Castiglione di Sicilia, Panorama, 2007 |
In quell’estate del 43,
densa di mosche, di sofferenze, di morti, gli abitanti di Castiglione
di Sicilia spiavano con occhi ansiosi i due accampamenti italiani e
tedeschi impiantati alla periferia del paese. A Passo Pisciaro, già
il nome pareva un programma, il generale Guzzoni, responsabile della
6a armata, aveva trasferito da Enna a metà luglio il proprio
comando; a Picciolo Rovittello, dove oggi sorge un campo da golf, il
generale Hube, a capo del XIV corpo d’armata, si era installato
nella villa all’interno del noccioleto. Ai pochi compaesani, che
frequentavano i due accampamenti per vendere uova, latte, verdure,
frutta, conigli selvatici, quelli di Castiglione rivolgevano di
continuo la solita domanda: se ne vanno?
A fine luglio le scarne
notizie, che viaggiavano a dorso di mulo, avevano raccontato che gli
americani di Patton si erano già insediati a Palermo, mentre giù
nella piana di Catania l’8a armata di Montgomery non riusciva a
sfondare la linea del Simeto. Attorno a questo fiumiciattolo
compassato e sinuoso i paracadutisti tedeschi della Prima divisione e
un pugno di raccogliticci reparti del regio esercito facevano muro da
giorni. Nei notiziari di radio Londra era entrato di prepotenza il
fosso Buttaceto, la trincea più avanzata da dove gli arditi del
maggior Nino Bolla uscivano la notte per temerarie incursioni. Anche
a Castiglione, via di transito fra Catania e Messina, sapevano che
era una semplice questione di giorni, che tedeschi e italiani stavano
sul punto di ritirarsi, che sarebbero giunti gli inglesi e la guerra
avrebbe finalmente avuto termine. L'istinto però suggeriva di non
fidarsi: malgrado i piccoli baratti, i crucchi incutevano paura.
Il loro generale,
infatti, non amava l'alleato con le pezze al culo. Hans Valentine
Hube era considerato uno dei più brillanti strateghi delle truppe
corazzate. Nonostante l'età avanzata, sprizzava energia: soleva far
seguire i propri ragionamenti da vigorosi pugni sul tavolo tirati con
l'unico braccio rimastogli. A Stalingrado gli era stata affidata la
guida dei 70 residui carri armati incaricati di rompere
l'accerchiamento. Dopo il no di Hitler alla sortita, Paulus, il
comandante in capo dell'armata inchiodata, aveva confidato nel suo
ascendente sul Führer per convincerlo a predisporre la ritirata.
Recatosi a Rastenburg per ricevere una decorazione, Hube era
rientrato dentro la sacca con l'ordine perentorio di Hitler: nessuno
si muova in attesa della spedizione di salvataggio. I rinforzi non
erano giunti, era invece giunta la disposizione di mandare via Hube
con uno degli ultimi aerei alzatosi in volo da Stalingrado. Sfuggito
in gennaio all'inferno, il 15 luglio Hube aveva assunto la
responsabilità del XIV corpo d'armata in Sicilia. Da subito aveva
preso a esautorare Guzzoni e i suoi collaboratori. La sera del 1°
agosto aveva invitato a cena in villa il collega italiano e il capo
di stato maggiore, Faldella. A Guzzoni l'invito puzzava e aveva
piazzato attorno al noccioleto un battaglione di guastatori pronto a
intervenire. In effetti si trattava di una trappola. In quelle ore
Kesserling avrebbe dovuto occupare Roma e arrestare la famiglia
reale. Al termine di estenuanti discussioni il maresciallo aveva però
convinto Hitler a soprassedere e anche Hube era stato costretto a
comportarsi allo stesso modo con gli ospiti. Aveva tuttavia ordinato
a Guzzoni di non trasportare oltre lo Stretto l'armamento pesante e i
veicoli: una precauzione in vista del futuro scontro già previsto
dai vertici della Wehrmacht.
Il 10 agosto Hube e i
reparti del quartier generale s'avviarono verso Messina:
l'evacuazione della Sicilia era fissata per il 16. L'11 un cingolato
e quaranta granatieri entrarono a Castiglione: dovevano prendere
prigionieri più civili possibile. Quanti tentarono di sottrarsi
vennero abbattuti dalla mitraglia. Alcune donne accorse a difendere
figli e mariti furono buttate giù dai balconi. In meno di un'ora una
ventina di persone giacevano uccise sul selciato. Nino Lomonaco,
attento custode di questa memoria, ricorda, però, che un soldato non
denunciò un poveraccio nascosto nel soffitto e un altro mostrò la
medaglietta del battesimo e ripetè diverse volte «cattolic»,
«cattolic» alle madri e figlie terrorizzate. Poi si accontentò di
un bicchier d'acqua e uscì.
Nella stalla comunale
furono rinchiusi oltre 300 uomini. I tedeschi annunciarono che
sarebbero stati fucilati. Ma il parroco, padre Giosuè Russo,
coadiuvato da suor Amelia Casini avviò una drammatica trattativa con
gli ufficiali. L'esecuzione era stata annunciata per la mattina del
13. Trascorsero quarantott'ore di spaventosa tensione. All'alba del
13 i tedeschi abbandonarono Castiglione. Mai si è saputo se sia
intervenuto un ordine superiore o il timore di essere raggiunti dalle
avanguardie di Montgomery. I 300 erano salvi, ma delle 20 vittime
della prima strage nazista in Italia, quando eravamo ancora alleati,
nessuno si sarebbe più curato. Meno ancora dei responsabili.
“La Stampa”, 7 agosto
2007
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