Sergio Endrigo con Roberto Carlos, dopo la vittoria al Festival di Sanremo 1968 |
Il senso di non
appartenenza al mondo, Sergio Endrigo se l’è sentito addosso fin
da ragazzino. Pola, quando nasce nel 1933, appartiene all’Italia,
ma poi, mentre lui legge ancora Salgari, diventa Jugoslavia. È il
1947, qualche anno prima Sergio aveva cantato sui tavoli dell’osteria
di Bepi, tra gli operai, in cambio di qualche lira. Intonava La
donna è mobile, difficile da credere pensando alla sua voce
sottile e sussurrata. Compra una chitarra, strumento principe dei
vagabondi, vendendo la sua collezione di francobolli. E con la
chitarra parte per Brindisi, profugo istriano in un collegio da cui
verrà espulso per aver rifiutato di svolgere un tema di italiano per
lui troppo retorico. Da Brindisi a Venezia, dove la madre è andata a
vivere. E un altro rifiuto, quello di entrare alle poste e
sistemarsi. Da Venezia al Canada per fare il boscaiolo rimane un
sogno, non ha il fisico.
E allora si arrangia con
mille mestieri, canticchiando e sperando che qualcuno afferri la sua
voce. Succede. Comincia una lunga gavetta nei night, fino all’azzardo
di un contratto con la Ricordi e delle prime canzoni firmate Endrigo.
«C’è gente che ama mille cose/ E si perde per le strade del
mondo/ Io che amo solo te/ Io mi fermerò e ti regalerò/ Quel che
resta della mia gioventù». È il 1962, l’etichetta sul disco
adesso è Rca, la canzone, quella più celebre di Sergio è Io che
amo solo te. Sarà questo brano a portarlo in giro per il
pianeta, e, nello stesso anno, a scoprire Pantelleria, che diverrà
il suo buen retiro. Qui, nel 1988, con le musiche di Rocco De Rosa,
scriverà un album, Il giardino di Giovanni, dal titolo di uno
dei brani.
Lo starsystem italiano ha
ormai messo in disparte un uomo che rifiuta le rimpatriate televisive
e patetiche con i capelli tinti alla Little Tony e Bobby Solo. Non
vuole farlo, Sergio. Lui che fra Teresa e Mani bucate,
aveva scelto per i suoi dischi i testi di Vinicius De Moraes, José
Marti, Rafael Alberti, Gianni Rodari. Lui che aveva scritto Anch’io
ti ricorderò per Ernesto Che Guevara. Lui che aveva vinto
Sanremo nel 1968, anno cruciale, con l’amore di Canzone per te,
sfoggiando la sua non appartenenza al Festival in una cravatta e un
completo elegantemente sgualciti. Nel 2004, un anno prima di morire,
consegna a Stampa Alternativa un romanzo sull’industria della
musica, Quanto mi dai se mi sparo? «I personaggi di questa
storia sono reali, salvo quelli che rifiutano o hanno dimenticato di
esserlo», dice la copertina.
Poi Sergio, ma solo in
apparenza, toglie il disturbo.
“alias – il
manifesto”, 25 giugno 2010
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