«Nella battaglia per
diventare il Facebook degli scienziati ci sono dei lati oscuri che
potrebbero modificare significativamente il modo di fare ricerca».
Alessandro Delfanti, sociologo dei media all’Università di Toronto
in Canada, fa riferimento allo scontro in corso da anni tra diversi
social network specializzati sul mondo accademico per accaparrarsi i
milioni di studiosi disposti ogni giorno a condividere, scaricare e
valutare idee e ricerche dei colleghi. In un saggio di prossima
uscita sulla rivista “Cultural Anthropology”, all’interno di
una raccolta dal significativo titolo Le infrastrutture del male,
Delfanti mette in guardia dai possibili effetti negativi che i social
media potrebbero avere sulla scienza. Come afferma in un colloquio
con pagina99, «dietro le piattaforme sociali dedicate alla ricerca
si nasconde una crisi profonda del mondo universitario, che riguarda
sia la crescente precarietà del lavoro accademico, sia il modo in
cui i ricercatori producono e scambiano sapere».
I social media per
scienziati attualmente più popolari sono Academia.edu, spazio
di incontro generalista tra ricercatori che sul suo sito connette
oltre 50 milioni di accademici e ResearchGate, specializzato
nelle scienze della vita con circa 12 milioni di iscritti da quasi
200 Paesi. Un po’ più indietro, almeno per quanto riguarda i
numeri, Mendeley, eccellente strumento per organizzare le
bibliografie, usato da circa sei milioni di persone. Queste
piattaforme svolgono funzioni simili: permettono di condividere
online le pubblicazioni scientifiche, offrono suggerimenti per
seguire studiosi di tematiche affini, consentono di monitorare
l’impatto delle ricerche. In generale, esse si ispirano ai principi
della cosiddetta open science, espressione con cui si indicano le
pratiche e il movimento di opinione per rendere la ricerca più
accessibile e libera possibile.
Fagocitati da Elzevier
A un primo sguardo, i
social dedicati al mondo accademico sembrerebbero andare nella
direzione auspicata già qualche anno fa da apologeti della scienza
aperta come il fisico americano Michael Nielsen, il quale nel 2012,
in un libro-manifesto edito da Einaudi (Le nuove vie della
scoperta scientifica), prefigurava grazie a Internet
un’ottimistica e radicale transizione nella produzione di
conoscenza paragonabile alla rivoluzione scientifica del Seicento.
Una lettura più attenta del fenomeno ci dice che le cose non stanno
proprio così.
«Prima di tutto»,
afferma Delfanti, che annovera tra i suoi interessi la critica al
capitalismo digitale, «bisogna precisare che i social network
dedicati al mondo accademico sono controllati da aziende con fini di
lucro».
Mendeley e il Social
Sciences Research Network, usato soprattutto dai ricercatori
sociali, sono stati ad esempio entrambi acquistati, rispettivamente
nel 2013 e nel 2016, da Elsevier, il maggiore editore internazionale
in ambito medico e scientifico. Simile è la vicenda di Academia.edu,
che nonostante l’utilizzo di un dominio web riservato a scuole e
università, è un progetto orientato al profitto, con oltre 17
milioni di dollari raccolti negli anni grazie al supporto di diversi
investitori.
In tal modo gli editori
privati, neanche troppo indirettamente, intervengono nelle dinamiche
del movimento dell’open access, nato però proprio per limitarne il
monopolio nella gestione della letteratura scientifica.
Il valore dei dati
Un po’ come per
Facebook, dietro la gratuità e il libero accesso presentati dai
social media accademici come un’imprescindibile cifra identitaria,
si nasconde la vera miniera d’oro su cui si concentrano gli
interessi privati: i dati.
«Attraverso il controllo
delle piattaforme sociali», continua il sociologo in forze
all’Università di Toronto, «le multinazionali dell’editoria
accademica hanno accesso a una serie di informazioni estremamente
utili non solo per ragioni commerciali, ma anche per definire nuovi
sistemi di misura del lavoro degli scienziati». Diversamente dal
tradizionale impact factor, Academia.edu e ResearchGate
propongono ad esempio indici che fanno riferimento all’ampiezza del
network dei ricercatori o al numero di articoli scaricati. Sulla base
di questi dati vengono poi stabilite delle classifiche basate su
algoritmi non trasparenti. «I servizi offerti dai social media
accademici controllati da privati», continua lo studioso italiano,
«raccolgono e analizzano una grande quantità di informazioni sulla
lettura, le citazioni, le interazioni tra scienziati, per poi
assegnare un valore arbitrario a una specifica ricerca. Un aumento
dell’utilizzo e della pervasività di queste piattaforme alle
condizioni attuali darebbe loro un potere senza precedenti nei
processi di selezione e di valutazione della ricerca».
Più social, meno
ricerca
A questo aspetto si
aggiunge un’altra criticità legata all’esplosione del precariato
accademico in tutto il mondo. I social media intensificano infatti
soprattutto il lavoro dei sempre più numerosi ricercatori non
stabilizzati, che hanno la necessità di rendersi molto visibili se
vogliono aspirare a posizioni prestigiose e permanenti. «Da una
parte», conclude Delfanti, «assegnisti, borsisti e dottorandi hanno
spazi di pubblicazione e possibilità insperate per far circolare le
proprie idee. Dall’altra, per emergere sui social, come è noto,
occorre impiegare tempo ed energie da aggiungere al già intenso
lavoro in laboratorio». Il rischio è di non staccare mai, con il
dubbio fondato che a pagarne le conseguenze sia anche la qualità
della ricerca.
Pagina 99, 12 maggio 2017
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