Nel bordello di Burgos
riservato agli ufficiali tedeschi vi fu, la sera del 26 aprile 1937,
un gran via via. Quasi tutti i quarantatré piloti della Legione
Condor che avevano preso parte all'attacco contro Guernica, vi
andarono infatti a scaricare i nervi. Mancava il loro comandante,
Wolfram von Richthofen, fratello di quel "barone rosso" che
nella Prima guerra mondiale era stato il grande asso della Luftwaffe.
Ma c'erano altri giovani aristocratici, il magro e nervoso "Bubb"
von Moreau, lo spavaldo Hans von Beust, l'elegantissimo Karl von
Knauer, oltre al capo di squadra aerea Klaus Fuchs, e come s' èdetto
la maggior parte degli altri piloti che due ore prima erano rientrati
dall'operazione del pomeriggio. Von Richthofen non frequentava il
bordello, e comunque quella sera era totalmente impegnato nella
stesura del rapporto sul bombardamento. Guernica era stata infatti
un'azione "sperimentale", un test, e a Berlino Goering
attendeva con impazienza di sapere come fosse andata.
Come andò, a Guernica,
quel pomeriggio di quarantanove anni fa? Ne parlo a lungo con alcuni
sopravvissuti nel "Club de jubilados", i pensionati, della
cittadina basca. Come allora, è un pomeriggio di lunedì. Ferve il
mercato settimanale, migliaia di persone sono venute dalle campagne e
dai paesi vicini, i bar sono strapieni. Anastasio, il gerente del
circolo, ci ha sistemati ad un paio di tavolini, me e cinque vecchi
operai. Il fumo dei sigari forma una nube spessa. Beviamo caffè e
anice forte, attorno s'è raccolto un capannello d'altri anziani. Il
racconto della distruzione di Guernica affiora abbastanza ordinato,
abbastanza lucido, malgrado sia trascorso mezzo secolo e le teste dei
testimoni non siano più limpide come un tempo. Lo schema
dell'operazione, quanto meno, risulta chiaro. La gran folla del
giorno di mercato, l'assenza di contraerea; la prima ondata del
bombardamento, mentre i Messerschmitt mitragliavano la folla in fuga;
poi la seconda ondata, e infine le bombe incendiarie. La città
ridotta ad un enorme rogo (la maggior parte delle case di Guernica
era allora in legno), le condutture saltate e quindi nessuna
possibilità di spegnere gli incendi. Milleseicento morti e mille
feriti sulle seimila persone (tra residenti e gente venuta per il
mercato) che si trovavano sul posto. Un ex falegname di 85 anni, Juan
Olaochea, ricorda nitidamente il mitragliamento sulla strada di
Mùgica, dove un fiume di fuggiaschi correva allo scoperto tentando
d'allontanarsi da Guernica. "Gli aerei", racconta, "s'
abbassavano sino a un paio di centinaia di metri dalla strada
sparando senza requie... Hombres, mujeres y nios can como moscas".
Un marmista di 79 anni, Eugenio Torre Alday, ricorda invece l'effetto
delle bombe incendiarie: "Bruciava tutto", continua a
ripetere sorseggiando il suo anice, "bruciava tutto...". La
sola mitragliatrice in città, dice l' impiegato comunale Josè Lopez
de Larrucea, "l'aveva il battaglione Saseta, e la manovrava mio
fratello. Dopo cinque minuti s'inceppò". La guerra di Spagna
durava ormai da nove mesi, e l'intervento straniero s'era fatto sui
due versanti in conflitto (il governo legittimo della Repubblica, il
movimento militar-fascista) sempre più scoperto e massiccio. Da una
parte volavano gli aerei sovietici Natascia 204 e Katuska, dall'altra
i Caproni, i Savoia-Marchetti, gli Heinkel, gli Junkers e gli Stukas
inviati da Mussolini e da Hitler. Sul terreno, le truppe italiane
avevano già partecipato a due grosse battaglie: la presa di Malaga,
e il tentativo d'attacco su Madrid da Guadalajara, risoltosi in una
disfatta clamorosa. Ma Guernica rappresentò l'apice, e il simbolo
più sinistro, della internazionalizzazione del conflitto. Più che
alle necessità tattico-strategiche della guerra spagnola, il
bombardamento sull'antica cittadina basca servì infatti come prova
tecnica della Luftwaffe. A Norimberga, nove anni dopo, Goering lo
disse apertamente. Lo Stato maggiore tedesco aveva inteso provare la
sua aviazione, ma soprattutto studiare gli effetti psicologici del
bombardamento. E, certo, la materia era da studio: perché Guernica
fu il più tremendo attacco di sorpresa contro un obbiettivo indifeso
mai tentato nella storia.
Guernica dopo il bombardamento |
Vero o falso, Juan
Olaochea racconta d'essersi comportato invece con più coraggio:
"Quando lo chiesero a me, chi aveva distrutto la città, io
glielo dissi che erano stati i fascisti. Mi riempirono di botte e
feci quasi due mesi di carcere...". Nella primavera del 37
l'intervento straniero aveva ormai determinato i caratteri più
peculiari, la fisionomia stessa, della guerra civile spagnola. Essa
era divenuta infatti, oltre che lo scontro tra le "due Spagne",
il banco di prova dei rapporti di forza in Europa. L'intervento s'era
prodotto quasi subito, dieci giorni dopo la sollevazione dei generali
ribelli contro la Repubblica. Il 28 luglio Hitler aveva fornito gli
aerei necessari per trasportare dal Marocco a Siviglia duemila uomini
dell'Armata d'Africa, "regulares" marocchini e "banderas"
della Legione straniera, la truppa che sarebbe servita da ferro di
lancia delle prime offensive dei nazionalisti. Con quel "ponte
aereo" (il primo mai tentato, un'innovazione decisiva nelle
tecniche militari del secolo) cominciavano gli esperimenti che tre
eserciti europei, il tedesco, l'italiano e il sovietico, avrebbero
condotto lungo i due anni e mezzo della guerra civile. Qualche giorno
dopo sarebbe stata la volta dell'aviazione italiana, che scortò con
i suoi caccia le navi trasporto a bordo delle quali altri duemila
uomini passarono dal Marocco in Spagna. Intanto giungevano a Madrid
gli uomini di Stalin: Togliatti (in missione speciale, prima di
stabilirsi definitivamente nella capitale spagnola), Jacques Duclos,
Vittorio Vidali, l'ungherese Ern Ger. E quasi subito cominciarono ad
arrivare gruppi di antifascisti italiani e tedeschi dai paesi dove
vivevano in esilio. Alcuni si trovavano già nel luglio, per caso, a
Barcellona, dove le sinistre repubblicane avevano organizzato in
concorrenza con le Olimpiadi di Berlino una "Olimpiade dei
lavoratori". S'arruolarono nelle file della Repubblica, formando
il primo abbozzo delle Brigate internazionali: gli italiani
costituirono il battaglione Sozzi, i tedeschi la centuria Thalmann.
Ma altri ne arrivavano, via Parigi, in continuazione. Verso la fine
d'agosto giunse il gruppo di Giustizia e Libertà che Carlo
Rosselli aveva organizzato a sue spese, e quasi immediatamente fu
inviato sul fronte di Huesca. Teoricamente, le potenze europee
avrebbero dovuto restar fuori dal conflitto. Già nelle prime
settimane della guerra la Gran Bretagna e la Francia (benché questa
avesse ormai un governo di Fronte popolare e un primo ministro, Lèon
Blum, che sulle prime era parso incline a fornire un aiuto militare
alla Repubblica) avevano proposto a Roma e a Berlino un patto di non
intervento. I ministri degli Esteri delle due potenze fasciste, Ciano
e von Neurath, lasciarono trascorrere un po' di tempo durante il
quale prestarono - come s' è visto - un appoggio decisivo alle forze
nazionaliste, quindi accolsero l'idea del patto. Fu così istituito
un Comitato di consultazione e controllo degli accordi di non
intervento, e la sua prima riunione si tenne a Londra, il 9
settembre, in un salone del Foreign Office. Ma tutto si risolse, nei
due anni e mezzo successivi, in un intreccio di doppi giochi.
L'"appeasement" inglese e la debolezza del Fronte
popolare in Francia si trovarono dinanzi l'arroganza, l'euforia dei
vincitori che spirava ormai a Roma e a Berlino, i cui governi erano
decisi a favorire in ogni modo possibile la vittoria dei
militar-fascisti in Spagna. La situazione che scaturì da questa
discrepanza d'atteggiamenti risultò gravemente svantaggiosa - e
forse mortale - per la Repubblica. Le potenze democratiche
osservarono infatti quasi del tutto gli accordi di non intervento,
mentre si faceva sempre più decisivo il sostegno nazi-fascista sul
lato dei "nacionales". A bilanciare il rapporto di forze
tra le due parti in conflitto, fornendo sino all'ultimo aiuti
militari rilevanti, restò così la sola Unione Sovietica.
Ma se da un lato c'erano
gli Stukas e le "Frecce nere" di Mussolini, dall'altra
c'era quella che Andrè Malraux avrebbe chiamato l'"illusione
lirica". Qualcosa che non era mai accaduto nella storia, si
stava infatti verificando con l'ingresso nell'esercito della
Repubblica di decine di migliaia di volontari europei ed americani, e
con l'adesione alla lotta antifascista d'una intera generazione
intellettuale. Madrid assediata divenne uno straordinario punto
d'incontro di scrittori, poeti e giovani idealisti, alcuni col "mono"
(la tuta) delle milizie repubblicane, altri soltanto testimoni degli
eventi, ma testimoni partecipi, appassionati, di quella che per tanto
aspetti si presentava come una partita decisiva tra libertà e
totalitarismo.
1937, Combattenti repubblicani in Spagna - Dietro, con gli occhiali, si riconosce E. Hemingway |
Andrè Malraux era stato
uno dei primi ad arrivare, l' 8 agosto, con una ventina d' aerei
Potez-540 acquistati in Francia per conto del governo spagnolo. Il
suo quartier generale, prima che la squadriglia venisse trasferita ad
Albacete, era appunto l' hotel "Florida". Lo scrittore già
famoso s'era improvvisato un abbigliamento di tipo militare,
trasferendovi lo "chic" particolarissimo, insieme
trasandato ed avvertito, che Malraux aveva quando vestiva panni
borghesi. Il berretto a visiera con i gradi di colonnello, un
giubbotto di camoscio sui pantaloni di "tweed", la cravatta
in tinta, un lungo soprabito di pelle nera. "L'hotel "Florida""
- annotava Pietro Nenni - "è una specie di Torre di Babele. Vi
abitano gli aviatori di Malraux, i giornalisti, gli ospiti d'onore
del governo, e la banda d'avventurieri che non manca mai agli
appuntamenti con la guerra o con la rivoluzione. Magro, il bel volto
tutto intelligenza, Malraux si prodiga senza risparmio, da vero
combattente...". "Il suo prestigio", scrisse più
tardi Georges Soria, che si trovava a Madrid come corrispondente de
l'"Humanitè", "era immenso. Quando entrava al
"Florida" tutti gli si facevano incontro, specie le volte
che tornava da una delle folli missioni aeree alle quali partecipava
da mitragliere. La semplicità con cui dimostrava la sua dedizione,
il suo impegno politico era pari soltanto alla sua ignoranza di cose
militari".
La sera, poi, s' usciva.
"L'Alcalà, la Puerta del Sol" - è ancora Nenni che scrive
- "sono animate sino alle tre del mattino. I caffè
affollatissimi. Vado a volte in un ristorante basco con Malraux e sua
moglie, con Rafael e Teresa Alberti, con Soria, il russo Koltzov, l'intellettuale cattolico Bergamìn, Corpus Barga eccetera. Si
commentano appassionatamente i fatti del giorno, ci sentiamo tutti
come archi tesi da un arciere invisibile e tuttavia presente: la
Rivoluzione...". "La sera", mi racconta Enrique
Lister, il comandante del Quinto Regimiento, "proprio quando si
cominciava a tirare il fiato dopo la giornata di lavoro, al mio
quartier generale arrivava Hemingway. Cercava notizie ma anche vino,
e per prima cosa dovevo mandare a prendere un paio di bottiglie di
Rioja...".
Dell'hotel "Florida"
non rimane più niente. Ma la sua leggenda resiste, e infatti ogni
volta che in questi trent'anni m'è capitato di passare dalla plaza
Callao, dove si trovava, non ho mai potuto fare a meno di gettare uno
sguardo verso il grande magazzino che ne ha preso il posto. Il
"Florida" non era propriamente, a parte l'atmosfera, un
luogo di piaceri. Gli ascensori smisero di funzionare nel primo mese
della guerra, durante la battaglia del Jarama mancò l'acqua per
molti giorni, e il paio di prostitute che vi erano ammesse (una certa
Carmen, ex campionessa di lotta femminile, e una marocchina di nome
Fatima) facevano da informatrici per l'ambasciata sovietica.
Rafael Alberti aggiunge
che era anche un posto pericoloso. Nei giorni della prima offensiva
su Madrid, nel novembre ' 36, il "Florida" s'era trovato
esposto al fuoco che veniva dall'artiglieria franchista situata tra
il Manzanarre e la Città universitaria. Alberti mi racconta che in
quell'occasione Ernest Hemingway trattò col direttore dell'albergo
un cambio di camera. Lo scrittore ne aveva una sul retro
dell'edificio, di quelle che adesso - col cannone dei franchisti così
vicino - erano più richieste, e propose di cambiarla con una sul
davanti purché gli venisse data a metà prezzo. L'aneddoto è vero,
o si tratta d'una delle mille dicerie che nacquero con gli anni
attorno al famoso romanziere americano, cui persino un testimone
smaliziato ha finito col credere? Non lo so. Alberti insiste, in ogni
caso, sulla vicinanza dell'albergo al fronte, e racconta che una
mattina di quel novembre vide improvvisamente una pattuglia di
marocchini che avanzava circospetta sulla Gran via.
Fu in questa prima
battaglia di Madrid che entrarono in azione alla Città universitaria
le Brigate internazionali. L'idea delle Brigate era venuta a Maurice
Thorez, segretario del partito comunista francese. Thorez l'aveva
esposta a Mosca verso la fine di settembre, e Georgy Dimitrov -
segretario generale del Comintern - ne era stato entusiasta. Così
tutti i responsabili del Comintern vennero subito mobilitati attorno
al progetto, da Togliatti a Josìp Broz Tito, e un mese dopo le
Brigate internazionali erano una realtà. Venne aperto un ufficio di
reclutamento a Parigi, e il primo contingente di cinquecento uomini
arrivò in Spagna, il 14 ottobre, col treno 77 partito il giorno
prima dalla Gare d' Austerlitz. Mi diceva l'altro giorno Santiago
Carrillo: "Lei non può immaginare che cosa significò veder
sfilare le prime Brigate, centinaia, migliaia di volontari venuti a
combattere per la libertà della Spagna. Sfilavano cantando
l'Internazionale e la Giovane guardia, la folla scandiva il motto
della resistenza al fascismo - No pasaràn -, l' entusiasmo
era enorme. Ora so che si discute molto su quello che fu il loro
effettivo apporto militare nella guerra, se importante o marginale.
Intanto non bisognerebbe dimenticare che molti dei volontari avevano
combattuto nella prima guerra mondiale, dalla quale gli spagnoli
erano invece restati fuori, e che questo rappresentava un capitale
d'esperienze nient'affatto trascurabile. Ma il vero apporto, di
significato vastissimo, fu quello morale, psicologico. Il segno che
la causa della Repubblica era sostenuta da tutti i democratici in
Europa e in America...".
Spagna 1937 - Brigatisti internazionali a Guadalajara |
Beninteso, resta una
grande differenza tra chi combatté dal lato della Repubblica e chi
lo fece nelle file di Francisco Franco. Una grande differenza tra gli
italiani che, da una parte e dall'altra, si spararono addosso nei
dintorni di Palacio Ibarra. Sono venuto a trascorrere una giornata in
queste campagne della Nuova Castiglia tra Guadalajara e Alcalà de
Henares, dove nel febbraio 37 si svolse - in piena guerra civile
spagnola - una furiosa battaglia tra italiani. La battaglia detta di
Guadalajara, il massimo tracollo dell'intervento mussoliniano (che fu
assai più teatrale, più ideologico di quello dei nazisti) nella
tragedia spagnola. La rotta di Guadalajara nacque dalle impazienze di
Mussolini e di Ciano, infastiditi dalle esitazioni di Franco (che
intanto era divenuto il capo del governo nazionalista) e convinti che
Madrid dovesse essere conquistata subito. Ne parlo con Lister, che al
comando del settore centrale della battaglia fu il vero stratega
delle forze repubblicane, e al quale Antonio Machado dedicò dopo
Guadalajara quei suoi celebri versi: "Valesse questa penna il
tuo revolver/di capitano, contento morirei...". Il comandante
del Quinto Regimiento non è più il bell'uomo d'allora,
naturalmente, e il suo cervello di stalinista non ha conosciuto col
tempo il minimo ripensamento, alcuna evoluzione. Ma il volto del
vecchio conserva un certo magnetismo, dalla gola a pieghe come quella
d' un "bull-dog" gli esce ancora una voce possente. "Sì,
Guadalajara fu una smargiassata italiana. In gennaio le Camicie nere
avevano avuto un ruolo importante nella presa di Malaga da parte dei
' nacionales' , e a quel punto Mussolini pensò di poter entrare
anche a Madrid. Per conto mio ho sempre pensato che gli italiani
volessero umiliare i loro alleati spagnoli facendogli vedere come si
doveva combattere. E i nazionalisti, d'altra parte, furono
segretamente contenti della disfatta italiana. Il mio nome, dato che
comandavo il grosso delle forze repubblicane, diventò popolare anche
nei settori più franchisti della Spagna occupata...".
L'offensiva del generale
Roatta ebbe inizio l'8 marzo, e dovette essere assai mal preparata se
è vero - come scrive John Coverdale in un suo libro di dieci anni
fa, Italian intervention in the Spanish civil war - che il
comando italiano aveva come sola mappa dei luoghi una carta stradale
Michelin a scala 1:400.000. Curvandosi su un foglio di carta bianca
(il vecchio, adesso, è patetico: quante volte deve aver fatto questo
stesso gesto nei decenni dell'esilio), Lister dice che le forze
italiane ammontavano a ventimila uomini. In realtà dovevano essere
di più, attorno ai trentamila, con le Fiamme nere del generale
Coppi, la divisione Littorio del generale Bergonzoli, le Frecce nere
del generale Nuvolari, le Camice nere al comando del generale Rossi.
Alla vigilia dell'offensiva, Roatta aveva trasmesso ai comandi
l'ordine del giorno 3.002 ("Preparazione morale") con cui
suggeriva di suscitare negli uomini "uno stato d' esaltazione":
"Non dimenticate che qui, in terra straniera, noi rappresentiamo
l' Italia fascista...". "Le nostre difese", racconta
Lister, "erano esigue, e gli italiani sfondarono subito. Il 9 e
il 10 ripresero ad avanzare entrando a Trijueque e a Brihueha, mentre
noi facevamo affluire i rinforzi. C'era un tempo infernale, il
peggiore che mi ricordi nelle varie battaglie della guerra, pioggia,
freddo, nevischio. Il primo colpo all'avanzata italiana lo dettero
gli aviatori sovietici, che malgrado il cattivo tempo riuscirono a
decollare da Barajas. Il 12 operammo una serie di contrattacchi: io a
cavallo della strada d'Aragona, gli altri - il Campesino, gli
italiani della Garibaldi e i carri armati del generale Pavlov - in
altri settori. Per qualche giorno la battaglia ristagnò, e infine,
il 18 marzo, passammo all' offensiva. La sera i fascisti erano in
fuga...".
Sono venuto a vedere,
come dicevo, i luoghi della battaglia. I paesi (Torija, Brihueha,
Trijueque) dove ancora si levano i castelli dei mori, la campagna
verdissima - così rara nella nuova Castiglia -, le masserie dove si
svolsero alcuni combattimenti decisivi. Palacio Ibarra, per esempio,
dove per gli italiani schierati dalle due parti si svolse l'episodio
più carico di significati. La mattina del 12 marzo il battaglione
Garibaldi della XII Brigata internazionale circondò una villa
fortificata con davanti un paio di casali contadini, che stava al
centro d'un latifondo di milleduecento ettari appartenente ai
marchesi Ibarra. Negli edifici della masseria c'erano le Fiamme nere
del generale Coppi. Lì - ha scritto Hugh Thomas - "gli italiani
combatterono una guerra civile per proprio conto". E in effetti,
parecchi anni prima dell'inizio della guerra partigiana, era la prima
volta che fascisti e antifascisti si trovavano di fronte in
formazione di battaglia. Tra gli assedianti, sotto gli alberi
imbiancati dalla neve, c'erano Luigi Longo, Vittorio Vidali e Pietro
Nenni, che comandava una compagnia. Il comandante e il commissario
politico della XII Brigata erano due intellettuali, due scrittori:
l'ungherese Mata Zalka, che in Spagna si faceva chiamare generale
Lukacs, e il tedesco Gustav Regler. Il combattimento durò accanito
per varie ore, sinché ci fu luce, tanto che ancor oggi si vedono due
casali diroccati. Poi, scesa l'oscurità, i "garibaldini"
misero in funzione gli altoparlanti. "Fratelli italiani",
gridavano Vittorio Vidali e Luigi Longo, "unitevi a noi. Gli
uomini del battaglione Garibaldi vi accoglieranno come compagni...".
Oppure facevano parlare i prigionieri catturati nei giorni
precedenti: "Venite con i garibaldini! Noi siamo stati trattati
come fratelli... Tutte le storie dei 'banditi rossi' sono una
menzogna". C' era un certo nervosismo tra le file degli
assedianti. I volontari polacchi volevano assaltare la masseria, e si
rivolsero a Gustav Regler: "Ma cosa siamo, l'Esercito della
Salvezza? Se davvero quelli lì vogliono disertare non devono far
altro che sparare in bocca agli ufficiali...". Ma Regler dette
ragione a Longo, e in effetti durante la notte qualche decina di
Fiamme nere saltò i muri di cinta della masseria e si arrese.
L'attacco finale si svolse due giorni dopo e i "garibaldini"
presero Palacio Ibarra. Ci furono molti morti, una parte delle enormi
perdite che l'esercito mussoliniano avrebbe subito nel corso di tutta
la battaglia: duemila morti e quattromila feriti.
A Brihueha incontro un
uomo molto simpatico, don Enrique Riasa Sais, veterinario e
bibliotecario della cittadina. I "nacionales" gli
fucilarono il padre nel ' 36 a Guadalajara, e lui è restato per
tutta la vita antifranchista. Racconta: "Quando i repubblicani
riconquistarono Brihueha, una pattuglia di anarchici iniziò la
solita caccia al prete. Ma inutilmente: qui i preti erano già stati
fatti fuori nelle prime settimane della guerra...".
“la Repubblica”, 8
giugno 1986
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