I vigili urbani mi
assicurano che nel Comune di Campobello di Licata esiste una via Vito
Montaperto o, forse, via Sindaco Montaperto e mi hanno indicato la
zona dove dovrebbe trovarsi, il passo di Ravanusa. Non ne ho invece
reperito alcuna traccia nella mappa di Google e nel Web: strada un
po' fuori mano, dunque, e poco abitata. Il nome di quel giovane
avvocato, che fu sindaco del mio paese dal 1949 al 1953, quando venne
ucciso in un agguato dalle parti di Palma Montechiaro, su uno
stradale che portava ad Agrigento, non lo trovo peraltro nel lungo
elenco di vittime innocenti delle “mafie” italiane che Libera
propone al ricordo nelle sue giornate della memoria, ogni 21 marzo.
Non mi meraviglio troppo.
Montaperto fu ammazzato nel tempo in cui la stampa, le autorità
politiche e perfino quelle religiose (il cardinale Ruffini, per
esempio) arrivavano a negare l'esistenza stessa della “mafia”
come struttura organizzata e capillare e in cui, negli atti degli
investigatori o in quelli processuali, assai raramente si parla di
delitti di mafia, perfino in casi in cui la matrice era evidente,
come quelli dei sindacalisti prima minacciati e poi uccisi perché colpevoli di disturbare il potere semifeudale ancora vigente. Molti omicidi di mafia venivano
affibbiati a una generica delinquenza o mascherati da delitti
passionali o considerati frutto di occasionali risse o altri futili
motivi. Nel caso di Montaperto la cosa è complicata dai legami
familiari: era di famiglia mafiosa, figlio di un “uomo d'onore”
assai ascoltato, Nino Montaperto, che molti consideravano il capo
della onorata società locale e la cui immagine compare in molti dei
misteri del paese. Quando “lu 'zzi Ninu”, qualche anno più
tardi, fu ucciso anche lui, “per futili motivi”, nella sua tomba
fu trovata la salma rapita di un ricco possidente locale, a sua volta
caduto in un agguato mafioso, salma invano cercata dalle forze di
polizia nei suoi rastrellamenti con grande spiegamento di uomini e
cani.
Gli studiosi della
materia, tuttavia, da Michele Pantaleone in poi, collegano
l'uccisione di Vito Montaperto al suo ruolo di segretario provinciale
della Democrazia Cristiana e al suo essere l'astro nascente del
partito in provincia ed ipotizzano che egli volesse spezzare i legami
tra politica e mafia e che sia stata questa “colpa” a determinare
la scelta di sopprimerlo. In verità, a mia memoria, mai in pubblico,
nei dibattiti o nei comizi, si associava quel delitto alla mafia, e
perfino l'onorevole Luigi Giglia, suo amico personale e di partito
nonché testimone del delitto, preferiva parlare, genericamente, di
“mano omicida”.
Ho deciso di postare qui
una testimonianza di Andrea Camilleri, lo scrittore della saga del
commissario Montalbano, che la inserisce in un suo scritto su Storie
di mafia e Dc a uso degli smemorati originariamente
pubblicato su “Micromega” nel 1999, come “fatto
personale”. Il racconto di Giglia, che Camilleri riferisce, toglie
ogni dubbio sulla natura di “esecuzione mafiosa” di quel fatto di
sangue. (S.L.L.)
La piazza Aldo Moro (già Costanzo Ciano) a Campobello di Licata (Ag) Dietro la vasca, di Silvio Benedetto, la via Dante ove abitò Vito Montaperto |
Al Convitto vescovile di
Agrigento conobbi i miei coetanei Vito Montaperto e Luigi Giglia, del
quale divenni amico. Con Montaperto ebbi invece rapporti diffìcili,
ci detestavamo. Un giorno ci trovammo soli, faccia a faccia, in
camerata, e ci pigliammo a pugni. Fu una lotta disperata e feroce.
Ebbi fortunatamente la meglio, con un pugno gli feci perdere i sensi.
Atterrito, lo sollevai e lo misi su un letto. In quel momento entrò
un precettore. Volle sapere cos’era accaduto. Io dissi che avevo
trovato Vito per terra e l’avevo messo più comodo. Il precettore
fece riprendere i sensi a Vito e gli domandò cosa fosse successo. E
lui, guardandomi, disse: «Mi sono sentito male». Non ci parlammo
più. Conservo una foto che ci ritrae assieme. Poi, nel 1950,
c’incontrammo casualmente ad Agrigento, per strada. Capitò allora
una cosa stranissima: Vito e io ci guardammo negli occhi e ci
abbracciammo. Poi Luigi Giglia divenne deputato e sottosegretario ai
Lavori pubblici. Ogni tanto ci vedevamo a Roma. Nell’agosto
dell’anno nel quale Vito venne ammazzato c’incontrammo ancora una
volta casualmente ad Agrigento. Fummo contenti di vederci, Vito mi
disse che si sarebbe presto sposato. Venne assassinato pochi giorni
dopo. Qualche mese appresso, Luigi Giglia mi telefonò a Roma e mi
disse che voleva vedermi.
C’incontrammo e capii
subito che desiderava parlarmi della morte di Vito.
«Era notte tarda,
stavamo tornando in macchina da Cal-tanissetta ad Agrigento. Eravamo
in quattro. Vito al volante e allato aveva il sindaco del tuo paese,
Inclima. Dietro c'ero io con Tano Di Leo. A un tratto vedemmo che la
strada era sbarrata da un tronco d’albero. Capimmo subito che si
trattava di un agguato. Tano Di Leo disse a Vito di lasciare accesi
gli abbaglianti, scese dalla macchina e si piazzò sotto la luce dei
fari per farsi riconoscere. Quindi disse, rivolto al buio della
collina: “Picciotti, errore c’è. Sono Tano Di Leo”. E nel buio
si sentì una voce: “Ninni stamu futtennu (Ce ne stiamo fottendo).
Comparvero quattro armati di mitra, infaccialati. Uno ci ordinò di
stenderci a faccia in giù lungo il bordo della strada. Capii che si
trattava di qualcosa di più serio di una rapina. E, per lo scanto,
mi torno a memoria tutt’intero l’Atto di dolore che non recitavo
più dai tempi del Convitto. Poi una voce disse: “Chi è Vito
Montaperto?”. Vito rispose: “Io”. Gli dissero di alzarsi e
mentre s'alzava lo falciarono. Quindi ci ordinarono di restare a
faccia a terra per un pezzo e poi spostare il tronco e andarcene. E
questo è quanto».
Ora in Andrea Camilleri, Come la penso, Chiarelettere, 2013
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