nessuna. Una cosa che mi è rimasta impressa nella mente, è il
ricordo di un giorno che ero nervoso in casa. Saranno passati più di
vent'anni. Mi era capitato di arrabbiarmi con mia madre e
all’improvviso ho visto il dolore nei suoi occhi. Ho riflettuto e
mi sono bloccato. Poi sono uscito e mentre passeggiavo mi sono detto
che in futuro avrei dovuto sempre evitare di arrabbiarmi in quel
modo. Ma in fondo quella volta mi sono represso, quindi non posso
nemmeno dire che si tratta di una cosa che non rifarei. Non mi piace
arrabbiarmi con gli altri, anche se devo dirti che non è sempre
facile essere Celentano, è anche faticoso».
«Della politica proprio
non me intendo, e devo dirti che non conosco nemmeno il tuo giornale,
non riesco quindi a immaginare quali possano essere i suoi lettori.
Nella politica, ma non solo nella politica, c’era uno solo che mi
piaceva e ho sofferto molto quando è morto, Enrico Berlinguer. Anche
se era di una dottrina diversa dalla mia, vedevo in lui una sincerità
che non vedevo in altri. Devo dire che quando compariva in
televisione, qualunque cosa facessi in quel momento, la piantavo li e
mi mettevo a vederlo. Mi piaceva molto Berlinguer».
«Sì, lavoro parecchio,
ma non mi piace far fare indigestione alla gente, io credo che uno
non debba mai strafare. Per questo vado poco in tv, non si può
esagerare. Ho sempre avuto questo pudore, anche con le donne delle
quali ero innamorato, se mi accorgevo che diventavo troppo insistente
e pesante cercavo di limitarmi. Capisci perché non mi può piacere
il bombardamento della pubblicità? È il vero inquinamento totale.
No, no. questo film non andrà mai in quelle televisioni inzeppate di
pubblicità, se andrà da qualche parte andrà alla Rai che almeno
non interrompe i film».
Mancherebbero poche
battute per costruire un finale, prima che Celentano si decida a
girare l’ultima scena della nottata, ma la pausa per un’abboffata
di anguria è obbligatoria. Le ragazze meravigliose hanno finito la
loro parte e se ne vanno quando sono ormai le tre. Celentano accenna
una mossa e dall’auto in partenza erompe il coro «ciao
supermolleggiato». Sul set rimane solo un ballerino, adesso tocca a
lui. C’è bisogno del regista per sistemare la macchina da presa.
«Non so cosa farò dopo, forse andrò in campagna, ma qualunque cosa dicessi sarebbe probabilmente una bugia, davvero non lo so. Adesso penso solo a finire Joan Lui, sai ho paura, ho paura di non farcela a finire. Per guadagnare tempo giro di giorno e la notte monto. Ma la paura di non finire in tempo resta. Anche se io credo che Lui, questo film, ci tiene a farlo uscire per Natale».
«Non so cosa farò dopo, forse andrò in campagna, ma qualunque cosa dicessi sarebbe probabilmente una bugia, davvero non lo so. Adesso penso solo a finire Joan Lui, sai ho paura, ho paura di non farcela a finire. Per guadagnare tempo giro di giorno e la notte monto. Ma la paura di non finire in tempo resta. Anche se io credo che Lui, questo film, ci tiene a farlo uscire per Natale».
"il manifesto", 14 luglio 1985
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