È quella che segue una
delle “note da lontano” (da Parigi, immagino) che nel 2007
Rossana Rossanda scrisse per “il manifesto” facendo il verso a
un celebre titolo di Lenin, Lettere da lontano.
Attraverso alcune parole chiave Rossanda, in quelle note, tra storia,
teoria e politica, cercava di intravedere le linee di tendenza
dell'economia e dell'ideologia dominante, cercava di individuare il
“dove andiamo”, generalmente con conclusioni sconfortanti e
pessimistiche. Il più delle volte, tuttavia, come in questo caso, le
previsioni risultavano al di sotto della realtà. (S.L.L.)
La parola è nata
innocente: riformare, restituire la forma a qualcosa che l’ha
perduta. Migliorarla. Senonché raramente la riforme sono state
innocenti. Cambiano più che non restaurino. La Riforma protestante,
quella grande, è stata il maggiore scisma del cristianesimo: Lutero
si proponeva niente di meno che di riportarlo alla purezza originaria
contro la corruzione della chiesa di Roma, la chiesa di Roma lo ha
scomunicato e la lacerazione non si è più chiusa.
In politica «riforma»
ha una vicenda più recente. Il riformismo nasce accanto e con il
movimento operaio europeo sulla constatazione di insufficienza della
libertà politica in presenza della proprietà dei mezzi di
produzione (i «rapporti materiali reali»). Ti dicono che sei libero
mentre gran parte della tua forza e del tuo tempo di vita sono merce
a disposizione di un altro. Gli uomini saranno «liberi e uguali»,
come suonano i principi del 1789, soltanto quando saranno assicurate
le condizioni materiali della libertà. Questa tesi è rimasta
indiscussa a sinistra per oltre un secolo, e non solo in essa: anche
chi pensava che il non essere tutti liberi e uguali ha i suoi
vantaggi, anche un nostalgico dell'ancien régime, ammetteva
che il meccanismo proprietario era alla base dell'inuguaglianza. La
divisione fra i socialisti, dalla Intemazionale in poi, non fu sul
fine, fu sul metodo: come cambiare questo meccanismo?
Nel tumultuoso 1848 Marx
non ha dubbi: occorre un’altra rivoluzione, quella comunista. Sta
maturando, vedrà il proletariato strappare la proprietà ai padroni
e gestirla collettivamente da tutti e per tutti. È qui che il
riformismo obietta: no, una rivoluzione comporta catastrofi, è un
prezzo troppo alto, modifichiamo l’assetto proprietario senza
rivolte, senza sangue, legiferando dentro il contesto politico che
chiamiamo democrazia. Controbiezione dell’ala sinistra, poi
comunista: senza un passaggio di forza, una violenza storica, il
sistema proprietario non si lascerà espropriare. Quella del
riformismo, se non un tradimento, è un’illusione; al meglio un
compromesso che smussa le ingiustizie più patenti del sistema
offrendo al capitalismo una via per sopravvivere.
Il conflitto fra riforme
o rivoluzione si accende alla fine del XIX secolo e percorre tutto il
Novecento. Il 1917 lo esaspera. Tuttavia neanche allora l’ala
riformista e quella rivoluzionaria, pur dividendosi aspramente,
mettono in causa la necessità del cambiamento: la divergenza era sul
«come». Ci vorrà il congresso della Socialdemocrazia tedesca a Bad
Godesberg per dire che no, nessun cambiamento radicale si impone,
Marx aveva torto. I partiti comunisti ulularono, era l’ultima prova
del tradimento socialdemocratico.
Ma occorse la caduta del
Muro di Berlino e poi il dissolvimento dell’Urss perché i
comunisti sparissero. Il riformismo sembra aver vinto su tutto il
continente.
Errore. Colpevole della
comune discendenza anticapitalista, la socialdemocrazia si trova a
essere l’ultimo nemico del liberismo. Poco importa che sia stata
sempre una pallida e reticente cugina del comunismo, la rende
sospetta il dubbio che non consideri ancora la libera impresa come
condizione e fine della democrazia. Pochi anni ed ecco che, se si
trattava di correggere il capitalismo, adesso si tratta di correggere
le riforme del medesimo. Il riformismo tendeva a limitarne gli
spiriti animali, affiancando o sovrapponendo alla sfera economica una
sfera del politico che, in nome dei diritti della persona, si
proponeva fini diversi da quelli della proprietà e tanto più del
profitto? Quegli spiriti animali andavano liberati. Sono il lievito
della crescita e il vero fondamento della democrazia. È il
riformismo che va corretto, e possibilmente liquidato.
Come rovesciamento dei
paradigmi del politico, è di 180 gradi. Ma perché non modificare il
lessico? Se potessi andrei a cercare sui giornali chi ha per la prima
volta usato il termine riforma per dire il suo contrario. Che ci
voleva a cambiare vocabolo? Forse, le sinistre essendo parte
principale della svolta, un poco ci si vergognava: riformare ha un
suono mite e piacevolmente progressista. Tutti ormai aborriscono la
sola idea di rivoluzione, ma a nessuno piace essere chiamato
reazionario. Padoa Schioppa si sorprenderebbe di essere definito il
controriformista.
In verità ce ne è
voluta perché si dichiarasse chiaro e tondo che non si trattava più
di correggere il meccanismo selvaggio del capitale - anche Eugenio
Scalfari aveva temuto il far west - ma le briglie che si era preteso
di mettergli. Nel 1989 Cicchitto e Craxi si erano limitati a evocare
Proudhon contro Marx, l’Assemblea Costituente contro la
Convenzione, il 1789 contro il 1793. Si attestavano su una
piattaforma riformista classica. Poco dopo qualcuno inaugurava una
formula leggiadra: «il mercato» (espressione più amichevole di «il
capitale») andava liberato da «lacci e lacciuoli».
I quali erano
l’intervento pubblico, e (peggio) la proprietà pubblica, come
regolatori della crescita e strumento di governo contro i mali
endemici che la crescita non risolve. Li aveva enunciati nel 1938
lord Beveridge - povertà, malattia, vecchiaia, squallore - e Keynes
elaborava una teoria e una pratica economica che li teneva a bada.
Dopo il 1945, tutta l’Europa fece sua questa filosofia, ed è
divertente che, come ricorda Stiglitz, lo stesso Fondo monetario sia
nato con questi intenti. E la Banca mondiale. Il welfare non fu una
semplice manovra finanziaria né una forma di assistenzialismo,
implicava l’esenzione dei diritti della persona dall’ambito
puramente politico a quello economico-sociale.
Questa esenzione,
presente anche nella Costituzione italiana del 1948, non è stata mai
legiferata con la stessa precisione dei diritti politici (sanzioni
incluse). Ferrajoli ritiene che al limite non possa esserlo mai, pur
essendo i diritti sociali primari invece che secondari, sostanziali
invece che formali. Specie la determinazione di chi potesse accedervi
è rimasta incerta e ha dato luogo a molte zone di arbitrio.
Nondimeno pochi osarono contestarne la necessità, a nazismo e
fascismo appena chiusi, mentre la Commissione sullo sviluppo umano
delle Nazioni unite cominciava a dimostrare che nella crescita
complessiva della ricchezza mondiale, aumentavano smisuratamente le
disuguaglianze. E si affacciava una mondializzazione selvaggia.
Ragion per cui la campagna contro lo stato sociale è iniziata con
circonlocuzioni e ipocrisie. Il primo colpo doveva essere la sua
«oggettiva», cioè contabile, impraticabilità: il welfare
sarà anche una buona intenzione, ma mancano i soldi, anche se
perlopiù ricavati da una tassa sul lavoro dipendente, in parte dai
lavoratori in parte dal datore di lavoro. Essa, di fatto un
prelevamento sui salari, assicurava al lavoro dipendente qualche
garanzia per la vecchiaia, quando si era costretti a uscirne.,
Inoltre, assieme ad altre fonti della fiscalità generale, finanziava
la sanità, l’istruzione ed altri diritti sociali (perfino la casa)
che, come tutti i diritti, dovevano essere non privatistici ma
universali, pubblici.
Non lo erano. La denuncia
che fece più clamore fu quella di D’Alema in polemica con
Cofferati: solo il «maschio adulto e garantito» ne era il sicuro
destinatario. Per cui protestarono vigorosamente le donne e altri
esclusi. Ma la denuncia non portò ad allargare la platea degli
aventi diritto, la restrinse fino a modificarne la natura, da diritto
a merce, che chi poteva doveva acquistare e per chi non poteva
diventava pubblica carità - restando per ora sottinteso che avrebbe
dovuto meritarla, l’ideale sarebbe negare l’assistenza ai
fannulloni. Il più esplicito nel teorizzare questo indirizzo fu il
Libro verde del New Labour, accolto da lodi entusiastiche da
quella parte della popolazione persuasa che delle proprie tasse
beneficiano esclusivamente altri.
Da noi alla
Confìndustria, a Emma Bonino, a Pietro Ichino e via via tutta l’ala
destra dei diesse si è affiancata anche una parte della sinistra più
a sinistra, anche se per ragioni opposte: burocratico e
classificatore, il welfare è un sistema appena travestito di
sorveglianza dello stato sul cittadino. Meglio liquidarlo
corrispondendo l’importo dei suoi costi in un assegno di
cittadinanza uguale per tutti e che ognuno poi si giocherebbe per
conto suo come a Monopoli. Senonché quando i suoi sostenitori
francesi, fra i quali Marc Augé, tentarono un calcolo ne risultò un
dato poco confortante: l’assegno di cittadinanza sarebbe stato un
poco inferiore a metà dello Smic, salario minimo garantito,
disseminato al posto di ogni altra forma di previdenza sull’intero
scacchiere della popolazione, dai ricchissimi ai poverissimi.
L’assegno di cittadinanza è rimasto uno slogan, alimentato dal
condivisibile fastidio per le non disinteressate etiche del lavoro.
Quel che ha ottenuto
l’ideologia dello «stato minimo» e dell’inefficienza o
ingiustizia del welfare è stata, oltre alla fine dell’intervento
pubblico nell’economia, una colossale privatizzazione degli ex
diritti. È impressionante, negli ultimi decenni, il calo della
remunerazione del lavoro rispetto a quella del capitale. Una fonte
non sospetta di estremismo, come Michel Rocard, già segretario del
Psu poi premier con Mitterrand, calcolava qualche giorno fa su “Le
Monde” che la retribuzione del lavoro era scesa, nel bilancio
complessivo delle imprese in Francia, da circa il 30% al 10. Con, in
più, un inedito divaricarsi dei compensi all’interno stesso del
lavoro dipendente fra la grandissima maggioranza dei salariati e una
minuscola élite manageriale, che forma ormai una casta ereditaria
(il direttore delle vendite d’una grande catena di distribuzione è
stato liquidato l’anno scorso con un gruzzolo pari a 3.000 anni di
lavoro d’una cassiera dei suoi supermercati). Anche la tendenza a
ridurre il contratto da collettivo a individuale, si pretende «per
merito», fa parte della privatizzazione del rapporto di lavoro.
Insomma, se il senso
delle riforme era passare da un rapporto puramente contrattuale a un
diritto, il senso delle riforme delle riforme è l’opposto: passare
dal diritto al mero rapporto di forza fra il singolo e una rete
proprietario-manageriale così complessa da essere irraggiungibile.
Lo slogan della Commissione europea, spesso ripreso da Romano Prodi,
competition is competition, si gioca non sulla qualità del
prodotto ma sulla riduzione del suo costo, attraverso la libertà di
dispiegamento dei capitali verso le zone del mondo dove esso è già
da tre a dieci volte più basso e attraverso le riforme - specie
quelle dette (con involontaria ironia) «strutturali», che abbattono
ogni supporto pubblico ai salari. Non occorre cercar lontano o
ravvisare nostalgie sovraniste negli elettori - ceti operai e working
poors - che in Francia e in Olanda, dov’era sottoposto a
referendum, hanno votato no al Trattato costituzionale europeo.
"il manifesto", 27 gennaio 2007
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