Imparai in fretta a
leggere. Grazie al lustro di istruzione che avevo cominciato a
ricevere nella mia prima scuola, quella di Rua Martens Ferrào, di
cui riesco a rammentare solo l’entrata e la scalinata sempre buia,
passai, quasi senza transizione, alla frequenza regolare degli studi
superiori della lingua portoghese nella figura di un giornale, il
«Diàrio de Noticias», che mio padre portava a casa tutti i giorni
e che suppongo gli fosse offerto da qualche amico, un giornalaio,
forse il padrone di una tabaccheria. Comprare, non credo lo
comprasse, per la pertinente ragione che non ci avanzava denaro da
sprecare in simili lussi. Per dare un’idea chiara della situazione,
basterà dire che per anni, con assoluta regolarità stagionale, mia
madre andava a portare le coperte al monte di pietà quando l’inverno
terminava, per riscattarle solo, risparmiando centesimo su centesimo
per poter pagare gli interessi tutti i mesi e il recupero finale,
quando i primi freddi cominciavano a farsi sentire. Ovviamente, non
avrei saputo leggere di filato il già allora storico giornale del
mattino, ma una cosa
mi era chiara: le notizie
erano scritte con gli stessi caratteri (noi le chiamavamo lettere,
non caratteri) dei quali stavo imparando a scuola nomi, funzioni e
reciproci rapporti. Di modo che, sapendo sillabare ancora a stento,
già leggevo, senza accorgermi che stavo leggendo. Identificare nello
scritto del giornale una parola che conoscevo era come trovare lungo
la strada un cippo lì a dirmi che andavo bene, che ero nella
direzione giusta. E fu così, in questa maniera un po' inusuale,
«Diàrio» dopo «Diàrio», mese dopo mese, facendo finta di non
udire le battute degli adulti di casa che si divertivano perché me
ne stavo lì a guardare il giornale come se fosse un muro, che giunse
il mio momento di lasciarli a bocca aperta quando, un giorno, d’un
fiato lessi a voce alta, senza titubare, nervoso ma trionfante, un
certo numero di righe di seguito. Non capivo tutto quello che
leggevo, ma questo non importava. Oltre a mio padre e mia madre, i
suddetti adulti, prima scettici, ora soggiogati, erano i Barata.
Orbene, accadde che in
quella casa dove non c’erano libri, un libro c’era, uno solo,
grosso, rilegato, se non erro, in azzurro chiaro, che si intitolava
La capinera del mulino e il cui autore, se la mia memoria ci
azzecca anche questa volta, era Émile de Richebourg, al cui nome le
storie della letteratura francese, anche le più minuziose, non credo
facciano granché caso, ammesso che lo abbiano mai considerato, ma
che fu persona abilissima nell’arte di esplorare con la parola i
cuori sensibili e i sentimentalismi più impetuosi.
La proprietaria di questo
gioiello letterario assoluto, da tutti gli indizi risultante
anch’esso da una previa pubblicazione in fascicoli, era Conceiçao
Barata, che lo teneva in serbo come un tesoro in un cassetto del
comò, avvolto in carta velina, con odore di naftalina. Questo
romanzo sarebbe divenuto la mia prima grande esperienza di lettore.
Ero ancora ben lontano dalla biblioteca del Palazzo das Galveias, ma
il primo passo per arrivarci era stato fatto. E dato che la nostra
famiglia e quella dei Barata vissero insieme per un buon paio d’anni,
il tempo mi fu più che sufficiente per ultimare la lettura e
ricominciare da capo. Contrariamente, però, a quello che mi era
successo con Maria, la fata dei boschi, non riesco, per quanto
abbia tentato, a rammentare un solo brano del libro. Emile de
Richebourg non gradirebbe questa mancanza di considerazione, lui che
pensava di avere scritto la sua Capinera con inchiostro
indelebile. Ma le cose non si sarebbero fermate qui. Anni dopo sarei
venuto a scoprire, con la più grande delle sorprese, che in quel
sesto piano di Rua Femào Lopes avevo letto anche Molière. Un giorno
mio padre si presentò a casa con un libro (non riesco a immaginare
come potesse averlo avuto proprio lui) che era niente di meno che una
guida di conversazione portoghese-francese, con le pagine divise in
tre colonne, la prima, a sinistra, in portoghese, la seconda,
centrale, in lingua francese, e la terza, accanto a quest’ultima,
che riproduceva la pronuncia delle parole della seconda colonna.
Tra le varie situazioni
in cui si sarebbe potuto trovare un portoghese che dovesse comunicare
in francese con l’aiuto della guida di conversazione (in una
stazione ferroviaria, alla reception di un albergo, in un noleggio di
carrozze, fri un porto marittimo, da un sarto, ad acquistare i
biglietti per il teatro, a provare un abito dal sarto, eccetera),
compariva inopinatamente un dialogo fra due persone, due uomini, uno
dei quali era qualcosa tipo un maestro e l’altro una specie di
allievo. Lo lessi molte volte perché mi divertiva lo stupore
dell’uomo che non poteva credere a quello che il professore gli
diceva, che lui faceva prosa sin dalla nascita. Io non sapevo niente
di Molière (e come avrei potuto saperlo?), ma ebbi accesso al suo
mondo, entrando dalla porta principale, quando ancora avevo superato
a stento l'a-e-i-o-u. Non c’era dubbio, ero un ragazzo fortunato.
Da Le piccole memorie,
Einauidi 2007 – trad. Rita Desti. In “il manifesto”, 7 giugno
2007
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