Nell'estate del 1989, prima della cosiddetta “caduta del muro di
Berlino” e della “svolta” di Occhetto che portò allo
scioglimento del PCI, una vera e propria campagna contro Togliatti e
l'eredità comunista caratterizzò su “l'Unità” il dibattito
politico all'interno di quel partito: un articolo di Claudia Mancina
per cui il comunismo era “un cumulo di macerie” e poi un saggio
semiufficiale di Biagio De Giovanni.
Il testo che segue è un intervento nella polemica non di un politico
di professione, ma di uno storico, Luciano Canfora, che si occupava
prevalentemente di antichistica ma non rifuggiva da incursioni nella
contemporaneità. Fu pubblicato su “Avvenimenti”, un settimanale
cui aveva dato vita con altri Diego Novelli, giornalista di vaglia,
già sindaco di sinistra a Torino, molto legato a Berlinguer e inviso
ai socialisti di Craxi dei quali aveva denunciato alcune magagne e
alla corrente “migliorista” di Napolitano, filocraxista. Canfora
lascia intendere quale sia la vera posta in gioco di quel dibattito:
non solo e non tanto il Pci e il comunismo, ma l'esistenza in Italia
di una sinistra degna di questo nome.
L'articolo viene pubblicato nei primi giorni d'ottobre del 1989. Poco
più di un mese dopo arriverà la Bolognina. (S.L.L.)
Nenni e Togliatti in treno |
Togliatti con Pompeo Colajanni, Bufalini e Li Causi |
Il primo procedimento
della storia consiste, presa una serie arbitraria di avvenimenti
continui, nell'osservarla separatamente dalle altre, mentre non
esiste né può esistere l'inizio di nessun fatto, ma un fatto deriva
sempre dall'altro senza discontinuità. Il secondo procedimento
consiste nel considerare le azioni di un uomo, re o condottiero, come
la somma delle volontà degli uomini, mentre la somma delle volontà
degli uomini non si esprime mai nell'attività di un solo personaggio
storico. Così Tolstoj, al principio della terza parte del III libro
di "Guerra e pace", commenta gli sforzi poco felici di Napoleone
— nel "Memoriale di Sant'Elena" — di spiegare la propria
sconfitta nella campagna di Russia. È una riflessione che prende le
mosse da un punto di partenza che non è facile deglutire appieno,
con tutte le sue conseguenze: «per la mente umana è inconcepibile
l'assoluta continuità del moto».
Nell'interpretazione
corrente della mezza cultura, questa formulazione può apparire come
la trappola ovvia dello storicismo per cui tutto quello che è stato
ha avuto una ragione per essere (cito da una pretensiosa divagazione
su Togliatti» pubblicata su «l'Unità» lo scorso 20 agosto, in
prima pagina). Lì si legge una strana contorsione concettuale:
«Certo — scrive il saggista scritturato dall'Unità — la storia
e gli uomini vanno capiti, ma attenzione a non cadere nella trappola
ovvia dello storicismo etc., e subito dopo: «Bisogna guardarsi da un
simile atteggiamento. Usiamo invece l'arma della critica, e dove è
necessario il rigetto; e noi (chi?) rigettiamo tutto ciò che è
coinvolto nell'eredità di Stalin, non con spirito difensivo e
rinunciatario ma come atto di responsabilità eticopolitica dovuto a
noi stessi e alla società italiana». Il fine empirico di questa
teoresi del «rigetto» è chiarito subito in apertura: si tratta di
«rigettare» Togliatti profondamente coinvolto nella storia del
comuniSmo nell'età di Stalin; anzi del comunismo tout court: «il
comunismo reale è giunto al termine di una storia e con esso tanta
parte della cultura e dei protagonisti che lo produssero». Togliatti
è dunque sicuramente fra questi, e il giudizio politico (forse
voleva dire «il giudizio storico», strano essendo un giudizio
politico retroattivo) deve fermarsi su questo passaggio essenziale.
Verrebbe voglia di dire: proviamo a tradurre per esempio in inglese
quest'ultima frase, e vediamo che vuol dire.
Non metterebbe conto
tentare di decifrare «il saggio che "l'Unità" ha chiesto
a Biagio De Giovanni» (così veniva definito il carattere per così
dire ufficiale ed «ispirato» del saggio in questione, due giorni
dopo, martedì 22 agosto, pagina 2, sulla stessa «Unità»), se esso
non avesse assolto pienamente alla sua funzione, nonostante la
pioggia di critiche pubblicate nei giorni successivi dallo stesso
giornale del Partito comunista (Foa, Libertini, Magri, Gozzini,
Chiaromonte ecc.). La funzione era di far sapere che noi — cioè,
par di capire, l'attuale gruppo di consiglieri del neo-segretario del
Pci — la pensano così.
La lotta politica, anche
la più spregiudicata, merita la massima considerazione. Ed è ben
noto che la rilettura del passato — gli «argomenti» tratti dalla
storia — fa parte delle frecce nell'arco di ogni politico:
dall'antica Grecia ai nostri giorni. Trovo sempre molto ingenua la
deplorazione che alcuni fanno «dell'impiego della storia a fini
politici». Questo impiego è invece una delle ragioni principali per
cui è nata la storiografia: figuriamoci se c'è da scandalizzarsi
per il fatto che la rilettura «di parte» o «strumentale» del
passato rientra nello scontro politico quotidiano! Il problema è,
piuttosto, del modo in cui lo si fa e dei fini che ci si propone. Un
modo sbagliato è, certamente, quello dell'autofustigazione in vista
di un premio da parte degli avversari: nulla si regala, in politica;
gli avversari non danno premi, al massimo potranno dire con più
forza: dunque avevano ragione! E nello scontro politico è
assolutamente prioritario aver ragione. Ma se si guarda all'indietro
la vicenda storica cercando di distribuire ragioni e torti si
precipita in un ginepraio in cui tutti, prima o poi, hanno avuto una
parte di ragione: Lutero contro la corruzione della chiesa cattolica,
Erasmo contro il fanatismo di Lutero; ed anche Bruto e Cassio contro
Giulio Cesare, sia pure dopo alcuni secoli di vitale durata della
costruzione politico-statale voluta dalla loro vittima. Ma a che
serve — cosa mai significa — «aver ragione» retroattiva in
riferimento al passato storico? Evidentemente nulla.
D'altra parte il politico
sa bene che prima o poi sarà «mangiato», e per ragioni politiche.
Togliatti stesso ha lucidamente valutato che il radicale
ridimensionamento della figura di Stalin era un prezzo politico
necessario quando il ciclo storico dello stalinismo (sopravvissuto
troppo a lungo a se stesso nei difficili anni dell'immediato
dopoguerra) era ormai concluso. E non è casuale che la grande
crescita del Pci come forza politica in Italia si sia avuta proprio
dopo la resa dei conti con lo stalinismo. Poiché la stella polare
del pensiero e della prassi politica di Togliatti è stata la
capacità di cogliere il cambiamento, non v'è dubbio che la
rilettura di Togliatti stesso come personaggio storico e dunque non
come dogma per l'oggi è, se non si riduce ad un vacuo e gratuito
hara-kiri, operazione a sua volta squisitamente togliattiana.
Ma esiste il problema
della comprensione storica e del giudizio storico. Beninteso non in
una prospettiva eterna, che sarebbe pura metafisica. L'osservatore
che, di epoca in epoca, si rivolge al passato per intenderlo, darsene
ragione, vederne lati che le generazioni precedenti non hanno veduto
è sempre il benvenuto: a patto che non assolutizzi se stesso ed il
suo mondo di valori: è infatti egli stesso un oggetto storico
«condizionato». Il suo sforzo dev'essere semmai di calarsi nelle
categorie e nei dilemmi dell'età che intende studiare e comprendere,
giacché per l'operazione opposta — quella che consiste nel
misurare la distanza tra noi e il passato — basta il succedersi
delle mode. In riferimento all'età dell'imperialismo aggressivo e
guerrafondaio dei fascismi sarebbe assolutamente ridicolo dolersi che
il movimento operaio non abbia adottato come proprio architrave
operativo e ideologico la non-violenza. Ma nel mondo venuto dopo
Auschwitz e Hiroshima, e per decenni sull'orlo dell'autodistruzione
nucleare, la pace è passata al primo posto nella lista delle
priorità del movimento operaio: il «discorso di Bergamo» di
Togliatti ne è testimonianza eloquente e duratura.
Proviamo allora a
ragionare sul passato storico, su questo secolo che stiamo per
lasciarci alle spalle, fuori del misero battibecco quotidiano. A
considerarlo nel suo insieme, non è chi non vede uno spartiacque
fondamentale nel terribile conflitto terminato nel 1945: un conflitto
che veniva da molto lontano, il cui primo colpo era stato sparato
probabilmente nell'agosto 1914 e che, nei «vent'anni tra due guerre»
caratterizzati dal dilagare del fascismo soprattutto nei paesi che la
cosiddetta «prima guerra mondiale» aveva penalizzato, ha avuto
soltanto una parentesi foriera di ancora maggiore tempesta. È
un'epoca in cui vengono al pettine tutti i nodi lasciati irrisolti
dal secolo precedente: dalla crisi dello stato liberale all'allarme
dei ceti possidenti per l'avanzata del movimento operaio (cui si
rispondeva pur sempre — da parte dello Stato liberale — con le
cariche dei carabinieri), dal crescente contrasto
inter-imperialistico acuito dalla inarrestabile crescita della
Germania, alla scelta delle borghesie europee di imboccare nel '14 la
strada della carneficina, dalle promesse elargite alla leggera da
quelle stesse borghesie al fine di ottenere un consenso di massa alla
guerra, alla delusione delle promesse disattese, da cui nascono
l'aggressiva inquietudine dei movimenti fascisti e la spaccatura del
movimento operaio.
La rivoluzione russa non
fu un accidente della storia; fu l'epilogo di quella miscela
incendiaria innescata nel '14 dall'incoscienza delle borghesie
d'Europa. Col precipitare degli eventi — accelerato dal dilagare
del fascismo in tutto il continente — la contrapposizione fascismo/
bolscevismo polarizzò di fatto lo scontro per un'intera fase
storica: anche per gli altri movimenti democratici finì con
l'imporsi una scelta di campo tra quei due poli. La grande novità
del nuovo conflitto — dovuta essenzialmente all'entrata in campo
dell'America rooseveltiana — fu la saldatura di un fronte tra
sovietici e alleati occidentali, sorretti e guidati dall'America del
New Deal. Questa spaccatura del vecchio e compatto «cordone»
antisovietico cambiava tutto: l'occidente schiacciava la componente
fascista, che esso stesso aveva generato; l'Urss ed il movimento
comunista entravano in una nuova fase storica, presto però
raggelatasi se non stroncata dalla «guerra fredda». Guerra fredda
di cui viviamo oggi la fine, in un mondo profondamente mutato
rispetto agli equilibri di Yalta.
De Gasperi con Nenni e Togliatti in una riunione di governo |
Attribuire però a Togliatti — o pretendere retroattivamente da lui — una opzione «eterna» in pro della democrazia parlamentare come punto d'arrivo dell'evoluzione umana sarebbe evidentemente idiota: come idiota è pensare che la nottola di Minerva abbia ormai spiccato il suo volo, che cioè questo sistema politico costituisca l'approdo definitivo di quell'incessante sperimentare che è l'esistere politico, che è il funzionamento e l'evolversi delle società. È penoso che sull'eternità di questo modello si chiedano oggi, ai comunisti, giuramenti per il futuro e condanne retroattive: proprio oggi che la crisi del modello, a quasi mezzo secolo dal suo decollo in Italia, è sotto gli occhi di tutti: non già dei nostalgici giaculatori dell'ortodossia marxista-leninista, ma degli osservatori più accorti della stampa liberal-democratica, indipendente ecc. Lo stato democratico — fondato dai costituenti — è diventato un «doppio Stato» controllato dall'intreccio malavita-potentati economici - ceto politico di mestiere. Non so se si possa parlare di degenerazione irreversibile del sistema democratico-parlamentare (come pensa Cazzola sul «Corriere della sera» del 28 agosto) : certo non si tratta del Palladio della democrazia compiuta.
"Avvenimenti", 5 ottobre 1989
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