20.10.17

Sergio Endrigo, l'apolide di Pola (Luciano Del Sette)

Sergio Endrigo con Roberto Carlos, dopo la vittoria al Festival di Sanremo 1968
Il senso di non appartenenza al mondo, Sergio Endrigo se l’è sentito addosso fin da ragazzino. Pola, quando nasce nel 1933, appartiene all’Italia, ma poi, mentre lui legge ancora Salgari, diventa Jugoslavia. È il 1947, qualche anno prima Sergio aveva cantato sui tavoli dell’osteria di Bepi, tra gli operai, in cambio di qualche lira. Intonava La donna è mobile, difficile da credere pensando alla sua voce sottile e sussurrata. Compra una chitarra, strumento principe dei vagabondi, vendendo la sua collezione di francobolli. E con la chitarra parte per Brindisi, profugo istriano in un collegio da cui verrà espulso per aver rifiutato di svolgere un tema di italiano per lui troppo retorico. Da Brindisi a Venezia, dove la madre è andata a vivere. E un altro rifiuto, quello di entrare alle poste e sistemarsi. Da Venezia al Canada per fare il boscaiolo rimane un sogno, non ha il fisico.
E allora si arrangia con mille mestieri, canticchiando e sperando che qualcuno afferri la sua voce. Succede. Comincia una lunga gavetta nei night, fino all’azzardo di un contratto con la Ricordi e delle prime canzoni firmate Endrigo. «C’è gente che ama mille cose/ E si perde per le strade del mondo/ Io che amo solo te/ Io mi fermerò e ti regalerò/ Quel che resta della mia gioventù». È il 1962, l’etichetta sul disco adesso è Rca, la canzone, quella più celebre di Sergio è Io che amo solo te. Sarà questo brano a portarlo in giro per il pianeta, e, nello stesso anno, a scoprire Pantelleria, che diverrà il suo buen retiro. Qui, nel 1988, con le musiche di Rocco De Rosa, scriverà un album, Il giardino di Giovanni, dal titolo di uno dei brani.
Lo starsystem italiano ha ormai messo in disparte un uomo che rifiuta le rimpatriate televisive e patetiche con i capelli tinti alla Little Tony e Bobby Solo. Non vuole farlo, Sergio. Lui che fra Teresa e Mani bucate, aveva scelto per i suoi dischi i testi di Vinicius De Moraes, José Marti, Rafael Alberti, Gianni Rodari. Lui che aveva scritto Anch’io ti ricorderò per Ernesto Che Guevara. Lui che aveva vinto Sanremo nel 1968, anno cruciale, con l’amore di Canzone per te, sfoggiando la sua non appartenenza al Festival in una cravatta e un completo elegantemente sgualciti. Nel 2004, un anno prima di morire, consegna a Stampa Alternativa un romanzo sull’industria della musica, Quanto mi dai se mi sparo? «I personaggi di questa storia sono reali, salvo quelli che rifiutano o hanno dimenticato di esserlo», dice la copertina.
Poi Sergio, ma solo in apparenza, toglie il disturbo.


“alias – il manifesto”, 25 giugno 2010

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