30.10.17

Aurangzeb, l'imperatore bigotto che distrusse l'India (Federico Rampini)


NEW DELHI
L'imperatore indiano Aurangzeb era alla vigilia dei novant'anni quando si spense a Delhi tre secoli fa. La figura di Aurangzeb rimase per qualche tempo avvolta in un velo di mistero per una singolare decisione dello stesso sovrano. Fu l'unico Gran Moghol a diramare un editto che proibiva di scrivere la storia, di tenere resoconti degli eventi sotto il suo regno. Quasi avesse il presagio che il giudizio dei posteri sarebbe stato duro con lui. Secondo una leggenda, sul letto di morte nel 1707 fu assalito dal pentimento, ordinò agli eredi di capovolgere le sue politiche e tornare a quelle dei suoi predecessori. Forse nell'agonia vide scorrere davanti agli occhi il bilancio di mezzo secolo al potere: il tesoro dinastico dissanguato in lunghe e inutili guerre; l'odio religioso che serpeggiava tra i sudditi minando la coesione dell'impero; la nefasta influenza che lui stesso aveva concesso agli ulema islamici incompetenti nell'amministrazione pubblica.
Il fatale indebolimento dell'impero Moghol non tardò a manifestarsi. Passarono poche settimane e l'India precipitò in un vortice di guerre fratricide. «Aurangzeb», scriveva nel 1880 il grande studioso dell' India James Talboys Wheeler, «fu l' ultimo dei Moghol che giocò un ruolo importante nella storia. Esaurì le risorse dell' impero inseguendo un solo disegno: spodestare le divinità indù ed estendere la presa del Corano su tutto il paese. Il grande Akbar, all'apogeo della dinastia, aveva unificato l'impero grazie alla sua tolleranza verso tutte le razze. Aurangzeb ne distrusse le fondamenta attraverso la persecuzione. Quando morì, la disintegrazione era cominciata. Entro cinquant'anni dalla sua morte la sovranità dei Moghol era ormai un'apparenza priva di contenuto».
L'impronta di Aurangzeb è cruciale per capire le tensioni che ancora oggi turbano la convivenza tra le due maggiori religioni dell'India, indù e musulmani. La sua storia smentisce una teoria che ebbe una certa presa tra i progressisti del movimento anticoloniale e poi durante la sanguinosa partizione fra India e Pakistan: l'idea che l' odio tra indù e musulmani sia stato acceso prevalentemente dagli inglesi per servire la loro strategia del "divide et impera", e quindi che la diffidenza tra le due comunità sia un letale residuo della dominazione britannica. In realtà le radici della discordia sono molto più antiche, risalgono alle origini stesse dell'espansione maomettana dalla Penisola arabica e hanno toccato le due punte estreme proprio sotto i Moghol: la massima armonia e l'odio più implacabile.
L'Islam arriva in India fin dal primo secolo dell'Egira, il periodo che si apre con la fuga di Maometto nell' anno 622 dopo Cristo. La nuova religione viene diffusa dai mercanti lungo la Via della Seta, poi dal 711 con i raid di generali arabi che puntano verso il Rajasthan. Da quel momento l'India è costantemente sotto l'attacco dei popoli di religione islamica. Ma per molto tempo le invasioni non agiscono in profondità nell' antico tessuto della società indiana. Talboys Wheeler riassume così i primi otto secoli di incursioni: «Arabi, turchi, afgani potevano saccheggiare i templi e distruggere gli idoli, ma non riuscirono a schiacciare i vecchi culti mitologici degli indù. I regni venivano creati con la spada e mantenuti con la spada; mancava quella coesione tra i dominatori musulmani e la popolazione induista che avrebbe dovuto garantire un' influenza permanente».
È solo l' imperatore Akbar, al potere dal 1556 al 1605, a imporre una ricetta originale che cambia segno alle relazioni con gli indù. Akbar è un lontano discendente del conquistatore mongolo Tamerlano. Pur essendo musulmano ripudia sia la jihad (guerra santa) sia la legge coranica, mette radici nella classe dirigente indiana attraverso matrimoni con donne di stirpi locali, abolisce il concetto della religione di Stato, introduce principi non solo di tolleranza e dialogo ma perfino di eguaglianza tra le fedi, che rimangono eccezionali nell' intera storia dell' umanità. Akbar emargina il ceto ecclesiastico degli ulema, promuove dignitari indù ai massimi livelli dell' amministrazione, sopprime ogni veto religioso contro le belle arti. Abroga il calendario islamico sostituendolo con quello di Zoroastro, di origine persiana, perché meglio si adatta a misurare il ritmo delle stagioni e dei monsoni per l'agricoltura indiana. Ai regni di Akbar succedono quello di Jahangir e poi di Shah Jahan, che fa edificare il Taj Mahal ad Agra. Nel 1658 tra i figli di Shah Jahan s'impone come successore Aurangzeb, al termine di una lotta feroce in cui uccide i tre fratelli e rinchiude il padre nella fortezza di Agra fino alla fine dei suoi giorni (pena che verrà "abbreviata" da un avvelenamento). è l'avvio della grande restaurazione, la svolta settaria che demolisce il capolavoro politico-culturale di Akbar. Aurangzeb si professa sunnita di stretta osservanza e il suo obiettivo esplicito è estirpare l' idolatria, imporre il Corano come unica fede. Ha inizio mezzo secolo di intolleranza bigotta destinato a lasciare cicatrici profonde nell'anima dell'India. Tra i primi editti di Aurangzeb c'è il divieto del vino - pena il taglio di una mano o di un piede per i praticanti musulmani -, un proibizionismo a cui gli esperti fanno risalire la vasta diffusione del bhang, stupefacente a base di canapa indiana e altre erbe, che a quei tempi crea una tossicodipendenza di massa non meno deleteria dell' alcolismo. Subito dopo viene l' editto contro i baffi (secondo Aurangzeb impediscono di pronunciare correttamente il nome di Allah), mirato contro la minoranza persiana i cui uomini vengono braccati per le vie delle città da squadre di "tagliatori". Ben presto la musica e la danza cadono sotto i divieti di Aurangzeb, deciso a stroncare la tradizione delle sacre devadasis, raffinate ballerine, sacerdotesse e poetesse che praticano anche la prostituzione. La sua furia non risparmia i musulmani sciiti né i sufi dediti a una versione mistica dell' Islam radicata da tempo in India. Solo le minoranze cristiane godono di un trattamento un po' meno repressivo, hanno il permesso di bere vino entro le mura di casa e questa indulgenza sembra avere una spiegazione personale: Aurangzeb è innamorato di una cristiana originaria della Georgia, la bella Udipuri, e la favorita del suo harem ha un debole per il vino. L'escalation del fanatismo conosce una sola parentesi di pausa. Accade nel 1664 perché l'imperatore si ammala di un morbo misterioso. è prostrato dalla debolezza, spesso in stato di incoscienza. La sorella Royshan Rai Begum ne approfitta per un golpe di palazzo, durante la malattia di Aurangzeb si autonomina l'interprete della sua volontà, sequestra il fratello nella sua camera mettendogli a guardia un contingente di soldatesse tartare che impedisce a chiunque di avvicinarsi. Sull'origine della potenza di Royshan Rai Begum fioriscono i retroscena raccontati dagli eunuchi di corte: la sorella di Aurangzeb è considerata la vera padrona dell' harem imperiale, nel quale avrebbe varie amanti, a conferma che gli amori lesbici sono diffusi nei serragli delle concubine. Ma il Gran Moghol si riprende e il regno del terrore ricomincia. Dal 1680 al 1707 l'India viene gettata nelle sue "guerre di religione", una serie di campagne militari con cui Aurangzeb cerca di piegare i residui principati induisti, le stirpi rajput e marathi. Risale a questo periodo la più massiccia opera di distruzione di templi indù e pagode, la cacciata in esilio degli yogi, il divieto delle feste religiose locali, il licenziamento dalla burocrazia imperiale di chi rifiuta la conversione all'Islam. La misura più impopolare, che cancella ogni consenso verso il sovrano Moghul, è il ripristino della famigerata jezya, la "tassa sugli infedeli", un'imposta che era stata prelevata dai primi conquistatori musulmani ma abolita da Akbar. Le manifestazioni di protesta vengono schiacciate nel sangue dalle truppe di Aurangzeb con i blindati antisommossa del suo tempo: divisioni di elefanti. Tra gli oltraggi che si tramandano figura un episodio celebre nella guerra tra l' imperatore e il principe rajput Rana. Aurangzeb subisce una disfatta, al comando delle sue truppe cade in un' imboscata tesa da Rana. Il principe rajput sceglie la clemenza, salva la vita dell' imperatore e lascia che torni a Delhi con i suoi soldati, chiedendogli un gesto di rispetto: i musulmani nella loro ritirata risparmino le mandrie di vacche sacre. Aurangzeb in segno di spregio per quella che considera solo una debolezza del nemico dà ordine ai soldati di sventrare tutte le mucche che incontrano sulla via del ritorno. Lo scontro militare non piega però le resistenze rajput e marathi, né restaura la potenza Moghol. «Aurangzeb», scrive Talboys Wheeler, «nascose la sua decadenza agli occhi del popolo con una esibizione di lusso e magnificenza che sarebbero state ricordate per generazioni. Si spostava tra l' Hindustan e il Deccan con lo splendore e la scenografia di un Dario di Persia. Il ricordo della sua grandiosità durò più a lungo della dissoluzione dell' impero. I tumulti e le rivolte minarono la vitalità del regime, lo resero facile preda degli invasori stranieri». Gli inglesi infatti si sono affacciati in India fin dal 24 agosto 1600, data dello sbarco a nord di Bombay del primo galeone mercantile inviato dalla East India Trading Company, la società privata a cui la regina Elisabetta I ha dato in appalto i commerci con questa parte del mondo. Ma all' epoca del primo contatto fra i britannici e la dinastia Moghol l' impero indiano è al massimo del suo sviluppo, una superpotenza in confronto alla quale l' Inghilterra è una nana. Un secolo dopo i rapporti di forze sono cambiati. Grazie alle divisioni create da Aurangzeb già sul finire del Seicento un direttore della East India, Josia Child, intuisce il dissolvimento della potenza
Moghol, suggerisce che gli inglesi superino la loro presenza puramente mercantile nei porti di Bombay, Calcutta e Madras e trasformino l'immenso Paese in un protettorato. La disgregazione che segue la morte di Aurangzeb apre varchi agli inglesi, pronti ad approfittare di tutte le rivalità locali e a soffiare sul fuoco dell' odio fra indù e musulmani. L' ultimo atto nella storia degli eredi di Tamerlano ha un protagonista patetico, centocinquant' anni dopo la morte di Aurangzeb, quando ormai gli inglesi controllano gran parte dell' India. La rivolta dei soldati indiani, i sepoys, che divampa nel maggio 1857, è in cerca di un leader e in mancanza di meglio lo designa nell' ultimo discendente dei Moghul, l' ottantunenne Shah Zafar II, un re-fantoccio privo di poteri che conduce una placida esistenza nel Forte Rosso di Delhi scrivendo poesie e maneggiando aquiloni colorati con i suoi nipotini. Zafar obbedisce a un istinto regale, accetta l'investitura a capo della ribellione. Sembra ricordare la lezione dei suoi antenati, l'apoteosi della civiltà indiana con Akbar e la rovina sotto Aurangzeb. Nei pochi mesi in cui è leader dei rivoltosi, l' ultimo dei Moghol respinge le richieste dei musulmani più fanatici e contro gli inglesi riesce a mantenere unito un fronte composito di indù e islamici. Un'intuizione giunta troppo tardi. Nel settembre 1857 vince la controffensiva e scatta la feroce repressione britannica. Dopo una barbara strage degli abitanti di Delhi gli inglesi catturano re Zafar e lo esiliano in un loro territorio coloniale, la Birmania. Morirà nell' oblio. Per rivedere l'ecumenismo e la benefica tolleranza di Akbar bisognerà aspettare ancora quasi un secolo, fino all'avvento di Gandhi.


“la Repubblica”, 22 aprile 2007  

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