Ammetto subito le mie
colpe: appartengo a una generazione cresciuta con il calcio da
immaginare (grazie alle radiocronache), ho fatto tanta televisione
puntando, soprattutto, sul “racconto”, tra un libro e un
programma televisivo preferisco, di gran lunga, il primo. Ho scritto
(e scrivo) molto di pallone: navigando, di preferenza, sulle onde
adulte della memoria e riportando sul prato verde (che fu l’inizio,
per noi ragazzi, di una nuova avventura dopo Mompracem) gli eroi
tragici, i campioni memorabili e, per riabbracciare Osvaldo Soriano,
«i perdenti vestiti di sogno». Sono letteratura le gambe storte di
Mané Garrincha, i dribbling poetici di Gigi Meroni, il sinistro
omerico di Gigi Riva, la rovesciata proletaria di Anastasi, ma anche
l’urlo di Tardelli, l’innocenza di Scirea e, su tutto e tutti, il
romanzo popolare di Diego Armando Maradona: un cronista, in un
pomeriggio di temporale, a Soccavo, dove si allenava il Napoli di
tutti i sogni possibili, giura di aver visto Dieguito, uno-due-tre,
palleggiare una goccia d’acqua. Qui il mito supera ogni confine,
allontanando ogni Itaca.
Nel tempo, il narrare di
football – in special modo in televisione – è cambiato. Jorge
Luis Borges sentenziò, in epoca non sospetta: «Il calcio comincia a
essere una menzogna ben raccontata dai mezzi di comunicazione». Più
che menzogna, sicuramente una rappresentazione, spesso, surreale,
dove il vedere tutto, con mille telecamere, annulla e mortifica la
fantasia. Il prodotto televisivo deve essere venduto, a qualsiasi
costo e a tutti i costi: dalla finale di Champions League alla noiosa
amichevole estiva; signore e signori, ecco lo Spettacolo: dove ogni
partita diventa “formidabile”, “fenomenale”, “fantastica”.
Siamo all’epica senza epica. Il rito domenicale è stato sostituito
dal match quotidiano, a qualsiasi ora, pranzo, pomeriggio, cena, un
frullatore di immagini, di emozioni che si consumano in un attimo
perché è già tempo di pensare al prossimo match. Si è spenta, da
tempo, la domanda di Marc Augé: «Possiamo, ad esempio, amare il
calcio, guardare la televisione e renderci conto del fatto che, per
la prima volta nella storia dell'umanità, a intervalli regolari e ad
orari fissi, milioni di individui si siedono davanti al loro altare
domestico per assistere e, nel vero senso della parola, partecipare
alla celebrazione di un medesimo rituale?» (Football. Il calcio
come fenomeno religioso, traduzione dal francese di Eleonora
Montagner, EDB, 2016).
Oggi siamo sommersi dagli
eventi, dalle voci e dalle seconde voci (così inutili e ripetitive,
talvolta), dalle discussioni, dal calciomercato giornaliero ovvero la
grande fiera del poco o del niente, molti giocatori comunicano
soltanto attraverso i social o i procuratori, si sono trasformati in
un brand, per i giovani cronisti è diventato difficile intervistare,
a tu per tu, i protagonisti, gli allenamenti sono a porte chiuse, le
stanze degli spogliatoi blindate, entra soltanto chi possiede i
diritti in esclusiva. Ai tempi miei, l’unico “filtro” per un
giocatore era rappresentato dalla segreteria telefonica, parlavi con
chi volevi, ricordo un’intervista con Paolo Rossi (reduce dai fasti
del mundial spagnolo dell’82), fatta con il collega e amico Marco
Bernardini, per un’emittente privata torinese alla mostra di
Calder: mezz’ora a discutere di tutto meno che di calcio. Zero
lire, appuntamento preso direttamente con Pablito senza passare
dall’ufficio stampa o marketing. Era un calcio di “vicinanza” e
non di “lontananza”. Leo Junior suonò il pandeiro (una
specie di tamburello) per noi, parlammo con Causio al circo e con
Tacconi a teatro.
Conoscevi i giocatori
nella loro vita privata, fuori dalle luci della ribalta, oltre la
gloria, in taluni casi effimera, della partita. Dominava, sui
giornali e in tv, il racconto. E in Spagna, a celebrare Enzo Bearzot
e gli azzurri capitanati da Dino Zoff, c’erano, in tribuna stampa,
Giovanni Arpino, Mario Soldati, Oreste del Buono e il “principe
della zolla” Gianni Brera. E tu, debuttante bracconiere di storie,
crescevi all’ombra di quei giganti.
Certo, non bisogna
(soltanto) demonizzare il football moderno: mio figlio Santiago, dal
Piemonte, può seguire, gara dopo gara, la sua squadra del cuore, che
è il Cagliari e io, a volte, ho la possibilità di vedere in diretta
il Palmeiras, la società di San Paolo del Brasile fondata da
emigranti italiani nel 1914 e da me amata nella mia infanzia
paulistana. E nei varchi delle dirette, nelle feritoie dei bar sport
ecco il miracolo di una narrazione d’autore (vedi Federico Buffa su
Sky). Troppo poco, però.Serve un maggior
raccontare, servono più inchieste, un ritorno alla poetica, a un
“come eravamo” senza retorica o enfasi. Soprattutto recuperare
l’epifania del pallone: i prati di periferia, dove – poco lontano
– passa il treno, gli allenatori di provincia, i migranti che
inseguono sogni e palloni, gli aspiranti apprendisti campioni e gli
imberbi arbitri che, malgrado tutto, non mollano. E capire cosa
spinge tanti, troppi genitori a diventare gli “agenti” dei figli,
trasformando un piacere in un incubo. Mi disse, una volta, Giovanni
Lodetti, che fu scudiero di Gianni Rivera in un Milan
intercontinentale: «Sai, ho intenzione di mettere su una scuola
calcio. Tre campi e un cinema», «Perché un cinema, Giovanni?»,
«Semplice, per mandarci padri e madri quando i loro figlioli giocano
o si allenano».
Non esiste soltanto
Neymar, che abita su un altro pianeta: ci sono vicende che sanno di
sport e di vita intorno a noi, basta sapersi fermare e guardarsi
attorno. Riprendere per mano la magia letteraria del pallone. Una
favola che appassionò scrittori e poeti. Camus giocò in porta in
Algeria e Nabokov a Cambridge, faceva il portiere anche Che Guevara e
Pier Paolo Pasolini fu una superba ala destra, come Antonio Tabucchi.
Gabriel García Márquez si appassionò alle vicende
dell’irresistibile e stravagante attaccante brasiliano Heleno.
Jorge Amado scrisse una favola per bambini con protagonista il
portierino Go-gol. Beppe Fenoglio e Giorgio Bocca giocarono contro in
una amichevole nelle Langhe. E Socrates, il filosofo dal colpo di
tacco “che la palla chiese a Dio”, mi chiese, in una tardo
pomeriggio a Montevideo, un regalo: spedirgli dall’Italia Le
lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Perché per Socrates, Gramsci
fu il vero fuoriclasse italiano. Altro che Rivera o Sandrino Mazzola!
Già, quante belle storie da raccontare in televisione...
Pagina 99, 8 settembre
2017
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