William Butler Yeats (Dublino 1865 - Roquebrun 19399 |
«Ci stiamo preparando,
si spera, al giorno in cui in Irlanda si parlerà gaelico, proprio
come in Galles si parla gallese all'interno dei suoi confini»:così
scriveva Yeats in un articolo non troppo noto del 1899. A restituire
nuova eco a queste parole è ora un libro che si rivelerà tra i più
importanti nei cosiddetti Irish studies per le generazioni a
venire, ovvero the Handbook of the Irish Revival (a cura di
Declan Kiberd e P.J. Mathews, Abbey Theatre Press, pp. 227, e 18,99).
Presentato per la prima volta al pubblico il 22 giugno scorso,
proprio in quell'Abbey Theatre di Dublino che Yeats contribuì a
fondare, include quasi duecento interventi di grandi firme irlandesi
appartenenti agli ambiti più disparati (letteratura, teatro,
politica, sindacalismo), affiancate a nomi meno noti provenienti dal
Revival irlandese.
Per molto tempo concepito
come un fenomeno di matrice protestante e quasi aristocratica, il
Revival è qui declinato dai due curatori, in sintonia con tanti
altri studiosi, in senso più apertamente inclusivo e nazionale,
abbracciando quasi tutti gli scrittori e intellettuali irlandesi del
periodo, senza divisioni settarie o confessionali. Tra queste pagine
Yeats figura con ben sedici contributi: poetici, di critica
letteraria, ma anche di riflessione culturale e politica. Del resto,
l'Irlanda di oggi è, per molti versi, un'invenzione di Yeats, che
non soltanto ne ha reimmaginato il passato, andando a scavare nei
suoi miti, ma ne ha segnato con la sua opera il futuro, e ha
contribuito al suo ruolo politico all'interno del Senato dello Stato
libero.
Yeats è dunque, anche in
una prospettiva internazionale, una figura chiave per la comprensione
del novecento irlandese. Fu in contatto con Pirandello, di cui lesse
molto, quasi tutto. E poi con Pound, Eliot, e innumerevoli altri,
soprattutto dopo avere vinto il nobel per la letteratura, nel 1923.
Gira ancora in Irlanda un aneddoto secondo il quale l'allora
potentissimo direttore dell'“Irish Times”, Robert Smiley, chiamò
Yeats peravvertirlo del Nobel, ma non riuscì a trovare le parole per
l'emozione. Al che il grande poeta gli venne in soccorso: «Per
l'amor del cielo, Smiley, tagli corto, mi dica a quanto ammonta il
premio».
Una importante rassegna
di poesie di W.B.Yeats esce ora da Marsilio a cura di Dario Calimani,
Verso Bisanzio (pp. 249, e17,00): vi figurano componimenti da
ben tredici sue raccolte, le più significative, pubblicate tra il
1889 e l'anno della morte, il 1939. Include gran parte dell'opera
poetica maggiore di Yeats, dalle prime prove della fase mistica e
celticista («Il bimbo rapito», «L'isola sul lago di Innisfree»),
alle poesie più sperimentali del periodo modernista e estetizzante
(«Lapislazzuli», «Bisanzio»), passando per uno stadio più
pronunciatamente politico e legato alle sorti della nazione nascente
(«Settembre 1913», «Pasqua 1916»).
A ben vedere, l'interesse
per l'azione politica percorre, nelle sue varie materializzazioni,
tutta l'opera di Yeats, e lo fa con incredibile apertura critica,
mostrando tuttavia la sua ambivalenza: perché, se da una parte il
poeta aborriva anche la sola vista della violenza, ne restava
affascinato da un punto di vista estetico. Lo spiegava già Giorgio
Melchiori nel suo primo libro inglese, mai tradotto in italiano, The
Whole Mystery of Art, del 1960. Yeats era per natura un
conservatore, ma come il conterraneo Swift - il cui spettro non a
caso infestò la sua tarda produzione poetica e teatrale - potrebbe
essere definito, almeno dal punto di vista caratteriale, un Tory
anarchist; questo nonostante i suoi clamorosi e infelici abbagli,
come la vicinanza al movimento fascista delle camicie blu, o la
fascinazione per il testone di Predappio.
Proprio questa
ambivalenza ereditata dall'altro irlandese suo coetaneo e conoscente,
Oscar Wilde, che si interessava di magia nera e esoterismo quanto di
riforma agraria e di legge di autogoverno, anima costantemente
l'opera di Yeats estendendosi persino alle sue «sistematizzazioni»
teoriche. Basterebbe pensare alle teorie della maschera, del self e
dell'anti-self, oppure alle spirali storiche contrapposte, cui dedica
il suo maggior libro occulto, Una visione, ma anche una nota
poesia, The Gyres, «Le spirali» appunto, inclusa nella
preziosa raccolta di Calimani. Questo perché la sua predilezione per
l'incontro, l'incrocio, l'attrito degli opposti, quasi in sintonia
con la materialista coincidentia oppositorum di Giordano
Bruno, è di per sé un programma politico. Il drammaturgo Brendan
Behan ricorda come, durante la famosa settimana di Pasqua del 1916,
palcoscenico della rivoluzione antiinglese poi soffocata nel sangue,
una vecchietta provò in tutti i modi a convincere Yeats a prendere
le armi. E per poco venne meno quando scoprì, a rivolta finita, che
quello, invece di combattere, aveva scritto una poesia sulla
insurrezione.
Definito nel 1899 da uno
dei padri della rivolta, Patrick Pearse (Pàdraic Anrai Mac Piarais)
un «poeta inglese di terzo o quarto rango», Yeats possedeva la
personalità tipica dei visionari: non a caso, uno dei suoi modelli
era Blake, di cui curò l'opera. Era capace di assorbire ogni stimolo
esterno, culturale o politico, senza pregiudizi. E quegli stimoli
riusciva a tramarli in un sistema di più ampio respiro, storico ed
estetico al tempo stesso, essendo in grado di partire, in maniera
quasi scientifica, dal dato apparente - fosse anche soltanto
un'allucinazione - per poi restituirlo trasfigurato, cristallizzato,
in una cornice di nessi. Ne è testimone il suo forse maggiore
convincimento occulto, quello riguardante l'esistenza di un'anima
mundi, una sorta di memoria eterna, ricettacolo di ogni stimolo,
idea o pensiero mai pensato, percepito o prefigurato da mente umana.
Un debito diretto di quei «registri akasici» di cui parlano e
scrivono tanti sodali di Yeats nelle sette ermetiche di cui ha fatto
parte. Ma sarebbe sbagliato non proiettare tutto ciò su uno sfondo
irlandese. Nonostante in maniera un po' schematica si sia talvolta
inclini a distinguere la sua opera in periodi - dando a intendere che
la prima sua fase, quella celticista e mistica, sia stata poi
superata - Yeats, come Joyce, dall'Irlanda non si distanzia davvero
mai.
Anzi, attraverso
l'attenzione per i fatti politici e i problemi sociali, vi torna
assiduamente, nel ruolo di intellettuale pubblico, di fugura
nazionale. E lo fa anche nelle poesie più eteree, sperimentaliste, e
sfuggenti. Non a caso, nell'accettare il Nobel, uno Yeats quasi
sessantenne decise di declamare, e con una voce che pareva venire
dall'oltretomba, proprio quella sua «Innisfree» composta all'età
di ventitré anni, nel 1888. E pensare che nell'ottobre del 1890
aveva scritto, in una rivista inglese, di provare conforto nel
rendersi conto di come l'Irlanda non avesse ancora incontrato le
nefaste trasformazioni subite dall'Inghilterra a causa del
capitalismo industriale, reo d'aver deprivato la società di mistero
e immaginazione: «Il mondo, credo conservi molto più significato
per un contadino irlandese che per uno inglese; e questo grazie al
popolo di folletti e fate che vivono nelle colline, per i boschi e
sui laghi. Infondono vita ai morti pendii, e circondano gli
agricoltori, intenti ad arare e a scavare, di tenere ombre poetiche».
Tenere ombre poetiche che rendono, di Yeats, quella complessità
rispecchiata nelle tante, diverse, eppure complementari articolazioni
della sua sterminata opera. L'opera di un poeta tardo romantico e poi
modernista, di un eterno innamorato della stessa donna, di un critico
della società, e di un visionario che mai smise di credere in
quell'Irlanda che lui stesso aveva contribuito a forgiare.
“Alias domenica il
manifesto”, 5 luglio 2015
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