Giovani palestinesi si scontrano con la polizia israeliana nella "Spianata delle moschee" |
Un viaggio nel quartiere
di Bab Hotta
tra povertà e occupazione militare
A Bab Hotta si respira
l’umore della città vecchia di Gerusalemme. È l’anima più vera
della zona araba, almeno di quella racchiusa dalle mura antiche. Non
è la più povera.
Quartieri come Issawiyeh,
Silwan, Abu Tur la superano in questa triste classifica ma qui si
vive di lavoretti, occupazioni saltuarie spesso di espedienti. Fare
il manovale o il cameriere in una trattoria nella zona ebraica è il
massimo al quale possono aspirare i giovani di Bab Hotta da quando la
Gerusalemme palestinese, con la costruzione del Muro israeliano, è
stata isolata dal resto della Cisgiordania.
«Mio fratello fino a
qualche tempo fa lavorava a Ramallah, poi ha dovuto rinunciare. Io
nemmeno ci provo», dice Alaa T„ 23 anni, mentre spazza la strada
davanti al negozio di souvenir dove fa il commesso da una settimana.
Salendo da Bab Hotta si
arriva nella via Dolorosa, invece dall’altro lato c’è la Porta
dei Leoni con accanto l’ingresso per la Spianata delle Moschee.
«È troppo complicato e
costoso lavorare a Ramallah - prosegue il giovane palestinese - Per
andare e tornare da lì con i mezzi pubblici si spendono anche 30
shekel al giorno (circa otto euro, ndr) e in un mese sono tanti
soldi. E poi ci sono i posti di blocco israeliani da superare. Per
passare (quello di) Qalandiya delle volte ci vogliono anche due ore.
Alla fine del mese hai sgobbato tanto e in tasca ti resta poco.
Perché a Ramallah o a Betlemme ti pagano poco».
Dalle parti di Bab Hotta
in verità si fanno anche soldi facili, vendendo hashish e, più di
tutto, droghe sintetiche.
Per cultura e religione
lo spaccio di droga, oltre al consumo, è condannato con forza dalla
comunità palestinese. Però degrado, disoccupazione e impoverimento
spingono a scegliere questa strada più facile per sopravvivere. E
non pochi palestinesi ora che quelle pilloline le prendono. Non Alaa
che, almeno così ci spiega, con gli stupefacenti non vuole avere
niente a che fare. Si proclama un credente vero.
Il mese scorso pregava in
strada, davanti alla Porta dei Leoni, assieme ad altre migliaia di
palestinesi per boicottare i sistemi di controlli predisposti da
Israele agli ingressi della Spianata delle Moschee dopo un attacco
armato avvenuto proprio a Bab Hotta.
Giorni di tensione e
scontri con la polizia in cui sono rimasti uccisi, tra Gerusalemme
Est e la Cisgiordania, almeno quattro dimostranti. Poi il governo
Netanyahu ha fatto retromarcia. Per i palestinesi è stata una
«vittoria».
«Abbiamo lottato
insieme, tutti uniti. E con noi c’erano anche (palestinesi)
cristiani. E alla fine abbiamo vinto. Netanvahu ha capito che per al
Aqsa siamo disposti a morire», ci dice Nabil Q., 22 anni, amico sin
dall’infanzia di Alaa. Anche lui è cresciuto a Bab Hotta.
Cosa vuol dire essere un
giovane palestinese a Gerusalemme, gli chiediamo. Nabil ci pensa su
qualche secondo. «Vuol dire amare al Aqsa, odiare Israele e
disprezzare l’Autorità nazionale palestinese (Anp)», risponde
prima di esplodere in una fragorosa risata assieme ad Alaa. una
battuta? Forse ma Nabil ha rappresentato in poche parole ciò che
hanno dentro i giovani di Gerusalemme Est: la Spianata come pilastro
al quale aggrapparsi non tanto o non solo per difendere un luogo
santo, quanto per riaffermare l’identità palestinese e il senso di
appartenenza a una città che Israele sta trasformando radicalmente e
che la debole Anp del presidente Abu Mazen non è in grado di
proteggere.
«Gli israeliani ci
possono cacciare via (da Gerusalemme) in un attimo, ti revocano la
residenza e sei costretto a trasferirti in Cisgiordania. E l’Anp
cosa fa? I suoi capi non aprono bocca», protesta Alaa non
riconoscendo sincerità alle posizioni prese da Abu Mazen contro i
recenti provvedimenti israeliani a Gerusalemme. «L’unica strada è
rimanere uniti come nei giorni scorsi quando abbiamo lottato e vinto
per al Aqsa. Solo se ci mostreremo un popolo unito potremo
difenderci», aggiunge Nabil.
La «vittoria» di Al
Aqsa è già lontana e la «sconfitta» di Netanyahu non modifica la
condizione dei circa 350mila palestinesi di Gerusalemme Est, specie
di quelli più giovani.
La mancanza di
prospettive politiche e la dipendenza dal lavoro manuale in Israele
ora spingono sempre più famiglie a prevedere per i figli un livello
d’istruzione inferiore quando nota il docente universitario ed
esperto di Gerusalemme Kamel Hawwash, i palestinesi hanno sempre
considerato «l’istruzione come un bene fondamentale per il loro
sviluppo sia come individui che come società sotto occupazione».
La miseria è diffusa,
aumenta la dipendenza degli abitanti palestinesi dai sussidi
governativi e comunali israeliani.
Nel 2012 l’Associazione
per i diritti civili (Acri) riferiva che il 78% dei palestinesi, tra
cui 1*84% bambini, vive al di sotto della soglia di povertà. La
necessità di aiutare le proprie famiglie convince molti adolescenti
a non proseguire gli studi e non pochi genitori approvano questa
scelta.
L’abbandono scolastico
oscilla tra il 26% e il 33% tra il penultimo e l'ultimo anno delle
superiori. L’uscita dalla scuola però non vuole dire trovare un
lavoro dignitoso. «Anche quando i giovani decidono di gestire il
negozio di famiglia nella città vecchia - spiega Hawwash - poi fanno
i conti con le politiche fiscali di Israele che non poche volte li
costringono a rinunciare a causa di una tassazione eccessiva». Tanti
perciò finiscono per lavorare part-time in Israele, aggiunge il
docente, «sperando di guadagnare quanto serve per sposarsi e per
possedere una casa. Ma ciò accade sempre di meno e questo costringe
(i giovani) a vivere con i loro genitori in condizione di
sovraffollamento».
Alaa e Nabil ci salutano.
Il primo va ad occuparsi di alcuni turisti russi che mostrano
interesse per le icone false che espone il negozio.
Il secondo si avvia verso
il quartiere ebraico nella città vecchia. Forse troverà un
commerciante disposto a pagargli 40-50 shekel per scaricare le merci
nel magazzino.
“il manifesto”, 6
agosto 2017
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