Emanuele Coccia, maître
de conférence all’École des Hautes Études en Sciences Sociales
di Parigi, ha tenuto il 16 settembre a Carpi – all’interno del
festival filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo – una lezione
magistrale sulla moda come supplemento del corpo, che venne
pubblicata da “Pagina 99” e che qui riprendo. (S.L.L.)
1936. Amy Johnson, dopo il volo solitario tra Londra e Città del Capo indossa un completo in lana ideato e realizzato per lei da Schiappparelli |
Non è un’arte come
tutte le altre. La moda è la più universale delle arti. È la
natura particolare delle sue opere a renderla così diversa. A
differenza degli oggetti prodotti dalle belle arti tradizionali, gli
abiti non hanno bisogno di rivendicare nessuna autonomia, nessuna
separazione, nessuna indipendenza dall’uso. Non solo li usiamo, ma
li usiamo tutti i giorni, tutto il giorno, fino alla fine dei nostri
giorni. Per questo sono costretti a ritmare il nostro tempo, a
incarnarlo e a dargli forma molto più di qualsiasi altro artefatto
umano. Le arti hanno sempre preteso di produrre oggetti che si
oppongono al tempo e ai suoi capricci, di partorire artefatti più
perenni del bronzo. La moda ha preferito assecondare il tempo in
tutti i suoi eccessi e le sue ubbie, le sue fantasie storiche e i
suoi arbitri climatici, e per questo ne è diventata la più fedele
interprete, fino a farsi l’arte del tempo per eccellenza.
L’abito è il tempo che
si fa carne e aspetto del nostro corpo: non solo la primavera o
l’autunno, ma improvvisamente gli anni ’50 o gli anni ’70
cessano di essere realtà atmosferiche o storiche per farsi attributo
e forma della nostra anatomia. Fu Yves Saint Laurent, all’inizio
dei Settanta, a distruggere per sempre l’idea che la haute
couture e la moda in generale debbano essere il mero strumento di
riproduzione dei gusti e dell’egemonia culturale dell’aristocrazia
o dell’alta borghesia, assegnandole il compito di farsi lo
strumento più raffinato di comprensione e produzione della storia,
dello spirito del tempo.
Quanto si prova a
costruire e trasmettere attraverso una composizione inedita di
scampoli di seta, pelle, lana o cotone non è certo il gusto incerto
di uno stilista, né il desiderio di distinzione individuale o di
classe: è il volto che ciascuno di noi crede di percepire nella
trama spesso incomprensibile degli eventi e delle azioni. Fare (o
indossare) un abito significa cercare di rendere intelligibile il
nostro tempo, fornire strumenti di orientamento in un mondo di cui
nulla e nessuno ormai pretende di conoscere il segreto.
Non è un’arte come
tutte le altre. La moda è la più onnipresente delle arti. Non c’è
bisogno di varcare la soglia di musei, le gallerie o le piazze
pubbliche per farne conoscenza. Il suo luogo è la materia stessa che
ci dà vita e di cui siamo forma: il nostro corpo. I vestiti
aderiscono alla sua pelle, lo seguono in ogni suo gesto, sostengono
ogni suo respiro. Nessun’altra arte può rivendicare questa
prossimità all’umanità, nessun’altra potrà mai disporre dello
stesso potere di liberare o imprigionare uomini e donne. Prima ancora
di manipolare questo giornale o posarvi su questa scrivania, prima
ancora di vedere i colori del paesaggio che vi circonda e gustare gli
odori che vi penetrano, c’è una porzione di mondo di cui siete
appena coscienti che ha rinunciato alla propria forma per seguire la
linea delle gambe e del vostro petto, che si aggrappa ai vostri piedi
e al vostro bacino, come a voler costringere il mondo a diventare la
vostra pelle.
La moda crea il primo
mondo di ciascuno di noi, quello in cui ci immergiamo ogni giorno, e
lo costringe ad adeguarsi ai nostri bisogni, ai nostri sogni, alle
nostre fedi così fragili e arbitrarie. Prima ancora di costruire
case, abbiamo imparato a trasformare le cose nella nostra pelle, a
fare del mondo il nostro stesso volto. Proprio per questo, come
nessun altro oggetto d’arte, gli abiti sono capaci di modificare e
trasformare non solo la nostra identità, il nostro modo di vivere e
d’essere, ma la realtà stessa della Terra. Quanto uno stilista ha
nelle sue mani non è solo uno specchio con cui alimentare il
narcisismo delle masse, ma la tecnica che rende possibile
l’equilibrio tra umanità e mondo.
Non è un’arte come
tutte le altre. La moda è la più sociale delle arti. A differenza
delle opere d’arte tradizionali, gli abiti non sono riservati a
un’élite di connaisseurs. Tutti ne hanno e ne debbono
avere, quale che sia la classe sociale, il ceto, il contesto da cui
provengono o la situazione in cui sono immersi.
Miti antichi raccontano
che, prima ancora di inventare e fabbricare tessuti, l’uomo abbia
ricavato i primissimi vestiti dalla caccia: le vesti erano le spoglie
degli animali uccisi, i mantelli dei viventi di cui l’uomo si era
nutrito o da cui si era difeso. È per questo, forse, che la moda
custodisce da sempre una malcelata crudeltà: indifferentemente dai
tagli e dalle misure che impone al corpo umano, v’è qualcosa di
demonico nei suoi gesti e nelle sue opere. Ed è probabilmente a
causa di questa lontana origine, soprattutto, che tutti gli abiti
sono maschere: vestirsi significa da sempre, alla lettera, mettersi
nella pelle degli altri, incarnarsi in un altro corpo. Solo la
pelle, del resto, può divenire abito: un vestito non è un oggetto
appoggiato casualmente su un corpo, ma materia che aderisce talmente
al corpo fino a diventarne il respiro più intimo. È questa la
lezione dell’opera dello stilista Azzedine Alaïa: la moda non è
forma, non è disegno, è il tessuto che diventa pelle, un pelle a
pelle con il corpo di uomini e donne.
Ciò che chiamiamo
morale, forse, non è che una conseguenza della necessità di
indossare abiti: vestirsi deve significare, ogni volta, la pelle
altrui nel nostro privatissimo, illeggibile, incomunicabile
tatuaggio.
Pagina 99, 15 settembre 2017
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