In un eccellente “alias”
estivo dedicato a viaggi vecchi e nuovi nei siti archeologici e nelle
antiche città del Mediterraneo, recupero questa paginetta su Creta,
che ha fatto riemmergere qualche ricordo perduto e stimolato nuove
curiosità. (S.L.L.)
I delfini di Festo al museo di Heraklion |
La vigilia della mia
visita a Cnosso è una festa di paese, in una fortezza veneziana
diroccata sul mare di Libia, nell’estremo sud dell’isola-gigante.
Ci passo qualche ora, osservando un po’ in disparte i capannelli
dei greci che cuociono carne, e soprattutto le danze. Uomini e donne
si tengono per mano, e muovendosi disegnano un circolo, sospesi fra
la serietà del gesto e un’allegrezza che trattiene qualcosa di
malinconico. Si nutre, questa danza, come di un senso di perdita, un
sentore incerto del tempo profondo da cui viene. Sono le stesse danze
in cui in molti, fino a Karl Kerényi, hanno intravisto per un attimo
l’ultima ombra di Arianna, la Signora del Labirinto cretese («anche
Omero - ricorda il Kerényi di Nel labirinto - dice che
giovani e fanciulle, danzando, “si tenevano per i polsi”»).
Una selvaggia e
spoglia semplicità
Il giorno dopo l’aria
delle cinque del mattino ha allontanato ogni aroma, il vento è fatto
solo di se stesso. Batte potente, fa oscillare la piccola Matiz su
cui mi sposto. Per raggiungere il sito archeologico, partendo dai
dintorni di Chora Sfakion, servono quasi tre ore, si deve risalire
fino alla costa opposta - quella settentrionale, più addomesticata,
lungo cui si snoda la Strada Nazionale - fiancheggiando intanto gole
e paesi, zigzagando fra strade spesso sterrate, su cui si rischiano
le gomme. Le guide turistiche insistono sulla pericolosità delle
strade dell’isola, ma in fondo è anche grazie a queste strade se
molti luoghi, a Creta, restano intatti. Forse solo Creta, con la sua
selvaggia, spoglia semplicità, ha la forza - magari inconsapevole -
di continuare a mettere un bastone fra le ruote dei secoli, di far
aspettare il capitale e il mercato come ospiti di nessun riguardo,
lasciandoli ancora - almeno per un poco - fuori dalla porta. A questo
penso, mentre raggiungo la Nazionale che congiunge l’Ovest all’Est,
fino a Sitià, ma a me basta arrivare a Heraklion, uscire dalla
strada principale e fare un’altra manciata di chilometri fino alla
meta.
L’ultimo tratto è un
susseguirsi di negozi, bancarelle e gru, asfalto e polvere, arbusti,
supermarket dai nomi mitologici – Pasifae, Teseo -, è la prima
periferia di una città mercantile greca. A Creta - specie nel sud,
che ho appena lasciato - si ha spesso la tentazione di pensare alla
Storia come a un’ipotesi pronta a essere abolita, un minuscolo
intervallo nel battere e levare della Natura. I segni del passaggio
degli uomini - anche i più recenti - mostrano tutta intera la loro
provvisorietà. Mentre aspetto di vedere le indicazioni per il
parcheggio, sfilo di fianco a Villa Ariadne. Sir Arthur Evans la fece
costruire nel 1906, sei anni dopo l’inizio degli scavi sul colle di
Képhala, e la scelse come alloggio. La sua ultima visita a Cnosso è
del 1935 - Evans morirà novantenne, nel luglio del ’41. Due mesi
prima, in maggio, un altro mostro infernale, dopo il Minotauro, mette
Creta sotto scacco: l’esercito tedesco lancia l’Operazione Merkur
per la conquista dell’isola. Lontana dal ruolo pensato per lei da
Evans - che nel 1926 l’aveva donata alla British School of
Archeology di Atene - Villa Ariadne è destinata a diventare il
quartier generale delle truppe naziste. Proprio sulla strada che da
Archanes - un villaggio a non più di un quarto d’ora di macchina -
conduce fino a qui, nella primavera del ’44 il generale Heinrich
Kreipe veniva fatto prigioniero da un maggiore inglese nemmeno
trentenne, Patrick Leigh Fermor, che proprio alla Grecia - al Mani
soprattutto, e al continente - avrebbe dedicato, molti anni dopo,
alcune fra le sue più straordinarie pagine di viaggio. Storia
antichissima e storia recente, in questa polvere, sembrano toccarsi.
Il busto in giacca
e cravatta
Acquistato il biglietto
d’ingresso mi fermo al bar, passo oltre il busto di bronzo in cui
Evans è ritratto in giacca e cravatta, comincio disordinatamente la
mia visita. Creta è l’isola del passato, un luogo che mette in
questione il nostro rapporto con esso, rendendone così più chiara
tutta la sua mutevolezza e inafferrabilità. Anche a Cnosso: la più
moderna filologia - mentre non smette di lasciarsi affascinare
dall'enigma del labirinto, emblema del luogo - ha prontamente
condannato l’archeologo inglese e il suo rapporto disinvolto con la
storia. L’accusa è chiara. Sul bianco e nero della pietra - per
esempio quella della sala del trono di Minosse, riportata
letteralmente alla luce il 13 aprile del 1900 - si è abbattuto il
technicolor di Evans: colonne arbitrariamente rivestite di un rosso
acceso, fregi su cui delfini di un blu intenso inseguono pesci più
piccoli, pareti che vedono sporgersi le teste leonine dei grifoni a
custodire il trono - mi chiedo se anche la sedia di gesso sia un
falso. Tutto questo convive con i muretti irrimediabilmente spaccati,
scale originali che aggettano sul vuoto, basamenti divelti. Nel
Megaron della Regina - un’altra delle stanze più importanti dello
scavo - dietro le figure di donne che vorrebbero restituire almeno un
qualche sapore dell’arte minoica, si insinua la traccia dell’art
nouveau, che affiora nelle pennellate di Emile Gilhéron, pittore
svizzero praticamente coetaneo di Evans, che lavorò - ma le guide, a
quanto pare, difficilmente lo raccontano - a integrare i più
importanti affreschi del Palazzo. Ai viaggiatori italiani - peraltro
molto fieri di altri e ben diversi scavi, quelli di Festo, a una
cinquantina di km da Cnosso - il lavoro di Sir Arthur è parso presto
di dubbia tenuta: «colori moderni da cartellone» - scriveva Mario
Praz di questi affreschi rimaneggiati -, pittura degna di «decorare
una nursery». Ma un posto di prima filaria i «nomi esecrandi»
decretava, per Evans, soprattutto il Cesare Brandi del Viaggio
nella Grecia antica, che si inaugura proprio con alcune pagine
cretesi.
La fontana Morosini
Gli appunti di Brandi si
trasformano in una vera e propria invettiva contro Evans, nella
precisa e sacrosanta richiesta, per l’archeologo, di assolvere al
proprio ruolo di conservatore mettendo a frutto la propria competenza
di filologo, senza cedere alla voglia di seduzione - specie se molto
arrischiata, come quella praticata da Evans. Ne rileggo qualche
passaggio, verso la fine della mattinata, lasciato Cnosso e giunto
ormai nel centro di Heraklion, seduto in un brutto bar di tendenza,
non lontano dalla fontana Morosini - altro pezzo di Venezia
trapiantato a Creta, altro tassello di passato scombinato, ora quasi
muto. Non so perché, non riesco ad abbracciare del tutto il pur
giusto sdegno di Brandi. Forse perché si sente in queste sue righe,
al fondo, una fiducia nel rileggere il passato che resta sempre
intera, troppo certa. Preferisco, ai toni di invettiva, lo sguardo
che improvvisamente si getta sul fuori-dalla-storia, il Brandi
distratto dalla potenza della natura primaverile. Lo sguardo che
cattura le «grazie insinuanti di fiori inattesi: prati interi di
anemoni bianchi e spauriti con un capino nero al mezzo, come pierrot
lunari».
Lo si cerchi sotto una
parete mal ridipinta o sotto la nuda pietra battuta dal sole, il
senso del passato, la forma di un’intera civiltà della quale anche
l’alfabeto ci resta per lo più indecifrabile, sembra non smettere
di sfuggirci. Siamo condannati a lasciarlo scivolare via, sempre più
altrove. Guardando una cartolina del disco di Festo - un altro enigma
minoico, conservato nel Museo Archeologico di Heraklion, dove l’ho
appena comprata - mi accorgo intanto che gli anemoni fioriscono anche
sulla sua argilla. Uno sta proprio al centro del disco. Non sappiamo
cosa significhi quel fiore, perno perfetto dei suoi pochi centimetri
di diametro. Lo immagino bianco. Anche gli anemoni trascolorano in
storia, in attesa di rifarsi natura? Sono prima storia o prima
natura? Chissà.
“Alias domenica – il
manifesto”, 6 agosto 2017
Nessun commento:
Posta un commento