NEW DELHI
L'imperatore indiano
Aurangzeb era alla vigilia dei novant'anni quando si spense a Delhi
tre secoli fa. La figura di Aurangzeb rimase per qualche tempo
avvolta in un velo di mistero per una singolare decisione dello
stesso sovrano. Fu l'unico Gran Moghol a diramare un editto che
proibiva di scrivere la storia, di tenere resoconti degli eventi
sotto il suo regno. Quasi avesse il presagio che il giudizio dei
posteri sarebbe stato duro con lui. Secondo una leggenda, sul letto
di morte nel 1707 fu assalito dal pentimento, ordinò agli eredi di
capovolgere le sue politiche e tornare a quelle dei suoi
predecessori. Forse nell'agonia vide scorrere davanti agli occhi il
bilancio di mezzo secolo al potere: il tesoro dinastico dissanguato
in lunghe e inutili guerre; l'odio religioso che serpeggiava tra i
sudditi minando la coesione dell'impero; la nefasta influenza che lui
stesso aveva concesso agli ulema islamici incompetenti
nell'amministrazione pubblica.
Il fatale indebolimento
dell'impero Moghol non tardò a manifestarsi. Passarono poche
settimane e l'India precipitò in un vortice di guerre fratricide.
«Aurangzeb», scriveva nel 1880 il grande studioso dell' India James
Talboys Wheeler, «fu l' ultimo dei Moghol che giocò un ruolo
importante nella storia. Esaurì le risorse dell' impero inseguendo
un solo disegno: spodestare le divinità indù ed estendere la presa
del Corano su tutto il paese. Il grande Akbar, all'apogeo della
dinastia, aveva unificato l'impero grazie alla sua tolleranza verso
tutte le razze. Aurangzeb ne distrusse le fondamenta attraverso la
persecuzione. Quando morì, la disintegrazione era cominciata. Entro
cinquant'anni dalla sua morte la sovranità dei Moghol era ormai
un'apparenza priva di contenuto».
L'impronta di Aurangzeb è
cruciale per capire le tensioni che ancora oggi turbano la convivenza
tra le due maggiori religioni dell'India, indù e musulmani. La sua
storia smentisce una teoria che ebbe una certa presa tra i
progressisti del movimento anticoloniale e poi durante la sanguinosa
partizione fra India e Pakistan: l'idea che l' odio tra indù e
musulmani sia stato acceso prevalentemente dagli inglesi per servire
la loro strategia del "divide et impera", e quindi che la
diffidenza tra le due comunità sia un letale residuo della
dominazione britannica. In realtà le radici della discordia sono
molto più antiche, risalgono alle origini stesse dell'espansione
maomettana dalla Penisola arabica e hanno toccato le due punte
estreme proprio sotto i Moghol: la massima armonia e l'odio più
implacabile.
L'Islam arriva in India
fin dal primo secolo dell'Egira, il periodo che si apre con la fuga
di Maometto nell' anno 622 dopo Cristo. La nuova religione viene
diffusa dai mercanti lungo la Via della Seta, poi dal 711 con i raid
di generali arabi che puntano verso il Rajasthan. Da quel momento
l'India è costantemente sotto l'attacco dei popoli di religione
islamica. Ma per molto tempo le invasioni non agiscono in profondità
nell' antico tessuto della società indiana. Talboys Wheeler riassume
così i primi otto secoli di incursioni: «Arabi, turchi, afgani
potevano saccheggiare i templi e distruggere gli idoli, ma non
riuscirono a schiacciare i vecchi culti mitologici degli indù. I
regni venivano creati con la spada e mantenuti con la spada; mancava
quella coesione tra i dominatori musulmani e la popolazione induista
che avrebbe dovuto garantire un' influenza permanente».
È solo l' imperatore
Akbar, al potere dal 1556 al 1605, a imporre una ricetta originale
che cambia segno alle relazioni con gli indù. Akbar è un lontano
discendente del conquistatore mongolo Tamerlano. Pur essendo
musulmano ripudia sia la jihad (guerra santa) sia la legge
coranica, mette radici nella classe dirigente indiana attraverso
matrimoni con donne di stirpi locali, abolisce il concetto della
religione di Stato, introduce principi non solo di tolleranza e
dialogo ma perfino di eguaglianza tra le fedi, che rimangono
eccezionali nell' intera storia dell' umanità. Akbar emargina il
ceto ecclesiastico degli ulema, promuove dignitari indù ai massimi
livelli dell' amministrazione, sopprime ogni veto religioso contro le
belle arti. Abroga il calendario islamico sostituendolo con quello di
Zoroastro, di origine persiana, perché meglio si adatta a misurare
il ritmo delle stagioni e dei monsoni per l'agricoltura indiana. Ai
regni di Akbar succedono quello di Jahangir e poi di Shah Jahan, che
fa edificare il Taj Mahal ad Agra. Nel 1658 tra i figli di Shah Jahan
s'impone come successore Aurangzeb, al termine di una lotta feroce in
cui uccide i tre fratelli e rinchiude il padre nella fortezza di Agra
fino alla fine dei suoi giorni (pena che verrà "abbreviata"
da un avvelenamento). è l'avvio della grande restaurazione, la
svolta settaria che demolisce il capolavoro politico-culturale di
Akbar. Aurangzeb si professa sunnita di stretta osservanza e il suo
obiettivo esplicito è estirpare l' idolatria, imporre il Corano come
unica fede. Ha inizio mezzo secolo di intolleranza bigotta destinato
a lasciare cicatrici profonde nell'anima dell'India. Tra i primi
editti di Aurangzeb c'è il divieto del vino - pena il taglio di una
mano o di un piede per i praticanti musulmani -, un proibizionismo a
cui gli esperti fanno risalire la vasta diffusione del bhang,
stupefacente a base di canapa indiana e altre erbe, che a quei tempi
crea una tossicodipendenza di massa non meno deleteria dell'
alcolismo. Subito dopo viene l' editto contro i baffi (secondo
Aurangzeb impediscono di pronunciare correttamente il nome di Allah),
mirato contro la minoranza persiana i cui uomini vengono braccati per
le vie delle città da squadre di "tagliatori". Ben presto
la musica e la danza cadono sotto i divieti di Aurangzeb, deciso a
stroncare la tradizione delle sacre devadasis, raffinate ballerine,
sacerdotesse e poetesse che praticano anche la prostituzione. La sua
furia non risparmia i musulmani sciiti né i sufi dediti a una
versione mistica dell' Islam radicata da tempo in India. Solo le
minoranze cristiane godono di un trattamento un po' meno repressivo,
hanno il permesso di bere vino entro le mura di casa e questa
indulgenza sembra avere una spiegazione personale: Aurangzeb è
innamorato di una cristiana originaria della Georgia, la bella
Udipuri, e la favorita del suo harem ha un debole per il vino.
L'escalation del fanatismo conosce una sola parentesi di pausa.
Accade nel 1664 perché l'imperatore si ammala di un morbo
misterioso. è prostrato dalla debolezza, spesso in stato di
incoscienza. La sorella Royshan Rai Begum ne approfitta per un golpe
di palazzo, durante la malattia di Aurangzeb si autonomina
l'interprete della sua volontà, sequestra il fratello nella sua
camera mettendogli a guardia un contingente di soldatesse tartare che
impedisce a chiunque di avvicinarsi. Sull'origine della potenza di
Royshan Rai Begum fioriscono i retroscena raccontati dagli eunuchi di
corte: la sorella di Aurangzeb è considerata la vera padrona dell'
harem imperiale, nel quale avrebbe varie amanti, a conferma che gli
amori lesbici sono diffusi nei serragli delle concubine. Ma il Gran
Moghol si riprende e il regno del terrore ricomincia. Dal 1680 al
1707 l'India viene gettata nelle sue "guerre di religione",
una serie di campagne militari con cui Aurangzeb cerca di piegare i
residui principati induisti, le stirpi rajput e marathi. Risale a
questo periodo la più massiccia opera di distruzione di templi indù
e pagode, la cacciata in esilio degli yogi, il divieto delle feste
religiose locali, il licenziamento dalla burocrazia imperiale di chi
rifiuta la conversione all'Islam. La misura più impopolare, che
cancella ogni consenso verso il sovrano Moghul, è il ripristino
della famigerata jezya, la "tassa sugli infedeli",
un'imposta che era stata prelevata dai primi conquistatori musulmani
ma abolita da Akbar. Le manifestazioni di protesta vengono
schiacciate nel sangue dalle truppe di Aurangzeb con i blindati
antisommossa del suo tempo: divisioni di elefanti. Tra gli oltraggi
che si tramandano figura un episodio celebre nella guerra tra l'
imperatore e il principe rajput Rana. Aurangzeb subisce una disfatta,
al comando delle sue truppe cade in un' imboscata tesa da Rana. Il
principe rajput sceglie la clemenza, salva la vita dell' imperatore e
lascia che torni a Delhi con i suoi soldati, chiedendogli un gesto di
rispetto: i musulmani nella loro ritirata risparmino le mandrie di
vacche sacre. Aurangzeb in segno di spregio per quella che considera
solo una debolezza del nemico dà ordine ai soldati di sventrare
tutte le mucche che incontrano sulla via del ritorno. Lo scontro
militare non piega però le resistenze rajput e marathi, né restaura
la potenza Moghol. «Aurangzeb», scrive Talboys Wheeler, «nascose
la sua decadenza agli occhi del popolo con una esibizione di lusso e
magnificenza che sarebbero state ricordate per generazioni. Si
spostava tra l' Hindustan e il Deccan con lo splendore e la
scenografia di un Dario di Persia. Il ricordo della sua grandiosità
durò più a lungo della dissoluzione dell' impero. I tumulti e le
rivolte minarono la vitalità del regime, lo resero facile preda
degli invasori stranieri». Gli inglesi infatti si sono affacciati in
India fin dal 24 agosto 1600, data dello sbarco a nord di Bombay del
primo galeone mercantile inviato dalla East India Trading Company, la
società privata a cui la regina Elisabetta I ha dato in appalto i
commerci con questa parte del mondo. Ma all' epoca del primo contatto
fra i britannici e la dinastia Moghol l' impero indiano è al massimo
del suo sviluppo, una superpotenza in confronto alla quale l'
Inghilterra è una nana. Un secolo dopo i rapporti di forze sono
cambiati. Grazie alle divisioni create da Aurangzeb già sul finire
del Seicento un direttore della East India, Josia Child, intuisce il
dissolvimento della potenza
Moghol, suggerisce che
gli inglesi superino la loro presenza puramente mercantile nei porti
di Bombay, Calcutta e Madras e trasformino l'immenso Paese in un
protettorato. La disgregazione che segue la morte di Aurangzeb apre
varchi agli inglesi, pronti ad approfittare di tutte le rivalità
locali e a soffiare sul fuoco dell' odio fra indù e musulmani. L'
ultimo atto nella storia degli eredi di Tamerlano ha un protagonista
patetico, centocinquant' anni dopo la morte di Aurangzeb, quando
ormai gli inglesi controllano gran parte dell' India. La rivolta dei
soldati indiani, i sepoys, che divampa nel maggio 1857, è in cerca
di un leader e in mancanza di meglio lo designa nell' ultimo
discendente dei Moghul, l' ottantunenne Shah Zafar II, un
re-fantoccio privo di poteri che conduce una placida esistenza nel
Forte Rosso di Delhi scrivendo poesie e maneggiando aquiloni colorati
con i suoi nipotini. Zafar obbedisce a un istinto regale, accetta
l'investitura a capo della ribellione. Sembra ricordare la lezione
dei suoi antenati, l'apoteosi della civiltà indiana con Akbar e la
rovina sotto Aurangzeb. Nei pochi mesi in cui è leader dei
rivoltosi, l' ultimo dei Moghol respinge le richieste dei musulmani
più fanatici e contro gli inglesi riesce a mantenere unito un fronte
composito di indù e islamici. Un'intuizione giunta troppo tardi. Nel
settembre 1857 vince la controffensiva e scatta la feroce repressione
britannica. Dopo una barbara strage degli abitanti di Delhi gli
inglesi catturano re Zafar e lo esiliano in un loro territorio
coloniale, la Birmania. Morirà nell' oblio. Per rivedere
l'ecumenismo e la benefica tolleranza di Akbar bisognerà aspettare
ancora quasi un secolo, fino all'avvento di Gandhi.
“la Repubblica”, 22
aprile 2007
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