Solo ai tempi del Profeta
religione e politica si sono davvero fuse nella storia dell’Islam.
Dopo la morte di Maometto, violenti scontri tra diverse fazioni in
cerca di potere erano all’ordine del giorno, e ciascuna fazione
rivendicava la legittimità della propria versione dell’eredità
che il Profeta aveva lasciato. La politica ebbe così la meglio sulla
religione e i militari occuparono spesso posizioni di comando sia
davanti, sia dietro le quinte. L’autocrazia non solo ha continuato
a essere il sistema politico dominante nei Paesi musulmani sin dai
tempi degli Omayyadi e degli Abbasidi, ma la sottomissione dei
chierici all’autocrate è rapidamente diventata una consuetudine
malgrado lo scopo professato dall’Islam sia quello di stabilire un
ordine mondiale giusto e fornire garanzie contro governi dispotici.
Quando l’autocrate riesce a esercitare un controllo completo sui
chierici, il regime politico è relativamente stabile.
Uno stato di crisi invece
emerge quando una sommossa popolare guidata da chierici arrabbiati
mina il regime, si crea una sorta di vuoto politico nel quale i
dignitari religiosi all’improvviso si ritrovano politicamente in
prima linea. Un tale stato può nascere a causa sia di circostanze
esterne avverse, sia di politiche dispotiche quando il controllo
esercitato dall’autocrate sui religiosi non è totale. La
situazione archetipica osservata in numerosi Paesi musulmani sin
dalla seconda guerra mondiale potrebbe quindi definirsi un’autocrazia
instabile. È il risultato di una combinazione di politiche sociali
inique e di una corruzione dilagante dell’élite politica con una
parziale cooptazione dell’élite religiosa che frequentemente
sfocia in una divisione tra chierici ufficiali e chierici
autoproclamati. Ansiosi di preservare i loro privilegi e di evitare
riforme intese a ridurre le disuguaglianze socio-economiche, a
combattere l’alto livello di corruzione e a democratizzare il
regime, i despoti hanno mobilitato l’Islam per rafforzare la loro
legittimità e per giustificare le loro politiche inique. Questa
scelta strategica fa sì che la maggior parte dei dibattiti pubblici
e delle controversie siano inquadrati in termini religiosi. Da un
lato, definendo apostate e nemiche dell’Islam le forze di
opposizione progressiste e secolari, il regime non solo impedisce
qualsiasi dibattito serio riguardo alle proprie politiche, ma
giustifica anche la dura repressione contro tali forze. Dall’altra
parte, l’opposizione, gradualmente privata delle sue componenti
secolari e di sinistra, si ritrova comandata da chierici
autoproclamati che accusano l’autocrate e la sua cricca di
corruzione, cinico opportunismo e comportamento ipocrita.
In molti Paesi, la scena
politica è stata pertanto in larga misura dominata da un lato da
chierici ufficiali che hanno pronunciato fatwe per sostenere la
legittimità religiosa del regime e, dall’altro, da chierici
autoproclamati che hanno pronunciato fatwe contro la cricca regnante,
accusandoli di essere dei miscredenti che trasgrediscono i valori
dell’Islam e che ne travisano il messaggio originale più puro. I
primi si identificano nelle radici profonde della tradizione islamica
che prescrive che, per evitare il caos e il disordine, i musulmani
debbano obbedire al loro sovrano indipendentemente dal suo
dispotismo. L’unica condizione è che costui esteriormente, con
rituali e comportamenti da protocollo, possa essere considerato un
musulmano osservante. Per quanto riguarda la seconda categoria,
questi sono chierici meno importanti, entrati in rivolta contro
l’ufficiale status quo religioso.
Ciò che l’autorità
autocratica quindi scatena è una pericolosa guerra di religione
nella quale sia il regime sia l’opposizione cercano di rivendicare
di essere i portatori più legittimi dei valori e dei principi
dell’Islam. La politica è invasa da discorsi intransigenti, da
anatemi irrazionali e lo scontro assume la forma di una lotta
manichea che può solo portare all’eliminazione del rivale. Nelle
autocrazie instabili si crea dunque un «blocco oscurantistico» il
cui esito è imprevedibile. Potrebbe risultarne una situazione di
caos molto temuto dai chierici ufficiali, un caos che potrebbe
innescarsi a seguito dell’assassinio del despota. Potrebbe poi
seguire una presa del potere politico da parte dell’esercito in
aiuto all’autocrazia o da parte di capi religiosi che, conquistando
la prima linea dell’arena politica, sono determinati a ripristinare
un ordine sociale in nome dell’Islam. Quando il caos predominante
si conclude con un colpo di stato militare, il risultato in generale
(con poche eccezioni di rilievo come il Pakistan) è la nascita di un
regime secolare basato sull’uso della coercizione e della
repressione.
Per capire il motivo per
cui, fin dalla Seconda guerra mondiale, i Paesi musulmani sono stati
caratterizzati da un equilibrio politico-religioso instabile
piuttosto che stabile, dobbiamo fare riferimento al ruolo svolto dal
contesto internazionale. La propagazione di ideologie islamiste è
facilitata dall’abbondante ricchezza di petrolio dell’Arabia
Saudita, dalla Rivoluzione Islamica Iraniana e dalla pronta
disponibilità di tecnologie di comunicazione di massa avanzate.
Inoltre, la popolarità di ideologie che identifichino il popolo
musulmano come vittima e che demonizzino la civiltà occidentale è
stata stimolata dall’ingerenza faziosa di Paesi occidentali
avanzati nei conflitti regionali in Medio Oriente.
La miscela tra la
diffusione delle ideologie islamiste e la pressione a raggiungere lo
stesso livello di sviluppo delle economie occidentali e di altri
paesi emergenti, ha avuto l’effetto di modificare i termini del
trade-off che devono fronteggiare i despoti nei paesi mussulmani.
Diventa infatti sempre più difficile comprare il silenzio dei
chierici, almeno di quelli sensibili all’ingiustizia sociale. Come
risultato, il regime autocratico diventa sempre più instabile.
"Il Sole 24 Ore 15 novembre 2015"
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