Ci sono vite che sembrano
venir a termine con un periodo della cultura, quando la loro voce si
isola. È difficile non pensar questo di Leonardo Sciascia, spentosi
forse prima del tempo - se mai è il tempo - mentre la sua figura di
scrittore politico, nel senso settecentesco di indagatore delle cose
del mondo, fin poco tempo fa molto amata, era stata contestata sotto
quel profilo morale che era più il suo. Contestata come se fosse
lecita su di lui un’ombra di dubbio, giacché ci sarebbero settori
del politico nei quali cade la nettezza del metodo e vale la guerra
con tutti i mezzi. E chi con tutti i mezzi non la vuole, perché non
crede che sia la stessa guerra, è collocato dalla parte del nemico.
Questo immiserirsi della
realpolitik, Leonardo Sciascia non l’aveva mai accettato.
Aveva scritto scrutando la storia, anzi le storie, come metafore
della libertà - una libertà messa in causa, spesso in scacco, dai
meccanismi dell’intolleranza o da quelli degli interessi, di potere
o di denaro. La vicenda siciliana era la metafora assoluta. Ma nel
suo raccontare, che era anche un inquisire fra le ombre per
restituire la verità, a lungo era stata inseguita e colta la persona
libera: e se periva, o molto raramente vinceva, non inquinata, non
distorcibile da meccanismi avvolgenti al di là delle intenzioni e
volontà.
Era la fiducia
illuministica nella possibilità, oltre che nel dovere, di dire «no»,
di non scivolare su terreni infidi in nome della eterogenesi dei
fini. Più che essere torturati e uccisi o finire in un blocco di
cemento, non si poteva.
Ma negli anni ’70
questa fiducia era sparita. E centrale, anche dilemmatico, era
diventato nel suo narrare l’assedio alla volontà retta,
all’intenzione impeccabile, da parte di un sistema di poteri che
pareva accerchiabile solo in quanto se ne introiettassero alcuni
modi. E quindi l’ambiguità della persona, lo sfumare dei contorni,
le molte facce d’una verità non solo apparente ma anche reale
-come se l’«essere» morale o sociale, e quindi un’idea del
diritto, fossero inesorabilmente oscurati e aggrovigliati, in una
sorta di pirandellismo dove tutto finiva con l’essere non terribile
e innocente, ma terribile e colpevole.
La delusione per
l’involversi della sinistra, per lui che, da una tradizione del
tutto diversa da quella comunista, era stato molto vicino al Pci, si
era accompagnata a un rivoltarsi alla lotta contro la mafia che,
finiti o messi fuori gioco i Li Causi o i Pantaleone, gli pareva
condotta con metodi tali da incrinarne il senso.
Attaccò e fu attaccato;
come ingenuo o «oggettivamente» colludente. E in verità la sua
idea del bene e del male pubblici, del fare pubblico, per non dire
della giustizia, nel nostro mondo sono state isolate. Chi di noi, con
minore autorità e sapienza, le condivide, si sa estraneo e, come i
suoi personaggi, perdente.
“il manifesto”, 21
novembre 1989
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