Le Terme di Caracalla ove, fra l'altro, i Romani giocavano a palla |
ROMA
Nell'Iliade e
nell'Odissea un vero e proprio bagno di pulizia si faceva solo
a mare o a fiume: Ulisse e Diomede, stanchi e sudati dopo una bravata
notturna, entrano in mare fino alla cintola e si sciacquettano ben
bene prima di sedersi a tavola con gli amici; Nausicaa e le sue
ancelle, finito di lavare i panni di tutta la famiglia, si tuffano
nel fiume. E sempre all'aria aperta erano, nella Grecia arcaica, i
bagni costruiti per gli atleti accanto alle palestre. In casa si
usava la tinozza che, a Roma, stava in un bugigattolo oscuro situato
accanto alla cucina. Questo locale si chiamava lavatrina, diventata
poi, per sincope, latrina. E se già in epoca romana la parola aveva
acquistato un significato diverso, un motivo c'era: da un certo
momento in poi, niente più lavaggi in latrina: tutti alle terme.
Proprio tutti: ricchi e poveri, uomini e donne, giovani e vecchi,
liberi e schiavi. Il prezzo d'ingresso era alla portata di qualsiasi
borsa; si pagava sempre con la moneta più piccola dell'emissione in
bronzo dell' epoca: un quadrante ai tempi di Orazio, due denari
nell'età di Diocleziano.
I bagni pubblici (le
terme) non li hanno inventati i romani i più antichi sono stati
trovati a Olimpia e rimontano al V sec. a.C. , ma è stata Roma a
fare della frequentazione delle terme una gioia della vita, proprio
come l'amore e il vino (Balnea, venus et vinum vitam faciunt).
Ogni giorno nell'affanno del vivere c'era una pausa nelle prime ore
del pomeriggio per dedicarsi al corpo, alla sua pulizia, al suo
benessere, e al piacere di stare insieme agli altri, di parlare, di
ascoltare: vita non est vivere sed valere (la vita non
consiste nel vivere, ma nel sentirsi bene). Le terme furono un
elemento così essenziale e così caratteristico della vita romana,
che in tutte le province dell'impero dai confini africani al vallo di
Adriano il segno specifico della romanizzazione è appunto la
presenza degli edifici termali.
La mostra Terme romane
e vita quotidiana, organizzata dal Comune di Roma al Museo della
Civiltà romana, è la replica di quella tenutasi due anni fa a
Castiglioncello e a Rosignano Marittimo. È una mostra, visivamente,
di proporzioni modeste; in cambio si apprende molto sulle tecniche
edilizie, sulle cure termali, sullo sport e sulla mentalità dei
romani leggendo cartelloni e catalogo. Nella storia delle terme il
salto qualitativo avvenne, nel primo secolo a.C., con l'invenzione
del sistema di riscaldamento ad ipocausto, cioè convogliando l'aria
calda sotto il pavimento e dietro le pareti; con questo sistema i
locali venivano mantenuti a calore costante, senza spiacevoli sbalzi
di temperatura. Sotto il pavimento delle terme ce n'era un secondo,
più basso di 60 centimetri e nello spazio vuoto circolava l'aria
calda che poi risaliva lungo tubi di terracotta inseriti nelle
pareti. Nel calidario i tubi arrivavano fino alla volta, foderando
completamente l'ambiente.
Fu Agrippa, braccio
destro di Augusto, il grande sostenitore delle terme come luogo di
socializzazione. Agrippa non era disinteressato: cercava consensi
alla politica imperiale inaugurata dall'imperatore, ma fu lui, che si
sappia, il primo in assoluto a sostenere che era ingiusto che i
grandi capolavori di scultura fossero segregati nelle case dei
ricchi; dovevano stare sotto gli occhi di tutti, nelle terme. E in
quelle che lui fece costruire, gratis per tutti, nella zona che oggi
si estende tra il Pantheon e Largo Argentina, c'era una bella
collezione di capolavori. Ai tempi di Agrippa, a Roma già
funzionavano circa 170 terme gestite da privati; e queste erano a
pagamento, tranne che per militari e ragazzi. Le donne chissà perché
pagavano il doppio degli uomini. Dopo quelle di Agrippa, le terme
costruite dagli imperatori Traiano, Caracalla e Diocleziano erano
tutte gratuite e avevano tutte la stessa pianta: un corpo centrale
che era la vera zona dei bagni; tutt'intorno la palestra e un vasto
giardino dove pergole, boschetti, viali, fontane formavano belle
prospettive; infine lungo il muro di cinta, che era a portici,
biblioteche, sale da conferenze (musaea) e sale da musica
(auditoria). Si entrava nello spogliatoio (custodito da un
guardiano: i furti erano frequenti) e si depositavano i vestiti negli
appositi armadietti. Di là si passava nella palestra dove, seminudi
e spalmati d'olio, si faceva ginnastica (anche le donne).
L' esercizio più
consigliato contro l'obesità era la lotta: vietato usare i pugni,
bisognava vincere con la pressione del corpo e l' intreccio delle
membra. Il gioco più praticato era quello della palla (pila), che in
genere era riempita di piume; ma ce n'era un tipo che invece era
piena di sabbia e serviva a giocare a una specie di rugby: il
giocatore doveva impadronirsene e cercare di conservarla il più a
lungo possibile mentre gli veniva contesa, a spinte, dagli avversari.
Finita la ginnastica, cominciava il bagno. Dall'ambiente
surriscaldato del calidario si passava, dopo una sosta nella sala a
calore tiepido, all'immersione nelle vasche di acqua fredda.
Seguivano unzioni, massaggi, depilazioni e, infine, passeggiate nei
viali del giardino o sotto i portici.
Passati bruscamente da
un'epoca in cui il bagno si faceva in media ogni otto giorni alle
comodità delle grandi terme, molti abusavano dei bagni caldi e
spesso qualcuno ci restava secco. Era anche una questione di mode: un
momento tutti esaltavano gli effetti miracolosi dei bagni caldi,
subito dopo si proclamava che niente faceva così bene come i bagni
freddi. Questi ultimi divennero molto di moda quando un giovane
medico, il liberto Antonio Musa, ebbe l'ardire di sottrarre Augusto,
malato di epatite, alle cure dei suoi affermatissimi colleghi (che
gli avevano prescritto bagni caldi e vapori in un ambiente tappezzato
di pellicce) e lo convinse a immergersi nella vasca del frigidario.
Augusto, che pure era molto cagionevole, sopravvisse, guarì e fece
erigere una statua a Musa, il cui successo non fu sminuito dal fatto
che Marcello, il giovane nipote di Augusto, da lui sottoposto alla
stessa cura, morì. A Roma, comunque era convinzione generale che i
bagni quotidiani giovassero alla salute. Persino Cicerone, per una
volta tanto spiritoso, di un tale che era appena deceduto disse:
“Finché è andato alle terme non è mai morto”.
Lo straordinario lusso
delle terme e la promiscuità dei sessi (ogni tanto le ordinanze
degli imperatori ribadivano che gli uomini dovevano fare il bagno da
una parte e le donne da un' altra, ma nessuno le rispettava)
offrivano ai conservatori l'occasione per rimpiangere il bel tempo
antico, quando Scipione l'Africano si lavava in un bagnetto piccolo e
buio e usava acqua limacciosa. Si lavava braccia e gambe, e solo ogni
nove giorni faceva il bagno (Seneca). Un'altra volta è Cicerone a
indignarsi perché ragazzi e ragazze fanno il bagno assieme e ricorda
i tempi in cui non solo le donne avevano pudore, ma nessun figlio si
sarebbe azzardato a denudarsi davanti a suo padre.
Nelle terme si aggirava
gente di tutti i tipi: accattoni che ci venivano per stare al caldo,
venditori di salsicce e di bibite, squattrinati decisi a scroccare un
invito a pranzo, mezzani, prostitute, commercianti, letterati,
magistrati. E i ricchi, sebbene possedessero terme private,
preferivano esibirsi in quelle pubbliche: ci venivano accompagnati
dal medico personale e da un codazzo di schiavi che li asciugavano,
li massaggiavano, li profumavano. Anche Plinio il Vecchio era un po'
esibizionista: si portava sempre dietro un segretario a cui dettava
mentre stava in vasca. Ci andava persino l'imperatore Adriano con la
famiglia.
Alle terme succedeva di
tutto: anche che il mandante dell'assassinio di Clodia vi desse
appuntamento al killer per consegnargli il veleno. Perciò è
naturale che scrittori e poeti latini ne abbiano colto gli aspetti
più congeniali al loro temperamento. A Marziale i corpi nudi di
uomini e donne suggeriscono solo scherzi sulla potenza o impotenza
amatoria dei rispettivi proprietari. Ovidio, invece, che in esilio
soffre di solitudine e di nostalgia, si strugge al ricordo delle ore
passate con gli amici nel giardino delle terme di Agrippa a leggere
poesie. Ma è di Marziale un invito a pranzo, molto affettuoso, a un
amico. Dice così: “Vieni a pranzo da me. Vieni alle due. Prima
andremo insieme alle terme che sono proprio sotto casa. Poi ti darò
lattuga, porro e uova. Te lo prometto: non ti leggerò le mie
poesie”.
“la Repubblica”, 5
febbraio 1989
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