Si torna a parlare di
György Lukács, grandiosa e ormai quasi emblematica figura del
marxismo del Novecento. Ricorre il centenario della nascita, ed è
questa l'occasione per un ripensamento critico: al convegno che si
apre domani ad Urbino, presso l'Università degli Studi, si
aggiungeranno in seguito altri appuntamenti internazionali. Con la
sua esperienza intellettuale e militante (al 1911 risale il suo primo
importante testo filosofico, intitolato L'anima e le forme).
Lukács ha attraversato le inquiete e talora brusche peripezie del
marxismo, sempre con una posizione di punta e spesso pagando
duramente di persona. Basti ricordare la scomunica (come "idealista"
e "revisionista") seguita alla pubblicazione, nel 1923, di
Storia e coscienza di classe; l'accusa di "deviazionismo
di destra" che nel 1928 lo escluse dal Comitato Centrale del
partito comunista ungherese; più tardi, durante l'ultima guerra,
l'arresto ad opera della polizia staliniana; e nel 1956 - quand'era
ministro della Pubblica Istruzione nella sua Ungheria - la
deportazione in Romania. Nel 1957 Lukács si ritirò infine dalle
cose pubbliche e si dedicò solo ai libri (la poderosa Estetica
e l'ultimo non meno monumentale progetto, L'ontologia dell' essere
sociale). Quando muore, nel 1971, è ancora in piena attività
intellettuale: attorno a lui un gruppo di allievi (tra cui Agnes
Heller) ha costituito una "scuola" che, prima di
disperdersi in vari paesi, sarà accusata di "estremismo"
teorico e messa al bando. Sono stati proprio questi allievi a
rilanciare negli anni Settanta il nome di Lukács: l'eco della
"teoria dei bisogni" si è spenta da poco in Italia,
sommersa dal rumore di fondo di una "crisi" generale del
marxismo che la Heller e i suoi amici avevano, per altro, anticipato.
L'autore di Storia e coscienza di classe, del Giovane
Hegel, della Distruzione della ragione e de L'ontologia
dell'essere sociale (tutte opere destinate a rimanere come
"classici" del marxismo teorico) conosceva l'autocritica:
riconobbe fondata l'accusa di idealismo e sempre più mirò (non
senza eccessi) a fare del marxismo un corpus filosofico compatto e
potente, capace di erigersi a sistema e di abbracciare in sè tutte
le zone del sapere. Anche qui, pensiamo solo alla sua vastissima
attività di critico e teorico della letteratura e dell'arte, sempre
sulle tracce di una compiuta e impossibile estetica marxista.
L'eretica "teoria dei bisogni", che scaturì dai suoi
stessi allievi, appare l'opposto di questo progetto sistematico: ci
furono discussioni accanite in seno al gruppo (di cui abbiamo anche
una testimonianza documentaria: cfr. aut aut, n. 157-158, 1977); ma
la statura morale e intellettuale di Lukács era tale che egli non
pronunciò mai una critica aperta nei confronti dei suoi allievi. Un
eccesso può essere considerata La distruzione della ragione (1954):
lì Lukács tracciava uno spartiacque netto tra buona e cattiva
teoria, tra razionalismo e irrazionalismo, convogliando in
quest'ultimo gran parte della filosofia contemporanea, da Nietzsche a
Husserl e naturalmente a Heidegger, e dimenticando le sue stesse
ascendenze, che non poco dovevano ad autori come Simmel o ancor più
Kierkegaard.
Una generazione intera ha
voluto o dovuto tener presente questo modello manicheo e riduttivo,
che risentiva del dogmatismo dell'epoca staliniana: ma la forza di
penetrazione che Lukács è riuscito a sviluppare emerge anche in
questo esempio "negativo": ancor oggi il linguaggio della
Distruzione della ragione non cessa di agire nelle immagini
mentali di quanti credono che tra razionalismo e irrazionalismo ci
sia una netta e irrevocabile divisione di territori.
Con gli anni Sessanta,
con il diffondersi della cultura critica, il rilancio di un marxismo
aperto, l'interesse per Adorno e Marcuse e la scuola di Francoforte,
lo sguardo è stato più spesso rivolto al Lukács non dogmatico di
Storia e coscienza di classe. Il libro, condannato e poi
ripudiato dal suo stesso autore, è tornato ad essere, in Italia come
in Germania e in Francia, un serbatoio di stimoli teorici: diversi
gruppi di intellettuali di sinistra lo hanno annotato ed usato. Le
pagine sulla "reificazione" della coscienza e sulla critica
del partito burocratizzato sono apparse illuminanti e premonitrici;
la stessa Heller vi avrebbe cercato, nel '68, i germi di molte delle
sue idee. Naturalmente il Lukács di Storia e coscienza di classe
ha continuato ad essere osteggiato come idealistico dai fautori del
marxismo "scientifico": quel modo di sposare Hegel con
Marx, poi ripreso e sviluppato da tutto il marxismo critico degli
anni Trenta, non poteva non essere sospetto a chi invece si sforzava
di saldare Marx con le leggi della scienza. Piaceva invece il Lukács
intransigente di dopo, che per esempio fustigava l' esistenzialismo
come teoria piccoloborghese e perniciosa. Ognuno, a sinistra, ha
avuto il suo Lukács. E oggi? Oggi potrebbe sembrare un teorico
lontano e inattuale, di cui gli storici del pensiero devono valutare,
ormai con distacco, l'ombra gigantesca che ha saputo proiettare su un
settore non piccolo della cultura di un secolo, con tutte le sue
contraddizioni e le sue svolte. Eppure un' immagine sèguita ad
attirare l'attenzione: proprio l'accanita ricerca di una teoria che
riuscisse a tenere assieme tutto, l' insistenza di Lukcs sull'idea di
"totalità", che è ben chiara fin da Storia e coscienza di
classe e sulla quale fino all' ultimo egli lavorò.
Il dibattito riguarda
così, soprattutto, L'ontologia dell' essere sociale (pubblicato
in Italia dagli Editori Riuniti). Quest'opera, che a molti appare lo
scacco della pretesa lukacsiana e la più inattuale fra tutte le sue,
la più deterministica e freddamente sistematica, viene invece difesa
ed esaltata da quanti credono nella possibilità che il marxismo
perduri come la spiegazione del mondo sociale. In questo senso Lukács
rimane una bandiera: l'esempio di uno sforzo di andare controcorrente
rispetto alle frammentazioni e ai relativismi, di un marxismo che non
accetta la sua crisi e che anzi si legittima come "ontologia
sociale", fondata sul lavoro e sulle leggi della dialettica. Si
intravede allora quello che potrebbe essere il leit-motiv delle
discussioni del centenario: la "totalità" che Lukács
cercava, è per il marxismo un sogno nostalgico o un progetto da
riprendere? Una sfida da accettare contro l'irrazionalismo e le
verità nomadi? Sarà comunque inevitabile che tirando questo filo ci
si debba imbattere in tutta la ricchezza di un pensiero che, proprio
perché non è mai stato lineare né centrato su un unico registro,
non si lascia certo riassumere in una sola domanda.
“la Repubblica”,12 febbraio 1985
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