Barche a Mazara del Vallo
In una notte di giugno
dell’ 827, una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici,
Egiziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del
dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza
di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato
il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un
piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte
sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica
lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la
conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente,
fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo
ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia un emirato dipendente
dal califfato di Bagdad. In Sicilia, dopo le depredazioni e le
spoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini,
l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri,
i Musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di
risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di
rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre
Valli, rette dal Valì: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto;
rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi
sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque,
all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e
l’arancio, il sommacco e il cotone…); rifiorisce la pesca,
specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della
tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il
miracolo più grande durante la dominazione musulmana è lo spirito
di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, di razza, di
religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale
erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la
società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive
nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna
ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, Ibn Hawqal, il
geografo Idrisi. E sul periodo musulmano non si può che rimandare
alla Storia dei Musulmani di Sicilia, scritta da un grande
siciliano dell’ 800, Michele Amari. Storia scritta, dice Elio
Vittorini, “con la seduzione del cuore”. E come non poteva non
scrivere con quella “seduzione”, nato e cresciuto nella Palermo
che ancora conservava nel suo tempo non poche vestigia, non poche
tradizioni, non poca cultura araba? Tante altre opere ha scritto poi
Michele Amari sulla cultura musulmana. Per lui, nel suo esempio e per
suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori, memorialisti,
poeti arabi classici. Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in
Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ha avuto
eminenti figure come Levi Della Vida, Caetani, Nallino,
Schiapparelli, Rizzitano, fino al grande Francesco Gabrieli,
traduttore de Le mille e una notte.
Vogliamo ripartire da
quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara, in cui sbarcò la
flotta musulmana di Asad Ibn al-Furàt, per dire di altri sbarchi, di
siciliani nel Maghreb e di maghrebini, e non solo, in Sicilia.
Finisce la terribile e
annosa guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, guerra di
corsari musulmani e di corsari cristiani, finisce con la conquista di
Algeri nel 1830 da parte dei Francesi. Ma si apre anche da quella
data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo. E comincia, in quella
prima metà dell’ 800, l’emigrazione italiana nel Maghreb. È
prima un’emigrazione intellettuale e borghese, di fuorusciti
politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e
carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro
Colletta nella sua Storia del reame di Napoli : “Erano
quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese
rifugio ai fuoriusciti”. Dopo i falliti moti di Genova del 1834, in
Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Giuseppe Garibaldi, sotto
il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 1849 ancora si fa esule a Tunisi.
A Tunisi si era stabilita
da tempo una nutrita colonia italiana di imprenditori, commercianti,
banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto,
primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva,
la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto
di venti nazioni, che s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla
borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori
stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che
soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine.
Ma la grossa ondata
migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire
dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica
che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi
emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta,
di Sousse, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di
Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le
statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Anche
sotto il protettorato francese, ratificato con il Trattato del Bardo
del 1881, l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò
sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite
di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi
di fortuna. Gli emigrati già inseriti, al di là o al di sopra di
ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie,
società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914
giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento
vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le
comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho
percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori
del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato
il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria
viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”.
La fine degli anni
Sessanta del 1900 segna la data fatidica dell’inversione di rotta
della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una
storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono
tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste.
Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara
del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani
per la conquista della Sicilia. A Mazara, una comunità di 5.000
tunisini riempie i vuoti, nella pesca, nell’edilizia,
nell’agricoltura, che l’emigrazione italiana, soprattutto
meridionale, aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel
nostro Paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la
quarta guerra punica, la “guerra” del pesce, il contrasto vale a
dire fra gli armatori siciliani, che con i loro pescherecci
sconfinavano nelle acque territoriali nord-africane, contrasto con
le autorità tunisine e libiche. In questi conflitti, quelli che ne
pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi imbarcati sui
pescherecci siciliani. Sull’emigrazione maghrebina in Sicilia dal
1968 in poi, il sociologo di Mazara Antonino Cusumano ha pubblicato
un libro dal titolo Il ritorno infelice.
È passato quasi mezzo
secolo dall’inizio di questo fenomeno migratorio in Italia. Da
allora e fino ad oggi le cronache ci dicono delle tragedie
quotidiane che si consumano nel Canale di Sicilia. Ci dicono di una
immane risacca che lascia su scogli e spiagge corpi senza vita. Ci
dicono di tanti naufragi. E ci vengono allora in mente i versi di
Morte per acqua di T.S. Eliot :
Phlebas il Fenicio, da
quindici giorni morto,
dimenticò il grido dei gabbiani, e il profondo gonfiarsi del mare
e il
profitto e la perdita.
Una corrente
sottomarina
spolpò
le sue ossa in sussurri.
Le cronache ci dicono di
disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa.
Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia
e dal Marocco. Accordi ricattatori sono stati stipulati dal governo
italiano con il dittatore Gheddafi, ma i mercanti di vite umane
continuano sempre a spedire per Lampedusa barche cariche di uomini,
donne, bambini, provenienti dal Maghreb e dall’Africa subsahariana.
I famosi CPT, Centri di Permanenza Temporanea, a Lampedusa e in altri
luoghi non sono che veri e propri lager. Il governo italiano intanto
non fa altro che promulgare leggi xenofobe, razzistiche, di vero
spirito fascistico. Di fronte a episodi di contenzione di questi
disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri con le
forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e
di tentati suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane
altrettanto razzistiche si rimane esterefatti. Ci ritornano allora le
parole di Braudel riferite a un’epoca passata: “In tutto il
Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e
vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi
concentrazionari”.
Volendo infine entrare
nel tema di questo convegno La salute mentale nelle terre di
mezzo, vogliamo qui annotare che sono soprattutto le donne a
soffrire le violenze, i disagi della vita, del costume, della storia
e citiamo qui degli autori classici che in letteratura hanno
rappresentato questo dramma. L’Ofelia dell’Amleto di
William Shakespeare innanzi tutto; la suor Maria di Storia di una
capinera di Giovanni Verga; la Demente di Come tu mi vuoi
di Luigi Pirandello; Le libere donne di Magliano di Mario
Tobino; la donna reclusa in una stanza in Voci di Marrakech di
Elias Canetti.
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