Stupisce che
ancora oggi si tenda a guardare la vita di Pasolini attraverso la sua
fine, drammatica e spettacolare quanto si vuole ma certo non voluta,
non cercata e forse nemmeno così «simbolica» come fin dal primo
momento si volle dire. Riferirsi alla vita di Pasolini attraverso
l’imbuto della sua morte rischia di attenuare la portata di quella
che fu la sua vitalità generosa, la sua geniale capacità di donarsi
al suo tempo, finisce per trasformare un episodio di cronaca nera -
per quanto ambiguo ed irrisolto possa essere - in un segno del
destino, in una vocazione esistenziale. Mi sono imbattuto
quest’estate a Graz in una mostra di quadri e disegni di Pasolini
intitolata - con disastroso stravolgimento del titolo di una sua
raccolta di poesie - «Organizzar il trasumanar». In questa mostra
che a quanto mi risulta non verrà in Italia (e ciò mi sembra, a
parte ogni altra considerazione, scandaloso) tutta l’opera di
Pasolini - non solo quella pittorica - sembra doversi inquadrare in
una prospettiva di morte annunciata, ai predestinazione letale, di
fascinosa cognizione dell'esito finale. Contrastano con tutto ciò le
foto pubblicate nel catalogo: Pasolini che gioiosamente ritrae Maria
Callas su una spiaggia, la riproduzione di un quadro con una
conchiglia incollata sopra (Ninetto Davoli dovette impazzire per
trovargliela). Pasolini che usa, al posto dei colori, l’inchiostro,
la terra, la colla, il gesso, il vino. E al posto dei pennelli le
mani e le dita. E lui quasi buttato sul foglio disteso a terra: il
suo corpo ostinatamente vivo gettato nella lotta senza mediazioni.
"l'Unità", 28 ottobre 1995
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