Leanne O'Sullivan |
Il giorno che i dottori e le infermiere
hanno i loro colloqui settimanali coi
pazienti,
siedo aspettando il mio turno fuori
dello studio,
schiena al muro, gambe raccolte sotto
il mento,
giocando con il lembo della mia camicia
bianca da ospedale.
Hanno preso ogni cosa che a loro
giudizio
doveva esser presa – le mie vesti, i
miei libri,
la mia musica, come se venir spogliata
facesse parte della cura, come
rimuovere il fodero
da una lama che ha fatto strage.
Hanno detto: aspetta qualche giorno, e
se fai la brava
potrai riavere le tue cose. Avevano
preso
il mio diario, la mia parola fatta
carne, e penso
a questi dottori che mi conoscono nuda,
mi tengono per la spina dorsale, due
dita
sotto il collo, come si tiene un bimbo,
mi cavano l'anima dalle costole,
sfogliano le pagine dei miei pensieri,
come se mi leggessero la mano,
il mio nome sotto di loro come una
confessione,
che sono padroni di questa ragazza, che
rivendicano
questo mondo di oscurità, leggerezza,
morte
e nascita. È nelle loro mani come una
sagola di salvataggio,
e io mi sento in caduta libera o a
pezzi.
Sentono la mia voce mentre leggono
e pensano: Chi è questa ragazza che
parla?
Io conosco la fine, a loro lo dice lei.
È l'ultima riga, sia sorgente che
termine.
È ciò per cui gli oceani cantano,
come si muove il sole,
un luogo per i cartografi dove
cominciare.
Dietro la porta, niente è detto.
Come sogni, le mie vesti escono dalle
scatole.
Poesia n. 287 Novembre 2013 - Traduzione Alessandro Gentili
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