31.10.17

Il dovere di dire di no. Leonardo Sciascia, o dei perdenti (Rossana Rossanda)

Ci sono vite che sembrano venir a termine con un periodo della cultura, quando la loro voce si isola. È difficile non pensar questo di Leonardo Sciascia, spentosi forse prima del tempo - se mai è il tempo - mentre la sua figura di scrittore politico, nel senso settecentesco di indagatore delle cose del mondo, fin poco tempo fa molto amata, era stata contestata sotto quel profilo morale che era più il suo. Contestata come se fosse lecita su di lui un’ombra di dubbio, giacché ci sarebbero settori del politico nei quali cade la nettezza del metodo e vale la guerra con tutti i mezzi. E chi con tutti i mezzi non la vuole, perché non crede che sia la stessa guerra, è collocato dalla parte del nemico.
Questo immiserirsi della realpolitik, Leonardo Sciascia non l’aveva mai accettato. Aveva scritto scrutando la storia, anzi le storie, come metafore della libertà - una libertà messa in causa, spesso in scacco, dai meccanismi dell’intolleranza o da quelli degli interessi, di potere o di denaro. La vicenda siciliana era la metafora assoluta. Ma nel suo raccontare, che era anche un inquisire fra le ombre per restituire la verità, a lungo era stata inseguita e colta la persona libera: e se periva, o molto raramente vinceva, non inquinata, non distorcibile da meccanismi avvolgenti al di là delle intenzioni e volontà.
Era la fiducia illuministica nella possibilità, oltre che nel dovere, di dire «no», di non scivolare su terreni infidi in nome della eterogenesi dei fini. Più che essere torturati e uccisi o finire in un blocco di cemento, non si poteva.
Ma negli anni ’70 questa fiducia era sparita. E centrale, anche dilemmatico, era diventato nel suo narrare l’assedio alla volontà retta, all’intenzione impeccabile, da parte di un sistema di poteri che pareva accerchiabile solo in quanto se ne introiettassero alcuni modi. E quindi l’ambiguità della persona, lo sfumare dei contorni, le molte facce d’una verità non solo apparente ma anche reale -come se l’«essere» morale o sociale, e quindi un’idea del diritto, fossero inesorabilmente oscurati e aggrovigliati, in una sorta di pirandellismo dove tutto finiva con l’essere non terribile e innocente, ma terribile e colpevole.
La delusione per l’involversi della sinistra, per lui che, da una tradizione del tutto diversa da quella comunista, era stato molto vicino al Pci, si era accompagnata a un rivoltarsi alla lotta contro la mafia che, finiti o messi fuori gioco i Li Causi o i Pantaleone, gli pareva condotta con metodi tali da incrinarne il senso.
Attaccò e fu attaccato; come ingenuo o «oggettivamente» colludente. E in verità la sua idea del bene e del male pubblici, del fare pubblico, per non dire della giustizia, nel nostro mondo sono state isolate. Chi di noi, con minore autorità e sapienza, le condivide, si sa estraneo e, come i suoi personaggi, perdente.


“il manifesto”, 21 novembre 1989

Nessun commento:

statistiche