All'inizio del 2010 Paolo
Flores d'Arcais fu invitato a dire la sua su Bettino Craxi di cui la
destra berlusconiana, nel decennale della morte, celebrava il
“martirio”, associandolo a quello che stava sopportando
Berlusconi, al tempo capo del governo e invischiato in storie
giudiziarie di varia natura. Neanche a sinistra ci si sottraeva:
Fassino rilasciava dichiarazioni compiacenti che davano ragione a
Craxi e torto a Berlinguer e Napolitano si apprestava a ricevere i
reduci dai riti svoltisi ad Hammamett.
Flores, piuttosto che
scrivere qualcosa di nuovo, incorniciò sul “Fatto quotidiano”
tra una premessa e una conclusione il saggio che aveva pubblicato su
“Micromega” nel 1986, senza peraltro segnalare tipograficamente
lo scarto. In esso si rappresentava la delusione precoce di un
intellettuale di sinistra che aveva salutato come un nuovo corso la
prima stagione di Craxi alla segreteria del PSI.
Nel racconto del
direttore di “MicroMega” c'è di sicuro una grande ingenerosità
verso il PCI di Enrico Berlinguer, ma – a mia memoria – il primo
Craxi suscitò attenzione anche dalle nostre parti, la sinistra del
PCI, e perfino Pintor, sul “manifesto” gli diede un po' di
credito nella speranza di non morire democristiani. Io stesso mi
illudevo che un Psi più competitivo, più esigente, più “di
sinistra” potesse rappresentare una sfida positiva per il mio
partito. Mantenni qualche vana speranza anche dopo il 1979, quando il
segretario socialista scelse la linea della “governabilità” e
del governo a ogni costo. Ma tra i missili a Comiso e il decreto su
punti di scala mobile dovetti presto abbandonarla e convincermi che
quello di Craxi era stato un bluff. (S.L.L.)
Un coro unanime chiede
che si discuta del Craxi politico, anzi statista, in modo equanime e
senza proiettare sulla sua intera vita pubblica le vicende
giudiziarie di cui diventa protagonista dopo il ’92 con l’inchiesta
“Mani Pulite”. D’accordo, è quanto proverò a fare, sine
ira et studio.
Il craxismo è stata la
politica egemone in Italia per un’intera fase, quella successiva al
crepuscolo del ‘68, esattamente come furono egemoni la politica di
De Gasperi prima e di Moro poi. Al Midas hotel, nel 1976, non si
consuma semplicemente un mutamento di segreteria ai vertici del Psi.
Craxi, energico fino all’arroganza, esprime una certezza: che le
circostanze politiche, malgrado ogni apparenza, schiudano ai
socialisti italiani un destino da protagonisti. Un’intuizione ad
alto tasso di realismo. Che viene immediatamente articolata in un
disegno politico dettagliato, inedito, coerente.
Craxi non si rassegna
all’anomalia del “caso italiano” e intende porvi fine,
avvicinando il paese alla normalità europea, dove in politica si
alternano al governo destra e sinistra, chiare maggioranze
conservatrici e altrettanto autosufficienti maggioranze
“progressiste”. L’Italia era l’unico paese del vecchio
continente dove un governo della sola sinistra (e dell'intera
sinistra) non si annunciava neppure nell’orizzonte degli
ipotizzabili. Bizzarra eccezione, che Craxi non intende subire.
Nessun destino cinico e baro, però. La sinistra italiana è anche
l’unica, infatti, a persistente egemonia comunista, e “riformista”
è aggettivo screditato, adibito allo scherno e all’insulto. Si
tratterà, allora, di ribaltare radicalmente la situazione.
L’alternativa di sinistra, che diviene il dichiarato obiettivo del
nuovo Psi, si legittima, del resto, quale strumento per un programma
che risponda alle inevase domande del paese in termini di equità ed
efficienza. L’orizzonte è quello d’un divario crescente fra i
valori della Costituzione e la pratica materialmente vigente. Lethos
dominante è informato alle regole dell’arte di arrangiarsi
piuttosto che al criterio della certezza del diritto e della buona
amministrazione, e (come osserverà Norberto Bobbio) vera Grundnorm è
il manuale Cencelli per la lottizzazione.
LA GRANDE RIFORMA
ISTITUZIONALE
Perché il Psi abbia un
futuro, dunque, le ostilità vanno aperte su due fronti: contro la
Dc, responsabile di una mancata modernizzazione a carattere europeo,
e verso il Pci responsabile, per dottrina e prassi ancora estranee
alla sinistra occidentale, del congelamento di un terzo
dell’elettorato. Per sbloccare la situazione, tuttavia (altra
intuizione decisiva), non può bastare un programma riformista
coerente (e la corrispondenza dei fatti alle parole): e ineludibile
anche una “grande riforma” delle regole elettorali e dei
meccanismi istituzionali. Le norme esistenti garantiscono assoluta
proporzionalità nella rappresentanza parlamentare ma sottraggono al
cittadino la scelta fra definite maggioranze di governo poiché
impongono il formarsi di una coalizione “al centro”. Il
cittadino, rappresentato fedelmente, conta sempre meno.
L’anticomunismo del nuovo gruppo dirigente socialista è di solida
tempra ma, soprattutto, esce fuori dagli schemi ordinari. Viene
combattuto il carattere rivoluzionario e insieme conservatore della
cultura comunista. Viene messo a fuoco l’essenziale: la cultura
dell’attesa “millenaria”, che disprezza il finito delle riforme
in nome dell’infinito della rivoluzione, consente i più mediocri
compromessi con l'esistente.
Lo zucchero di una
obsoleta filosofia della storia, quale risarcimento nell’immaginario
per la rinuncia a trasformare e progredire hic et nunc, è
l’ideologia che tiene insieme i militanti comunisti e unito il suo
gruppo dirigente. Il centralismo democratico ne rappresenta la
proiezione procedurale. Craxi avverte, tuttavia, che la questione
“partito” riguarda anche il Psi, frantumato nel caleidoscopio di
correnti, cordate, personalismi, e cementato poi dalla mentalità del
“partito degli assessori”. Di qui l’ipotesi di un proliferare
di club, l’idea stessa di una “area socialista” addirittura
privilegiata rispetto al partito, dove l’intellettuale e il
militante pratichino la virtù della disorganicità. Proponimenti
ambiziosi, quelli sommariamente richiamati. Il nuovo gruppo dirigente
socialista fa proprio solennemente il “progetto” elaborato dagli
intellettuali giolittiani, radicale e realistico, capace di offrire
concretezza ai valori della più seria (ancorché marginale)
tradizione della sinistra italiana: quella azionista.
Il craxismo si annuncia,
insomma, quale sfida riformista. Si tratterà, nei confronti di una
parte almeno dell’elettorato moderato (quella “moderna”,
“produttiva” , meno legata a clientelismo e confessionalismo), di
mostrare che il riformismo offre chance superiori anche in tema di
efficienza e di sviluppo. Si tratterà, sul versante della base
comunista, di dimostrare come solo la scelta riformista costituisca
un’alternativa praticabile al regime democristiano. E non già in
termini di tattica, schieramenti, occupazione di stanza dei bottoni,
ma di effettiva promozione del benessere, delle libertà, del potere
di quanti lavorano, sono emarginati, risultano comunque dei non
privilegiati. Questa strategia craxiana, benché arrischiata,
può essere vincente. Ad una condizione: che il suo referente resti
quell’ipotetica e virtuale nuova aggregazione di consensi da
suscitare giorno per giorno con la coerenza del riformismo.
Abbassare il tiro, concedere al piccolo cabotaggio, vorrebbe dire
restare invischiati nella mera redistribuzione partitocratica della
rappresentanza. Sotto questo profilo, fin dalle origini, il craxismo
esprime l’esigenza di una Seconda Repubblica. I movimenti del ’68
e dell’Autunno caldo, ma anche quello per i diritti civili promosso
a più riprese dai Radicali, esprimono disagio per la crescente
estraneità e chiusura dei partiti macchine e manifestano evidenti
istanze di cittadinanza. L’acquisita maturità democratica esige
vita politica attiva. Una Seconda Repubblica, più democratica “più
repubblica”, appunto (e meno partitocratica). All’epoca il
craxismo viene giudicato politica irresponsabile, destabilizzante,
avventurista. I più benevoli si domandano se tanto “estremismo”
non sia solo astuzia tattica transitoria.
L’IMPERATIVO: PSI AL
GOVERNO A TUTTI I COSTI
Veniamo, al craxismo
“secondamaniera”. Craxi si fa paladino della governabilità. Con
due stringenti conseguenze. Che il Psi dovrà essere governativo a
tutti i costi e dovrà, in modo altrettanto ineludibile, garantirsi
egemonia all’interno del governo. Il pentapartito diviene l’unica
formula praticabile. Ad essa è ora condannato Craxi. Il carattere
“corsaro” di tante iniziative socialiste nasce da qui. Dentro la
camicia di Nesso del pentapartito i socialisti devono sfruttare a
fondo, con micidiale spregiudicatezza, la rendita di posizione che
deriva loro da una collocazione di frontiera.
Momento tattico in vista
dell’alternativa, il pentapartito diviene per i socialisti un cul
de sac. E infatti. Risibile la minaccia di rovesciare le alleanze. Un
accordo col Pci priverebbe Craxi delle vaste simpatie moderate che
potrebbero domani trasformarsi in voti, e le restituirebbe alla più
stretta osservanza democristiana. (Risibile, reciprocamente, ogni
velleità democristiana di aprire ai comunisti, scavalcando i
socialisti. Sarebbe, per Craxi, il più opulento dei doni). Resta il
ricorso alle elezioni anticipate. O la speranza di più favorevoli
rapporti di forza in una prossima legislatura. Ma i dilemmi, in un
quadro di esacerbata rissosità, resterebbero i medesimi. Fino a che
il Pci resta il primo partito della sinistra, il Psi può sceglierlo
per alleato solo collocandosi all’opposizione. Una collocazione di
entrambi al governo esige preliminarmente un Psi superiore al Pci per
risultato elettorale. Fin quando, almeno, ci si comporterà col Pci
secondo la logica degli esami che non finiscono mai. Una volta finiti
quegli esami, però, la rendita di posizione socialista dileguerebbe,
poiché anche la Dc sarebbe legittimata al giro di valzer con i
comunisti. Paradossalmente, tuttavia, il craxismo può vantare il più
clamoroso e inedito dei successi. Craxi, infatti, non solo diviene il
capo del governo ma anche, e contemporaneamente, il capo effettivo
dell’opposizione. Se i democristiani si mostrano incapaci a
contrastarne l'iniziativa, i comunisti giocano di rimessa (o non
giocano affatto), avendolo come solo punto di riferimento. Dal punto
di vista scacchistico, Craxi li ha pressoché paralizzati entrambi.
In compenso, si governa poco (e male) e non ci si oppone affatto.
Paralizzate risultano, in altri termini, le due funzioni essenziali
della democrazia occidentale.
Vincere a scacchi in
politica non basta, se si tratti d una politica di riforme. Il
corso craxiano costituisce un simulacro e un surrogato della politica
di alternativa. Il privilegio accordato alla politica in chiave di
spettacolo, diventa ingrediente obbligato, poiché si tratta di
sostituire, col luccichio delle apparenze, la cosa stessa. Il
criterio del successo non può essere assunto come decisivo. In
termini di riformismo i dieci anni della segreteria Craxi, e i tre
anni di presidenza del governo, vanno giudicati come un bilancio
magro. I due provvedimenti governativi che più hanno inciso (e
incideranno ancora a lungo) nella vita concreta del paese, restano il
nuovo Concordato (arretratissimo) e la legalizzazione degli abusi
edilizi (un autentico scandalo). La riforma dei Codici di procedura
penale, il rinnovamento del processo civile, la riforma delle
carceri, restano nei cassetti. Tutto fermo, insomma, nel pianeta
Giustizia, malgrado l’urgenza da tutti riconosciuta. A surrogato,
tre referendum di lega dubbia, uno dei quali, certamente, lesivo
dell’autonomia dei magistrati.
Nessuna azione sul
terreno dell’istruzione scolastica, benché lo scadimento abbia
raggiunto livelli di guardia per un paese che intenda restare nel
“primo mondo”. A compenso, confusi accenni di privatizzazione
buoni solo a stringere sodalizio con Comunione e liberazione. Nulla
in fatto di alloggi, sanità, ambiente. Di trasformare il partito non
si parla più. Una resa al “partito degli assessori”, insomma.
Invece di puntare alla leadership dell’opposizione, rovesciando
all’interno di essa l’egemonia comunista e rendendo per questa
via plausibile un governo di alternativa (è quanto accade in Francia
e Spagna), Craxi decide per la rendita di posizione, punta tutto sul
ruolo di ago della bilancia di un sistema immobilistico. Poteva
replicare Mitterrand e Gonzales. Preferisce Ghino di Tacco. Lucra sui
difetti dell’attuale sistema politico, ma in tal modo li perpetua e
se ne fa garante.
ILLEGALITÀ E
QUESTIONE MORALE
Ma soprattutto: della
Grande riforma elettorale e istituzionale resta un topolino,
l’abrogazione del voto segreto in Parlamento, contro il malcostume
dei franchi tiratori. Effettivo malcostume, e censurabilissimo, ma
anche ultima e pallida (benché distorta) garanzia dell'indipendenza
del deputato rispetto al proprio partito. Le misure previste, da
sole, rendono trasparente il comportamento degli onorevoli allo
sguardo vigile delle segreterie, più che al controllo del cittadino,
e annientano la speranza che il deputato torni ad essere il
rappresentante della nazione (secondo l’articolo della
Costituzione). Resta in piedi, e si perpetua, il “caso italiano’’,
inteso in tutta la sua negatività. Quale luogo geometrico
dell’inefficienza amministrativa (dal fisco agli ospedali, e via
enumerando), della illegalità a macchia d olio, della eclissi del
cittadino. Intere zone del paese obbediscono a quel vero e proprio
ordinamento “giuridico” (così Kelsen) rappresentato da una
criminalità organizzata capace non solo di far rispettare la propria
“legge” ma anche di ottenere consensi di massa (oltre che
complicità nei partiti e negli organi-semi pubblici). Uno Stato
nello Stato, insomma, con il quale lo Stato tout court, in mano ai
partiti, sembra rassegnato a convivere, benché mafia e Camorra
rappresentino un’emergenza e una sfida di gran lunga più
pericolosa di ogni terrorismo. Del resto, quale possibilità di lotta
contro la criminalità se i partiti che governano (compreso il
governo delle autonomie locali), a fronte del taglieggiarnento
mafioso su gioco d’azzardo, droga, appalti e commercio, vantano il
taglieggiamento da tangente, a tariffe pubblicamente note, più
trasparenti delle quotazioni in Borsa?
E non si parli di
moralismo e di demagogia. Perfino verbiage sociologico del
Censis, apologetico cantore delle magnifiche sorti del “sommerso”
(in lingua volgare: imprenditori che non pagano tasse e sfruttano
lavoro nero), scopre la questione morale. Parla di decine di migliaia
di amministratori pubblici dediti alla tangente, denuncia
l’incalcolabile inefficienza, gli sprechi l'altissimo danno
economico, insomma, della violazioni del Codice in nome della “ragion
di partito”. Panorama levantino, eterna Italia dei “furbi” e
dei sudditi, altro che avvicinamento all’Europa. La partitocrazia
sottrae al cittadino la politica e, insieme, lo addestra alla
irrisione della legalità. In nome, magari, di “legge e ordine”.
Amara la conclusione. Il
Partito socialista rinuncia a quelle novità che potevano renderlo
protagonista. A farsi promotore di una Seconda Repubblica fondata
sulla rinascita del cittadino e sull’equità sociale. Solo
privilegiando il cittadino e ridimensionando il potere dei “padroni
della politica”, infatti, potevano mutare in profondità anche i
rapporti di forza fra i partiti e le relative quote elettorali. La
scelta fra riformismo e immobilismo non si giocava in termini di
schieramento e l'incontro fra socialisti e comunisti non metteva
affatto al riparo - di per sé – dal rischio di un profilo basso di
accordi (parziali e non) che pur maturassero. Conta poco, infatti,
che cambino le élite, gli uomini nelle stanze dei bottoni, il
partito che occupa il “centro”, se il gioco rimane lo stesso e i
cittadini continuano a restarne esclusi, spettatori apatici la cui
disaffezione ed estraneità viene magari spacciata per consenso. E
perfino un radicale mutamento di alleanze, una ritrovata unità a
sinistra, non garantiva affatto dal pericolo della deriva
conservatrice, priva di energia riformatrice, interna alla logica
della Repubblica dei partiti, incapace di por mano alla
indilazionabile opera di rifondazione tanto della Repubblica che
della sinistra. Quest’ultima non immune da mentalità e vizi tipici
della sindrome dorotea. L’interlocutore privilegiato va cercato
fuori, nella gente, sulla base di un programma e di uomini credibili
e affidabili (anche moralmente) per realizzarlo con coerenza.
Solo questo scenario
avrebbe consentito la speranza, poiché le ragioni della sinistra,
come ragioni di un riformismo coerente, restavano più che mai
all’ordine del giorno, per una Seconda Repubblica dei cittadini.
SEI ANNI PRIMA DI MANI
PULITE
Tutto quello che avete
letto fin qui non l’ho scritto in questi giorni ma agli inizi del
settembre 1986, oltre 23 anni fa. Con qualche taglio (e un paio di
inevitabili cambiamenti nei tempi dei verbi) è la riproduzione di un
saggio uscito sul numero 3 di “MicroMega”. Parola per parola,
senza cambiare un aggettivo o una virgola. Sei anni prima di “Mani
Pulite”, che allora nessuno immaginava. Eppure, era chiaro a
chiunque volesse vedere che la questione morale diventava ogni giorno
di più la questione politica per eccellenza, la cartina di tornasole
dirimente fra statisti riformisti e gaglioffi della partitocrazia.
“MicroMega” ribatterà su questo chiodo, quasi in solitudine, per
tutti quei sei anni. Non c’era insomma bisogno di aspettare “Mani
Pulite” per vedere che la spinta riformatrice del Craxi innovatore
si era esaurita da tempo. Nel 1979, per l’esattezza, quando non a
caso l’alleanza lombardiana e giolittiana che lo aveva fatto
eleggere al Midas tre anni prima decide di sostituirlo affidando ad
Antonio Giolitti la segreteria. Anima di quella niente affatto
“congiura” era Giuliano Amato, e tutto il gruppo della rivista
“Mondoperaio”. Il Comitato centrale della svolta era convocato
agli inizi del 1980. I numeri c’erano. L’intervento di Giolitti
era stato quello del nuovo segretario, ma un momento prima del voto
il lombardiano De Michelis passa armi e bagagli (alcuni membri del
Comitato centrale) con Bettino. Che negli anni lo ripagherà
lautamente. Il craxismo di cui si discute oggi nasce quel giorno.
Quello dei tre anni precedenti era stato tutt’altra cosa,
politicamente incentrato sul “Progetto socialista” di Lombardi
Giolitti e Ruffolo, ideologicamente in ammirazione di un padre nobile
come Norberto Bobbio. Quel craxismo prima maniera, non a caso, fu
inviso a quanti diventarono “laudatores” sperticati (Lucio
Colletti, per dire il nome più autorevole) del craxismo anni
Ottanta. Di questo secondo craxismo credo non ci sia proprio nulla da
salvare, neppure la mitica Sigonella 1985 (ben stigmatizzata da
Tabucchi). Ma è proprio questo craxismo, non quello del “Progetto”
e di Bobbio, che oggi si vuole indicare come innovazione. Era invece
la fine della brevissima stagione davvero liberal-socialista,
azionista, del Psi. Che fosse mera tattica in vista di un ritorno al
governo è possibile, lo affermano intimi di Craxi come Massimo Pini
(che naturalmente dà un giudizio opposto al mio), sulla scena
pubblica furono però due cose (due Craxi) completamente diverse.
Opposte. Il primo grande convegno internazionale del nuovo Psi, dal
titolo “marxismo, leninismo, democrazia”, nel 1978, ebbe come
relatori Gilles Martinet (rocardia-no di sinistra), Cornelius
Castoriadis (post-trotzkista libertario) e Rudy Dutschke (la bandiera
del ’68 a Berlino), tutti “anticomunisti”, ma da sinistra.
Ripeto: non a caso tantissimi, con Colletti, che detestarono il primo
Craxi divennero alfieri del secondo (e finirono coerentemente con
Berlusconi). L’unico craxiano ad aver affrontato con onestà
intellettuale, e dunque con lucidità, il tema del Craxi statista, è
stato anche il “più craxiano” nel senso delle idee e degli
ideali: Luciano Pellicani. Che fu il ghost writer del famoso
saggio di Craxi su Proudhon (e contro Marx). In un’intervista del 6
gennaio a “Il Riformista”, alla domanda “perché l’esperienza
craxiana si concluse con una sconfìtta?” ha risposto senza
cincischiare: perché “Craxi permise il dilagare della corruzione
nel partito, la accettò come un fatto fisiologico. Fu la sua più
grave responsabilità. Nel 1987 scrissi un articolo in cui avvertivo
che senza affrontare la questione morale il Psi non sarebbe
decollato” . E allora nulla ancora si sapeva di “conti
protezione” e dei fiumi di denaro rubati per il partito e per sé,
e le condanne definitive che ne seguirono. Perciò, che il Senato,
altissima istituzione della Repubblica, dedichi a Craxi, condannato
dalle istituzioni della stessa Repubblica a oltre dieci anni di
carcere, dunque a un h, fuggito per sottrarsi alla pena e
morto latitante, una commemorazione, è un oltraggio alle istituzioni
stesse. Che il presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità
della nazione, voglia in qualsiasi forma, anche la più soft,
avallare questo oltraggio, non dovrebbe far parte neppure
dell’orizzonte del pensabile.
"Il Fatto quotidiano", 17 gennaio 2010
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