In quale momento l’Italia
è diventato un Paese dove fare Stato sociale non vuol dire più
fornire servizi per tutti ma, semplicemente, mettere soldi in mano ai
cittadini attraverso bonus, detrazioni, sgravi, mance a vario titolo,
sperando poi che in mezzo alla crisi se la risolvano da soli?
I dati Eurostat ci dicono
che in Europa l’Italia è il Paese che stanzia meno risorse in
percentuale rispetto al Pil per il welfare di servizi (7,1%) e, al
contrario, più di tutti per erogazioni in denaro (21,7%), come
mostriamo nel grafico pubblicato qui a fianco.
I numeri dell’istituto
statistico europeo si fermano al 2014. Da allora la situazione è
ulteriormente peggiorata, come mostra il secondo grafico (dati Istat)
che mostra la spesa sociale in valori assoluti: dagli 80 euro in poi,
il governo Renzi prima e quello Gentiloni dopo hanno approvato una
sventagliata di misure che, a partire dal lavoro, sono tutte sottese
da un’unica ideologia. Tagli ai servizi, mano larga sugli
incentivi. Ma funziona?
Lo Stato leggero
Mentre sul governo
piovono da destra come da sinistra le critiche comprensibili di chi
vede nella politica delle mance una affannosa campagna elettorale,
miete consensi la proposta dell’Istituto Bruno Leoni che porta la
firma di un economista come Nicola Rossi, nome ben dentro la storia
della sinistra italiana. La flat tax al 25% porta con sé, sebbene se
ne sia parlato meno, il “minimo vitale”, un sussidio universale
da erogarsi, sotto forma di carta di credito, a chi ha redditi sotto
il livello di sussistenza e che cancella ogni bonus, sgravio o
detrazione attualmente in vigore. Il minimo vitale piace perché
semplifica, nelle parole dello stesso Nicola Rossi, «una serie di
misure ognuna delle quali ha una sua specifica giustificazione, di
solito generate da necessità del momento (e intendo anche
elettorali) che messe insieme generano un risultato poco
comprensibile».
Verrebbe erogata sotto
forma di carta di credito utilizzabile solo per determinati scopi:
affitto, utenze, servizi sociali come asili, sanità e altro ancora.
Spazza via la politica delle mance, ma è anche la fine dello Stato
sociale erogatore di servizi.
Come ci spiega lo stesso
Rossi, «anziché erogare servizi, viene corrisposta una somma. Noi
abbiamo uno Stato che intermedia il 50% delle risorse del Paese e
che, lo dicono i dati, si è dimostrato tra i più inefficienti
insieme alla Grecia nel mitigare gli effetti della crisi. Limitare lo
Stato significa riportarlo a dimensioni più ragionevoli. Ovviamente
lo Stato continua a fornire servizi di utilità pubblica, ma a mio
modo di vedere dovrebbe farlo in concorrenza con il privato,
lasciando la possibilità al cittadino di scegliere».
Fumo negli occhi, quello
gettato da Rossi, negli occhi di chi crede ancora che lo Stato
sociale sia una cosa diversa. «Un welfare di servizi», sostiene
Michele Raitano, ricercatore alla Sapienza di Roma, «ha vantaggi
enormi in termini di equità di accesso, ricadute macro-economiche,
coesione sociale. La filosofia di chi non vuole uno Stato che eroga
servizi è la filosofia di chi pensa che va combattuta la povertà
estrema, ma che la disuguaglianza non sia un problema. Dove lo Stato
si fa da parte, nascono le università riservate alle élite, lo
stesso succede per la sanità. Fa specie che questi discorsi facciano
breccia anche in un governo di centrosinistra».
Demolire tutto
Ci sono diversi motivi
che spiegano l’eccezione italiana di un welfare tutto di soldi e
pochissimo di servizi. Innanzitutto il peso dell’età e quindi
delle pensioni. Prendendo come riferimento i dati del 2014 di Italia
e Francia, vediamo che il peso delle prestazioni sociali sul Pil è
maggiore Oltralpe: 28,8% contro 32,2%. Se guardiamo alle sole
prestazioni in denaro, l’Italia invece spende di più in rapporto
al prodotto interno lordo: 21,7% contro il 20,5%. Ma è colpa
soprattutto delle pensioni che a Roma valgono il 14,1% del Pil e a
Parigi il 12,9%. In Germania, le pensioni si mangiano “solo” il
9,1%. Questo porta con sé un altro dato: sull’istruzione il nostro
Paese spende il 4% del Pil, terzultimi nel Continente, contro una
media europea del 4,9%.
Ma non c’è solo il
problema delle pensioni. Negli ultimi dieci anno molto ha pesato la
sfiducia nell’intervento pubblico. Dieci anni di inchieste
giornalistiche mirate a puntare il dito sugli sprechi dello Stato e
una politica che risponde a colpi di spending review hanno generato
questi numeri: se nel 2005 la spesa sociale in servizi valeva 116
miliardi (prezzi rivalutati al 2015), oggi ne vale poco meno di 113,
nonostante negli stessi anni la spesa sociale complessiva sia
cresciuta di oltre 40 miliardi.
Nessuno nega che gli
sprechi non fossero reali, ma i tagli spesso hanno buttato via il
bambino insieme all’acqua sporca.
«Si è fatto un gran
parlare, in questi anni, di spending review come fattore positivo e
stabilizzatore dei conti pubblici e i tagli imposti dalla Legge
Delrio sono andati proprio in questa direzione», spiega Gabriella Di
Girolamo, sindacalista della Funzione Pubblica Cisl, «togliendo però
risorse vitali alle Province, un ente di prossimità che, con la
mancata approvazione referendaria della riforma costituzionale, si
ritrova oggi in un limbo, con risorse insufficienti ma con la
funzione costituzionalmente riconosciuta di manutenere le strade,
tutelare l’ambiente e l’edilizia scolastica. Sono almeno dieci,
ad oggi, gli enti in pre-dissesto finanziario. Un discorso analogo
per i Centri per l’Impiego: dovevano essere il perno intorno al
quale rilanciare le politiche attive del lavoro, ma oggi i dipendenti
degli oltre 550 centri si muovono tra carenze di organico, precariato
diffuso e stipendi non erogati».
E poi ci sono le storie
personali, come quella di Linda Lomeo, trentasei anni, tre figli. I
primi due nati, nel 2009 e nel 2013, sono cascati in anni in cui non
erano previsti incentivi o agevolazioni di alcun tipo. La
terzogenita, classe 2017, le è valsa invece il mitico bonus-bebè,
poco meno di 100 euro al mese. Che sono meglio di niente, ma non ci
paghi certo l’asilo nido: «Io poi da questo punto di vista sono a
posto perché faccio parte di una cooperativa che gestisce anche tre
asili. Ma se non fosse così... per la retta, se non c’è posto
negli asili comunali, si spende tra i 500 e i 700 euro al mese,
mentre di fatto il congedo di paternità non esiste, limitato come è
a tre giorni. La logica dei bonus non è sempre negativa: aiuta le
famiglie ad attivarsi autonomamente, a consapevolizzarsi. Quello che
però constato è la mancanza di un pensiero corrispondente da parte
delle istituzioni, come se fornendo un bonus ci si sgravasse da una
corresponsabilità, da una coprogettazione. Lo stesso succede nel
campo dove lavoro, l’assistenza ai disabili».
Bonus in cambio di
voti
Ad aprile il centro studi
della Uil ha fatto il conto di quanto valgono tutti i bonus erogati
negli ultimi tre anni prima dal governo Renzi e poi da quello
Gentiloni: 50 miliardi di euro. Si va dai famigerati 80 euro in busta
paga – atto primo dell’epopea renziana che da solo vale 25
miliardi – al bonus diciottenni, quello per gli insegnanti (anzi
due: merito e aggiornamento), bonus bebè, bonus asilo nido, Student
Act, 80 euro per i militari, esoneri contributivi per le assunzioni,
bonus “Stradivari”, premio alla nascita. È un elenco parziale.
Manca nel conteggio della Uil, solo per fare qualche esempio,
l’iperammortamento per l’industria 4.0, gli interventi per l’Ape,
l’annunciato intervento a favore delle pensioni per i più giovani,
il reddito di inclusione per i più poveri, i bonus ristrutturazione
e risparmio energetico.
È lo Stato dei
sussidiati: un po’ di soldi di qui e un po’ di soldi di là per
rattoppare un sistema che non riesce a garantire le pensioni, che non
genera crescita economica, che non dà servizi all’infanzia e non
fa politiche giovanili. Da una parte lo Stato sociale è stato in
parte smantellato, dall’altra la crisi economica rende impossibile
ad ampie fasce della popolazione fare affidamento ai soli redditi di
mercato.
Il lavoro è stato, in
questo senso, il laboratorio principale. Buttato Keynes nella
cassetta dei ferrivecchi inservibili, il governo Renzi ha optato per
una politica integralmente basata su riduzioni dei vincoli per le
aziende e incentivi. Il piano per gli esoneri contributivi del 2015
che ha portato a un picco di assunzioni a tempo indeterminato è
costato 15 miliardi, la riedizione 2016 4,3. Con la fine degli
incentivi, dato oramai noto, le assunzioni a tempo indeterminato sono
crollate. Ed è ripartito l’assalto alla diligenza: poiché, alla
fine dei conti, quelli che dovevano essere i reali beneficiari di
questa misura, ovvero gli under 30, hanno beneficiato degli aiuti
solo in un terzo dei casi, ora si sta studiando la decontribuzione
mirata sui più giovani. Sul piatto questa volta però ci sono solo
due miliardi. Confindustria – l’appetito vien mangiando – ne
chiede 10.
Ma quanto ci è costato
creare lavoro tramite gli incentivi? In uno studio realizzato insieme
a Fabrizio Patriarca e Marta Fana, l’economista Michele Raitano
calcola che ogni posto di lavoro creato con gli incentivi è costato
allo Stato tra i 25 e i 50 mila euro. Nella stima più bassa, stiamo
comunque parlando del costo annuale di un neo-assunto nella pubblica
amministrazione. Secondo Raitano «gli sgravi occupazionali sono
inefficaci e iniqui. Inefficaci perché, essendo rivolti a tutti, non
concentrano le risorse in quei casi dove è realmente necessario
stimolare la domanda di lavoro. Iniqui perché si traducono in un
trasferimento di risorse dalla fiscalità generale alle aziende.
Ancora una volta, si tolgono soldi al lavoro e si spostano a favore
del profitto». Meglio sarebbe stato investire quei soldi in
politiche industriali, «ma i risultati si sarebbero visti solo nel
tempo mentre qui si guarda al consenso immediato».
La prova, se mai
servisse, è nel dibattito di questi mesi: il Pd dilaniato da chi
chiede interventi per i pensionati, chi vuole concentrarsi sugli
under30. Sempre con un occhio alle urne. La stagione dei bonus, non è
ancora finita. C’è da aspettare, almeno, la fine della campagna
elettorale.
Pagina 99, 8 settembre
2017
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