Non più di dieci anni fa
mi sentii ripetere a lungo che James Joyce era scrittore inglese in
tutto e per tutto. «Ti invito a cercare» concludeva di solito una
carismatica docente del dottorato cui ero iscritto, «le evidenze
testuali di questa irlandesità di cui vai parlando». In realtà
tutto era già stato argomentato e provato nell’eccellente
introduzione a Ulysses pubblicato nel 1992 nella collana
Twentieth Century Classics della Penguin. Quanto allora non si
sospettava era che un gruppo eterogeneo di studiosi, fra cui Seamus
Deane, P.J. Mathews, Emer Nolan, Derek Hand, John McCourt e
naturalmente Declan Kiberd, autore appunto di quella introduzione,
sarebbero tornati sulla questione con una produzione critica così
ricca e puntuale da rendere anacronistico ogni tentativo di epurare
Joyce dal suo carattere irlandese e dallo Zeitgeist che lo ispirò
negli anni della formazione.
Fondamentale in questo
senso è Ulysses and Us dello stesso Kiberd (Fàber and Faber
2009). Nel libro lo studioso, per decenni docente di letteratura
inglese allo University College of Dublin e più di recente presso il
Keogh Institute of Irish Studies di Notre Dame, non si limita a
sondare con rigore filologico il ruolo dei fattori culturali e
linguistici squisitamente «irlandesi» nella maturazione del
pensiero joyciano e nelle realizzazioni tematiche e formali che lo
esprimono. Del resto, questo tipo di esplorazione è un punto di
forza di tutti i suoi volumi più apprezzati, da Inventinglreland
(Jonathan Cape 1995), passando per Irish Classics (Granfa
2000), fino a The Irish Writer and the World (Cambridge
University Press 2005). Si tratta di una indagine storico-letteraria
dai risvolti consapevolmente politici, avviata da Kiberd già con la
prima monografia (Macmillan 1979) dedicata, non a caso, alle
«intersezioni» fra «l’energia latente» della lingua gaelica e
lo «stile bilingue» dal «garbo alieno» di un John Millington
Synge.
Ma in Ulysses and Us
(dove «Us» non è solo l’accusativo di «we», noi, ma
soprattutto il calco del termine irlandese «Feinn», attorno al
quale si coagulano complesse trame mitologiche e identitarie), c’è
molto di più della rivendicazione di centralità per il contesto
irlandese nell’opera di Joyce. Di fatto, il noi
orgogliosamente esibito nel titolo non ha alcunché di escludente.
Kiberd sottolinea a più riprese come il Joyce cosmopolita,
internazionalista e dalla biografia europea criticasse aspramente il
nazionalismo militante e muscolare della Gaelic League e di
W.B. Yeats. È tuttavia indubbio, osserva Kiberd, che dall’Ulisse
emerga un monumento alla città di Dublino: alla sua topografia, ai
suoi abitanti, alle pratiche sociali e culturali più popolari che
fanno di quel luogo un microcosmo vivido e affascinante. Ed è
altrettanto evidente che nell’Ulisse figuri il tentativo di
«forgiare la coscienza mai creata della mia gente», così come
l’autore aveva promesso al termine del Ritratto dell’artista da
giovane.
Tutto questo, però, non
contraddice affatto l’orizzonte universale, aperto e tollerante al
quale l’esule irlandese continuò a rivolgersi per tutta la vita.
Allo stesso modo, il noi di Kiberd non ha niente di aggressivo o di
chiuso, ed è semmai esemplificato dal tono scanzonato e anarchico
del sottotitolo, The Art of Everyday Living. l’arte del vivere
quotidiano. La spiegazione è facile. Come ampiamente documentato da
Kiberd, Joyce non amò gli accademici e gli intellettuali, trovandosi
a suo agio con la gente comune, della quale e per la quale continuò
a scrivere. Anzi. Nel conseguente tentativo di sacralizzare il
quotidiano e la materialità del vivere, egli decise di raccontare
un’unica giornata nelle vite di un ebreo dublinese, sua moglie e un
giovane insoddisfatto, proprio perché consapevole che dalle persone
più semplici era possibile imparare a fare tutto ciò che ci
permette di vivere meglio. Camminare, raccontare, bere, sognare,
mangiare, lanciare sguardi languidi e girovagare diventano pertanto i
titoli di alcuni dei diciotto capitoli in cui è strutturata la
monografia, in un allestimento che riproduce quello progettato da
Joyce per il suo Ulisse e descritto nella celebre lettera a
Carlo Linati.
All’epica mitologica e
guerrafondaia e alla metafisica religiosa, Joyce contrappose
l’individuo qualunque e la sua lotta smagata ma non per questo meno
ostinata contro le forze sociali che ne ostacolano la realizzazione.
È paradossale, osserva Kiberd, che proprio questa epica delle
piccole cose e delle persone comuni, ideata da un modernista sui
generis dalle simpatie socialiste, non sia patrimonio dell’uomo
della strada. Al contrario, l’Ulisse, come gran parte della
letteratura moderna, viene ormai letto solo da un gruppuscolo di
professionisti isolati i cui lavori sono volutamente refrattari a
qualsiasi scambio con la cultura popolare. In questo modo si
incenerisce un enorme archivio di conoscenze e un’importante
eredità di saggezza. Motivo sufficiente, conclude Kiberd, per
rivendicare finalmente la «collettivizzazione» del Joyce bene
comune e più in generale della letteratura bene comune.
Sotto auspici per certi
versi simili si pone l’edizione economica dell’Ulisse
appena uscita in Italia per Newton Compton nella traduzione di Enrico
Terrinoni, già allievo e sodale di Kiberd in numerosi lavori di
ricerca, coadiuvato da Carlo Bigazzi. Come già notavano
Schleiermacher e più tardi Benjamin, è di fatto questa una delle
funzioni fondamentali della traduzione: rivitalizzare un’opera
letteraria restituendole alla linfa e il respiro che le
interpretazioni autorevoli del passato avevano finito per soffocare.
A ben vedere, è lo stesso intervento di apertura sovversiva che
Kiberd osserva nelle rielaborazioni joyciane dei testi biblici,
classici, ma anche dei capolavori di Dante e Shakespeare. È
un’operazione che tutela la pluralità dei messaggi artistici e
inevitabilmente apre gli steccati in cui opere, autori e interi
movimenti troppo spesso vengono rinchiusi. È possibile farlo, sembra
suggerirci la traduzione di Terrinoni, rimettendone in discussione le
potenzialità semantiche attraverso i setacci dell’adeguamento del
registro e della ricognizione degli intrecci intertestuali.
Da segnalare, infine, il
vivace contributo alla biografia joyciana di Gordon Bowker, con James
Joyce: A Biography (Weidenfeld & Nicolson 2011). È questo un
testo monumentale, animato da una certa audacia intellettuale e
sonetto da un’ammirevole attività di ricerca. C’è chi ha voluto
trovare in Bowker il tentativo di spiegare la finzione di Joyce
attraverso le esperienze di vita dello stesso, ma questo non sembra
essere stato davvero l’obiettivo dell’autore. Svelare connessioni
e plausibili interferenze fra un’attività creativa e un profilo
biografico non significa pretendere di attivare un rapporto causale
diretto, magari da declinarsi nei termini psicoanalitici delle
pulsioni e del ritorno del represso formale (operazione peraltro
lecita se svolta nella consapevolezza che l’eventuale risultato può
tutt’al più generare ipotesi). Libero da pregiudizi e velleità
opportunistiche, lo studio di Bowker si rivela casomai un contributo
importante e affidabile.
Un’occasione in più
per ricordarci che qualsiasi interpretazione, ancorché autorevole,
non si dovrebbe mai cristallizzare in mera liturgia.
“il manifesto”, 9
febbraio 2012
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