■ La tradizione
idealista, storicista ed hegheliana che in Italia (ha ragione Geno
Pampaloni) coinvolge sia la destra che la sinistra l’ha avuta vinta
due volte su Pier Paolo Pasolini e sul suo «pessimismo cristiano»:
la prima, quando lo attaccò per i suoi romanzi, la seconda, quando
lo beatificò e lo imbalsamò. Il pessimismo e il disordine cristiano
dell’autore di Ragazzi di vita erano facilmente
riconoscibili in quella stessa tradizione e perciò altrettanto
facilmente riconducibili all'ordine mediante l’ostracismo o
l’appropriazione.
Ragazzi di vita
uscì nel 1955, quarantanni fa. Se oggi si scorrono le cronache di
quella discussione tra pochi addetti ai lavori, in seguito dilatata
fino ai margini del possibile, si conclude che il «dibattito» non
fu poi gran cosa: ma fu spesso cattivo, pettegolo e in fin dei conti
misero.
Naturalmente ci scappò
il processo. Il crimine: pubblicazione oscena. Pasolini dovette
raccomandarsi agli amici e agli accademici per ottenere
quell’assoluzione che i giudici sentenziarono dopo che si erano
mossi Gianfranco Contini, Giuseppe Ungaretti, Giuseppe De Robertis,
Alfredo Schiaffini, Carlo Bo e altri. Nell’Italia ancor fresca del
voto generosamente accordato alla Dc, nell’Italia che procedeva
lungo la via dell’espansione economica, più dei valori letterari
contavano i valori religiosi. Su questi valori, nel momento delle
testimonianze, puntarono le loro carte anche i letterati a difesa.
Riccetto e i suoi
compagni
Sotto accusa era la
storia narrata (il ragazzo Riccetto e i suoi compagni nella cupa
allegria di una Roma sottoproletaria), il linguaggio osceno e la
lingua, cioè quel romanesco di laboratorio che Pasolini aveva
inventato per i suoi ragazzi. Convenne ai testimoni dire anzitutto
che l’opera era ispirata a «valori religiosi» e poi (Ungaretti)
che al romanziere spetta il libero compito di «rappresentare la
realtà com’è». D’altra parte, scrisse Bo, il romanzo, non
soloo «ha un grande valore religioso perché spinge alla pietà
verso i poveri e i diseredati», ma non è osceno perché «i
dialoghi sono dialoghi di ragazzi che non si esprimono bene; e
l’autore ha sentito la necessità di rappresentarli così come in
realtà». I giudici emisero una sentenza di assoluzione, nella quale
si poteva leggere persino qualche apprezzamento letterario del libro
di Pasolini.
Ragazzi di vita
portava nelle sue pagine il fardello del morente neorealismo. Fu
quindi letto da parte dei responsabili della «politica culturale»
del partito comunista come una trasgressione. A quel tempo, era molto
forte la presenza di uomini come Mario Alicata, come Carlo Salinari,
che sostenevano il passaggio dal neorealismo al realismo nel cinema,
nelle arti e nelle lettere, il libro di Pasolini non piacque a quegli
uomini: che non vedevano di buon occhio, perché non «nazionale»,
non unitario l’uso del dialetto; per di più, Pasolini lo aveva
ricostruito in laboratorio. Essi non parlarono di valori religiosi
come faranno i testimoni al processo, ma di valori morali. Mentre il
realismo veniva invitato a occuparsi anche di borghesi e non solo di
operai e di lavoratori, quegli uomini videro come una deviazione
l’interesse di Pasolini per il sottoproletariato. Da questa
prospettiva, fu facile persino a studiosi di grande finezza
intellettuale come Carlo Salinari attribuire e rimproverare a
Pasolini un «contenuto reale» del suo romanzo: «Il gusto morboso
dello sporco, dell’abietto, dello scomposto e del torbido». La
citazione si trova a pagina 430 del saggio Pasolini, Requiem,
l’autore, Barth David Schwartz, l’ha enucleata dallo scritto di
Carlo Salinari apparso su “Il contemporaneo” del 9 luglio 1955.
(Il libro di Schwartz è appena uscito da Marsilio).
Più cauto, più attento,
Gaetano Trombatore, su “l'Unità”, cercava di scandagliare la
struttura di Ragazzi di vita posando lo sguardo sui due
livelli stilistici, il parlato e il dialetto-gergo: «Il parlato
è tutto dialetto e gergo. Nel narrato domina invece una
lingua tutta letterariamente acchitata, nella cui trama però si
inseriscono clausole e locuzioni dialettali e gergali e altre
preziosità. Il parlato è tutto dei personaggi, il narrato è dello
scrittore».
Pasolini rispose a
Salinari e a Trombatore con un articolo su “Officina”,
accusandoli di «crudezza» e di «durezza ideologico-teorica»,
viziata da quello che Lukàcs chiamava «prospettivismo».
La discussione non
oltrepassò le mura di circoli ristretti: fu un discorso elitario,
politico e poco letterario, costretto nei limiti della «politica
culturale».
Processo allo
scandalo
Dopo il processo
intentato dalla Procura della Repubblica di Milano contro Pasolini e
il suo editore, Garzanti, i giornali e la pubblica opinione si
impossessarono del processo, della sentenza e della personalità
«scandalosa» dell’autore di Ragazzi di vita, fu il momento
del successo e dell’aumento delle vendite di un libro che la
denuncia aveva fatto sparire dalle librerie.
Di che cosa parlò il
cittadino cosiddetto medio dopo la lettura? Parlò del dialetto-gergo
e delle «oscenità». Disse che quella lingua non era parlata da
nessuno in Italia e che altro non era che turpiloquio. L’Italia
badava al boom, non aveva tempo da perdere.
“l'Unità”, 20
ottobre 1995
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